Ad ottobre 2002 ha festeggiato un milione di partecipanti, con l’anno accademico 2005-2006 ha raggiunto quota un milione 500 mila, nel 2011 arriverà a tre milioni: al ritmo di oltre 150 mila studenti l’anno il programma Erasmus rischia di essere l’iniziativa comunitaria che raccoglie il maggior numero di entusiasmi, più dell’euro, della politica agricola, del mercato comune, dello spazio Schengen.
Il programma Erasmus rappresenta per alcuni l’emblema del progetto di unificazione europea, al punto da coniare l’espressione “generazione Erasmus” per indicare una generazione di giovani che parlano più di una lingua straniera, trovano normale spostarsi per studio o per lavoro nel continente, vivono già in una dimensione europea. C’è lo studente che parte impaurito per la prima esperienza lontano dalla famiglia, c’è chi non torna più e decide di trasferirsi direttamente all’estero, chi si limita a imparare bene una lingua straniera (e già questo è un risultato non disprezzabile affatto), chi torna arricchito semplicemente dal punto di vista umano. C’è chi addirittura ne fa un film (con i relativi sequel), come il francese Cedric Klapisch, regista di una simpatica commediola (L’Auberge espagnol) con protagonista un francese catapultato a Barcellona.
La mobilità degli studenti in Europa tramite il programma Erasmus sta da anni riscuotendo un certo interesse da parte dell’opinione pubblica che si è ulteriormente evidenziato in occasione dei festeggiamenti del ventennale del programma stesso: per l’occasione sono stati celebrati incontri e convegni, aperti siti web e forum. Tale interesse non ha ancora trovato, tuttavia, un’adeguata risonanza in ambito accademico. Le ricerche pregresse sul tema si concentrano soprattutto sul livello istituzionale dell’esperienza oppure approfondiscono la sua dimensione funzionale, analizzando come la mobilità per studio incida sul percorso formativo e professionale degli studenti coinvolti»[1].
Un’osservazione dell’esperienza Erasmus in chiave sociologica può offrire un angolo prospettico significativo per indagare come le nuove generazione vivano e diano senso al processo di integrazione europea. L’esperienza Erasmus avvicina i giovani a una dimensione transnazionale, ma non nella forma impersonale e anonima dei mezzi di comunicazione di massa, bensì nelle modalità di una esperienza concreta che coinvolge i partecipanti per alcuni mesi, lasciando però tracce profonde per tutta la vita. La mobilità per studio viene esperita dai giovani in una fase cruciale del loro percorso di socializzazione, agendo in forma significativa sul vissuto individuale, in termini di formazione culturale e di definizione identitaria. Si tratta di una vera e propria “palestra” per gli europei del domani, un’opportunità che favorisce processi di apprendimento, anche informali, della cittadinanza.
L’esperienza Erasmus, per come è vissuta dai giovani, è infatti qualcosa di più che l’opportunità di studiare all’estero: ciò che ne costituisce il punto di forza risiede proprio negli aspetti extra-curriculari, in particolare nell’apertura culturale, nell’allargamento degli orizzonti, nel rafforzamento dei potenziali riflessivi che l’esperienza di vita all’estero offre.
Sono almeno quattro le finalità perseguite dal programma Erasmus»[2]:
1. Contribuire alla creazione di un mercato europeo del lavoro, favorendo la mobilità e una europeizzazione delle carriere professionali.
2. Favorire il trasferimento di competenze e tecnologie tra i paesi dell’Unione, quale elemento essenziale al fine di realizzare gli obiettivi di Lisbona.
3. Promuovere il dialogo, il confronto, la comprensione interculturale, fondamentale al fine di favorire l’affermazione di una coscienza europea.
4. Fornire ai giovani strumenti culturali e cognitivi necessari per sviluppare autonomia e riflessività, per renderli cittadini più consapevoli e partecipi.
Un elemento non secondario, all’interno di questo programma complessivo di promozione di una coscienza europea nei giovani, è l’apprendimento di una lingua straniera: la Commissione Europea indica nei suoi documenti il multilinguismo come una ricchezza da perseguire, quale dimensione strategica per l’affermazione di un’Europa da intendersi come “unità nella diversità”, e contribuendovi attivamente tramite i programmi di formazione, apprendimento e mobilità.
L’Erasmus rappresenta uno spazio di autonomia dalla famiglia in un contesto di vita quotidiana, di conoscenza, di messa alla prova, ma anche un luogo di confronto con l’alterità e di costruzione di forme di integrazione riflessiva. Ciò all’interno di un’esperienza protetta e istituzionalizzata in cui l’indipendenza non si associa a una reale autonomia economica. L’esperienza Erasmus può costituire una sorta di nuovo rito di passaggio, in un contesto in cui la condizione giovanile si definisce proprio per il difficile connubio tra autonomia e dipendenza, e in cui la transizione dallo status di adolescente allo status di adulto non corrisponde più al superamento, più o meno concomitante, di alcune soglie: la fine degli studi e l’ingresso nel mondo del lavoro, la costruzione di una famiglia, l’acquisizione dell'indipendenza abitativa. Oggi il superamento di tali soglie si procrastina e si sfasa, riflettendosi in un dilatamento della stessa condizione giovanile. Per i giovani adulti di oggi la piena acquisizione dell’indipendenza avviene in forma ritardata e la ricerca dell’autonomia convive con la consapevolezza della non piena indipendenza. Si tratta della condizione tipica dello studente Erasmus, che vive un’indipendenza abitativa, talvolta provvisoria, accompagnata spesso da una dipendenza economica dalla famiglia di origine, a fronte di una borsa assolutamente insufficiente a coprire le spese del soggiorno.
Il programma Erasmus fornisce allo studente «un senso di quiete nella corsa», per usare l’espressione di una studentessa intervistata in una ricerca della Commissione Europea. La stessa studentessa aggiunge: «In Erasmus vivi in una dimensione spazio-temporale che ha regole e ritmi propri, che regala una leggerezza (ma non superficialità) e una predisposizione verso gli altri e verso il nuovo paragonabile solamente allo spirito dell’infanzia».
Dal punto di vista del soggetto che lo vive, il programma Erasmus non è un segmento separato interno a un ciclo vitale, ma la ruota di un ingranaggio che continuerà a girare anche successivamente al periodo di studio universitario passato all’estero. Sono emblematiche le parole di Elena, una ex studentessa Erasmus intervistata per www.ventidierasmus.it, la cui testimonianza è reperibile nella sezione “Esperienze” del sito: «anche adesso, che sono un’impiegata e ho due figli, quei venti mesi trascorsi in Germania sono una parte di me».
Se è vero, dunque, che l’esperienza di studio universitario all’estero ha una forte valenza extra-curriculare, dal momento che incide sull’aspetto identitario e sul rafforzamento della riflessività del giovane molto più che non sulla specializzazione lavorativa o sul bagaglio conoscitivo, non si può disconoscere anche la sua ricaduta professionale. La permanenza all’estero per motivi di Erasmus permette, oggi, l’arricchimento del proprio curriculum e incontra, nei colloqui di lavoro, il gradimento di un numero sempre maggiore di selezionatori. A ben vedere, l’Erasmus promette una forma di mobilità orizzontale e integrativa, veicolo di educazione all’alterità e prezioso strumento di formazione personale, sia in termini professionali che espressivi»[3].
Anche i recenti festeggiamenti del ventennale del programma sono stati ispirati a una filosofia di comparazione tra la mobilità studentesca in Europa e la costruzione di un’identità continentale, tanto che il festival “Venti di Eramus” è stato associato alla terza edizione della “Festa dell’Europa”. D’altronde, se il 2007 ha rappresentato il ventennale del programma Erasmus, l’anno precedente (2006) era stato definito “Anno Europeo della Mobilità dei Lavoratori”. La figura del cittadino europeo in mobilità professionale si discosta oggi dalla figura classica dell’emigrante otto-novecentesco (cultura scarsa, se non inesistente, propensione al lavoro manuale, scarsa qualifica professionale). Si tratta spesso di soggetti dotati di un alto livello culturale, al quale far corrispondere un’adeguata scelta professionale. Ritorna, quindi, la variabile della formazione universitaria (e della permanenza all’estero), ambedue permeate di un sistema identitario che abbia il suo centro nella dimensione continentale, come ideale sintesi della diade tra locale e globale.
A ben vedere, l’idea di “viaggio intellettuale”, oppure di un percorso di formazione comprensivo di un periodo “esotico”, non è un’invenzione dell’Unione Europea, ma risale alla modernità in senso stretto. Già l’esperienza del Grand Tour del XVII e XVIII secolo aveva una valenza formativa: insegnava ai giovani aristocratici e borghesi europei ad acquisire doti di coraggio, intraprendenza, attitudine al comando, conoscenza di costumi, galatei e lingue straniere utili a una nuova classe dirigente. È nel Settecento che il fenomeno raggiunge la sua più ampia diffusione, individuando nell’Italia la meta preferita e relegando Francia e Germania in un ruolo subalterno. Il Grand Tour è a tutti gli effetti un viaggio iniziatico, attraverso il quale il giovane esce idealmente dalla stanza dei bambini per entrare nell’età adulta: lo svezzamento si compie nella separazione dalla compagnia di genitori e nonni e nell’autonomizzazione dei propri modi di vita. Il viaggio assume un’importanza fondamentale, in tale percorso, dal momento che sancisce la separazione – per quanto momentanea – dalla famiglia di origine e contribuisce a fornire nuova luce ai paesaggi osservati, permette la formulazione di giudizi diversi, accompagna il giovane nella sua analisi introspettiva. La rottura con il familiare e il conosciuto non si esercita solo nel momento del viaggio, ma viene preparata prima del suo inizio e si concretizza dopo la sua fine, nei momenti rispettivamente della preparazione del viaggio e della sua narrazione al ritorno. Il circuito di aspettative che circonda l’organizzazione della partenza già volge, per il giovane, nella direzione di un distacco dal familiare e di una sua autonomizzazione di vita. Il perché è presto detto: la preparazione del viaggio implica un progetto auto-prodotto di gestione del tempo, di organizzazione delle risorse (la valigia da riempire), di pianificazione del trasferimento (la predefinizione del rapporto tra tempo di viaggio e tempo di sosta), di gestione dell’attesa prima della partenza, di apertura/chiusura nelle relazioni interpersonali con le persone che si incontreranno.
Allo stesso tempo, è riscontrabile un analogo processo di indipendenza del giovane anche nel momento del suo ritorno dal viaggio, specialmente nell’operazione di narrazione di quest’ultimo. La “mitizzazione” dell’esperienza appena compiuta acquista un’importanza almeno pari al viaggio in sé. Non parliamo solo della narrazione delle micro-avventure ad esso interne, quanto anche della sua rendicontazione finale: l’analisi su cosa sia stato utile o superfluo portarsi da casa, il confronto con altre, precedenti esperienze di viaggio che hanno inevitabilmente condizionato l’organizzazione della partenza, il commento sul dato economico (la quantità di risorse utilizzate) e su quello sociale (il livello di integrazione raggiunto nella propria permanenza) e la valutazione dell’utilità di quegli oggetti messi in valigia al solo scopo scaramantico (un libro già letto mille volte, il CD del cantante preferito, una cartolina della propria città, un peluche dell’infanzia regalato dai genitori…) contribuiscono alla “costruzione di senso” che segue il ritorno a casa e che costituisce la vera differenza tra il viaggio e il turismo vacanziero.
Quanto detto sopra è genericamente applicabile a ogni tipo di viaggio, ma non toglie che l’Erasmus si differenzi da altre esperienze di viaggio e acquisti caratteri propri, dal momento che lo studente universitario riscontra, mediante una permanenza di studio all’estero, l’accelerazione della costruzione di un sistema valoriale ed esperienziale diverso da quello familiare anche in virtù della forte ricettività del periodo di età che sta vivendo. Se altri autori hanno specificato come il Grand Tour servisse anche per curare la “malinconia” del giovane intellettuale»[4], l’Erasmus è oggi identificabile sia come un rito di passaggio (sostituendo per tanti versi il mitico viaggio a Capo Nord dopo la maturità) sia come un’esperienza che incide sui ritmi di vita del giovane molto al di là dei tre-sei-nove mesi passati all’estero, rendendo ancora valido l’intervento di Adam Smith che, nel 1764, ammoniva come il giovane che si reca all’estero, quando torna si rivela «più vanesio, privo di principi, dissipato e incapace di applicarsi allo studio o al lavoro, di quanto si sarebbe dimostrato se in quel medesimo lasso di tempi fosse rimasto a casa»»[5].
Rispetto alle critiche di Adam Smith, preoccupato che un’esperienza esotica allontanasse il giovane rampollo dal suo preordinato percorso di vita, i tempi odierni presentano il problema opposto: in un’epoca in cui i giovani sperimentano esperienze frammentate, virtuali, “immaginarie”, che non si saldano nei loro vissuti, ma si accavallano le une alle altre senza lasciare traccia né ricordo, l’Erasmus diventa un momento formativo e uno spazio per l’esercizio dell’auto-riflessività, una delle “officine” nelle quali il giovane forgia gli strumenti valoriali e cognitivi attraverso i quali interpreterà la realtà e affronterà le scelte più importanti della propria vita. Ciò che propone il programma consiste nell’allargare al maggior numero di giovani la potenzialità di compiere un’esperienza del genere, in evidente contrasto con il carattere elitario del suddetto Grand Tour, appannaggio solamente di coloro che avessero sufficienti gradi di nobiltà.
Tale proposito non toglie, d’altra parte, che l’Erasmus, nonostante sia molto più pubblicizzato dalle istituzioni comunitarie rispetto ai tempi pionieristici e tenda ormai a una diffusione allargata nell’ambito universitario, si riferisce ancora a una cerchia relativamente ristretta di giovani europei.
Da questo dato tracciamo un’altra considerazione: da più parti si obietta che leggere l’identità europea (quanto meno in prodromi) attraverso il programma Erasmus sia una forzatura in termini di rappresentatività. L’identità da ricavare eventualmente sarebbe propria di un segmento specifico caratterizzato da giovani dotati di una base materiale che permetta loro di affrontare le spese del viaggio e della permanenza.
Le statistiche sembrano dare ragione solo parzialmente a questa obiezione, poiché la discriminante principale in termini di attribuzione di capitale sociale, economico, culturale, si osserva tra i giovani che si iscrivono all’università e i loro coetanei che non vi accedono, prima che tra coloro che partecipano all’Erasmus e i loro compagni di studi: il 47% degli studenti Erasmus afferma che i propri genitori hanno un reddito superiore alla media. Due terzi dei genitori di studenti che hanno sostenuto l’esperienza Erasmus è impegnato in attività manageriali, professionali o tecniche. Il 59% degli studenti Erasmus ha uno o ambedue i genitori dotati di un alto livello di educazione. È proprio il capitale culturale familiare la variabile che incide maggiormente sulla decisione di intraprendere l’esperienza. Sono le famiglie più dinamiche e più colte che valutano come un investimento formativo, culturale e – in prospettiva – economico l’opportunità di studiare e vivere in un paese straniero, e che sono maggiormente disposte, se necessario, a sopportare qualche sacrificio economico»[6].
Alla luce di queste riflessioni, sia di ordine quantitativo che qualitativo, l’Erasmus merita di essere studiato come qualcosa in più di un'esperienza di nicchia, anche se ancora non può essere considerata un fenomeno di massa.
L’Erasmus in Italia
Il programma Erasmus parte inizialmente in sordina: è indirizzato in prevalenza alla formazione di una futura élite europea, composta da giovani che abbiano la capacità di operare oltre i confini nazionali e culturali, e nel primo anno coinvolge 3.244 pionieri da undici Paesi, 220 dall’Italia.
Dopo una genesi assai travagliata, dovuta a un generale disinteresse, se non diffidenza, da parte degli Stati membri»[7], l’Erasmus sembra essere destinato a rimanere uno dei tanti progetti semi-fallimentari promossi dall’Unione.
Nel corso degli anni successivi, al contrario, il progetto vive una crescita esponenziale, anche al di sopra delle previsioni iniziali. A determinare la sua affermazione contribuisce in maniera determinante l'adesione entusiastica dei giovani studenti.
Dal 1987 ad oggi il programma Erasmus conquista molti consensi e i giovani italiani ne diventano presto protagonisti: nei primi dieci anni di vita del progetto Francia, Germania e Regno Unito sono i tre Paesi da cui è partito il maggior numero di studenti; Spagna e l’Italia seguono a distanza, ma avvicendandosi progressivamente (Graf. 1).
Ciò che caratterizza l’evoluzione del programma Erasmus è una progressiva perdita di centralità da parte del Regno Unito come Paese di destinazione e soprattutto come Paese di partenza, a fronte di una crescita costante degli studenti francesi, tedeschi, italiani e di un incremento particolarmente rilevante degli studenti Erasmus spagnoli.
Dal punto di vista macro, lo studio dei flussi Erasmus sembra costituire una cartina di tornasole che permette di avanzare ipotesi più generali sulle dinamiche di integrazione europea, evidenziando la distinzione tra Paesi protagonisti e altri che sembrano porsi in posizione di relativa marginalità.
Un ruolo centrale, sia per quanto riguarda la mobilità in uscita che quella in entrata, è rivestito da Francia e Germania. Ma il dato che più di ogni altro desta interesse è la centralità che sta assumendo la Spagna: il Paese iberico è quello che mostra i tassi di crescita più alti relativamente alla mobilità in entrata, tanto da assumere il ruolo di assoluto protagonista (Graf. 2).
Nel 2005-2006 la Spagna si rivelava la meta preferita da belgi, tedeschi, francesi, italiani, olandesi, portoghesi e risultava essere una delle mete più apprezzate dagli studenti dei restanti Paesi. Il protagonismo della Spagna trova conferma nei dati relativi alla mobilità in uscita, in cui i dati spagnoli sono comparabili a quelli di Francia e Germania, Paesi dalla popolazione complessiva superiore. Sommando gli studenti in entrata a quelli in uscita, gli studenti Erasmus che vedono coinvolta la Spagna sono 49.516, quasi un terzo del totale.
La marginalizzazione della Gran Bretagna e la parallela acquisizione di centralità da parte della Spagna segnano uno spostamento importante nella geografia del mondo Erasmus, che merita di essere approfondita.
L’Italia, a differenza della Spagna, non è un Paese centrale: tra studenti in entrata e studenti in uscita il nostro paese ha coinvolto nell’ultimo anno 30.980 giovani, rivelandosi molto distaccato dalle mete più ambite da parte degli studenti europei. Ciò spinge a leggere il successo della Spagna in una chiave diversa rispetto a quella di un generico spostamento dei flussi Erasmus dall’area anglosassone al Mediterraneo, cercando in altre dimensioni la spiegazione della forte attrazione del Paese iberico e la minore appetibilità dell’Italia. Non solo: i dati relativi alla Spagna spingono ad analizzare in forma più articolata i flussi che vedono protagonista l’Italia. Il forte interscambio tra Italia e Spagna viene infatti spesso letto come il frutto di un’attitudine da parte degli studenti a scegliere paesi culturalmente affini e nei quali la lingua è percepita come un ostacolo minore. Si tratta, tuttavia, di un’interpretazione parziale, che se da un lato trova conferma nei dati, in quanto tra i due Paesi esiste un interscambio privilegiato, deve tenere conto del più generale effetto catalizzatore svolto dalla Spagna, non solo verso gli studenti italiani. Il risultato è che il Paese iberico intercetta un terzo degli italiani in uscita e, parimenti, gli studenti spagnoli costituiscono circa un terzo degli studenti in entrata (Graf. 3):
Il Regno Unito è scelto dal 9% degli Erasmus, una percentuale inferiore alla media europea; la percentuale della Germania appare in linea, mentre è lievemente superiore quella relativa alla Francia.
Significativa è anche la quota di studenti indirizzati verso il Portogallo: il 5%. Questi studenti, sommati a quelli in mobilità verso la Spagna e verso la Francia (i due Paesi insieme ricevono oltre il 50% degli Erasmus italiani), indicano una netta propensione degli studenti italiani a privilegiare Paesi mediterraneo-latini.
Un simile orientamento verso paesi culturalmente affini non trova riscontro nel comportamento degli studenti degli altri Paesi europei: i francesi scelgono la Spagna e la Gran Bretagna, (24,4% e 22,2% rispettivamente), in maniera minore la Germania (13,4%), ricambiando in misura ridotta il numero di studenti italiani diretti oltralpe (7,4 % di francesi in Italia, contro il 17% degli italiani diretti in Francia). Anche i tedeschi mostrano una distribuzione piuttosto equilibrata: se la maggioranza relativa conferma la forte capacità attrattiva della Spagna (21%), la Francia e la Gran Bretagna seguono a breve distanza (19,3% e 15,3%). La Spagna è in assoluto il Paese che mostra la distribuzione più equilibrata: gli studenti spagnoli in uscita si dividono tra Italia (21,1%), Francia (17%), Regno Unito (14,8%), Germania (12%). Dietro al dato indicante uno squilibrio degli Erasmus in ingresso, dovuto alla forte presenza di spagnoli, si cela un altro dato degno di rilievo: per i tedeschi, seconda presenza in Italia con 1.855 studenti (pari al 13,8% degli Erasmus in entrata), il nostro Paese è solo la quarta scelta, con un netto distacco rispetto a Spagna, Francia, Regno Unito. La stessa riflessione può essere fatta in relazione alla presenza dei francesi in Italia: si tratta di 1.642 studenti, che rappresentano appena il 7,4% degli studenti Erasmus francesi.
Se il quadro che emerge da una prima, sintetica, analisi dei dati (centrata sui cinque più grandi Stati europei), induce a distinguere tra Paesi centrali nella geografia dei flussi Erasmus e Paesi periferici, tra i primi, insieme a Francia e Germania, spicca in maniera particolare la Spagna: la meta che più di tutti attira studenti dall’intera Europa e i cui studenti, che partecipano al progetto di mobilità in percentuale maggiore rispetto agli altri Paesi, si distribuiscono in maniera equilibrata tra tutte le destinazioni. Per questi Paesi il progetto Erasmus, almeno da un punto di vista meramente numerico, sembra realmente realizzarsi in direzione di una “europeizzazione delle esperienze”.
Il Regno Unito, per cui varrebbe la pena fare un discorso a parte, e – in maniera diversa – l’Italia appaiono come due Stati marginali.
Per quanto riguarda il nostro Paese, tale considerazione, che emerge in primo luogo in relazione al mero dato quantitativo (che vede un numero di studenti in entrata nettamente minore rispetto a quello degli altri grandi Stati membri dell’UE), trova conferma nella bassa collocazione del nostro Paese nella classifica delle mete preferite dagli studenti europei, a eccezione della Spagna. Se a questo dato aggiungiamo la netta propensione degli italiani a concentrarsi verso due sole mete (la Spagna e, secondariamente, la Francia), emerge un quadro di relativo isolamento e di interscambio estremamente limitato: un numero relativamente limitato di mobilità, sommata a una forte concentrazione in un solo Paese, significa per l’Italia una collocazione marginale nella rete di interscambio promossa dal programma Erasmus, rete che vede paesi come la Francia, la Germania, e in maniera particolare la Spagna collocarsi come nodi centrali. Spagna, Francia e Germania non solo coinvolgono un numero maggiore di studenti, ma mostrano anche di sviluppare legami plurimi, con un interscambio equilibrato con gli altri Paesi. Di contro, nessun altro Stato mostra una distribuzione così squilibrata come il nostro: ciò può costituire per l’Italia un serio limite rispetto alle opportunità offerte dal programma Erasmus. Nel caso italiano sono quantomeno da citare gli effetti della recente riforma universitaria, che, accelerando i tempi di laurea, spinge molti studenti a rinunciare all’esperienza di mobilità all’estero per non ritardare troppo il proprio percorso di studi. La VII ricerca Alma Laurea, infatti, individua dei segnali di rallentamento rispetto alla continua crescita degli studenti italiani in uscita, evidenziando il rischio che la riforma universitaria allontani gli studenti italiani dall’Europa. Gli effetti appaiono già evidenti, alla luce del processo di marginalizzazione che investe, a livello europeo, solamente l’Italia e la Gran Bretagna.
Se fosse confermata, la tendenza avrebbe pesanti conseguenze non solamente sul piano turistico (dal momento che il giovane europeo che viene oggi a studiare nel nostro Paese è il potenziale turista di domani), ma anche su quello formativo e identitario, facendo perdere a una intera generazione di giovani italiani la possibilità di accelerare la loro transizione verso l’età adulta.