Nella parte centrale del suo testo Il male e la ricerca del bene dedicata al tema del riconoscimento, Lei sottolinea come l’identità venga a costituirsi soltanto mediante il rapporto con l’alterità e definisce l’intersoggettività non come «una relazione che interviene tra individui già costituiti autonomamente, bensì come l’essenziale relazionalità a partire dalla quale si rende possibile la stessa costruzione della soggettività» (p. 70). A suo avviso, una concezione in cui l’intersoggettività non viene “dedotta” dall’identità individuale, ma rappresenta il presupposto stesso della costituzione dell’io, non corre il rischio di scivolare verso un “eccesso di estroflessione”? Più chiaramente: non si rischia di cancellare la presenza di uno spazio intimo e privato in cui l’io, sottratto allo “sguardo” dell’altro, possa godere in modo puramente individuale della felicità?
Occorre intendersi bene su quel soltanto che, nella domanda, viene riferito alla costituzione dell’identità. Se con esso si vuole sottolineare che il rapporto con l’altro è una condizione sine qua non, un elemento indispensabile per la costruzione dell’individualità allora sono d’accordo. Ma ciò non significa che esso sia l’unico elemento che contribuisce alla formazione dell’identità soggettiva, che è anche il prodotto dell’attività riflessiva dell’individuo, il quale, una volta che, grazie a un rapporto intersoggettivo iniziale non distruttivo, ha acquisito una certa autonomia, diventa capace di elaborare la sua propria esperienza di vita, anche attraverso una personale selezione delle risorse culturali disponibili nel suo contesto sociale. Proprio le condizioni di partenza garantite dal rapporto di reciproco riconoscimento fondano la possibilità di una interiorità non caratterizzata dalla dipendenza dall’altro o dal conformismo sociale, evitando così il rischio di un “eccesso di estroflessione”. La presenza di uno spazio intimo e privato può venire in tal modo a costituirsi, ma esso sarà tanto più ricco quanto meno sarà vissuto come un sottrarsi al rapporto con l’altro. L’autonomia dell’individuo infatti non è mai assoluta, ma è anche capacità di riconoscere il nesso reciproco che ci unisce all’altro.
Senza negare che possano darsi momenti di felicità goduti in modo puramente individuale, temo che la tendenza a pensare la felicità come qualcosa che dipende unicamente da noi stessi, dalla nostra capacità di difenderci dal mondo esterno o di escludere quest’ultimo, sia ancora una volta una forma di evasione dai limiti dell’esistere, ovvero il risultato di quella ricerca di collocarsi al di sopra o al di fuori dell’esistenza che, con Nietzsche, denuncio nel mio libro come la radice profonda del male.
Si può a suo avviso affermare che l’esperienza della felicità, per il suo stretto legame con il “senso” attribuito individualmente all’esistenza e per la costitutiva impossibilità di farne oggetto di una comunicazione esaustiva agli altri, contiene in ogni caso un’eccedenza rispetto alla dimensione intersoggettiva?
L’esperienza della felicità, come tutte le altre forme di esperienza umana, contiene indubbiamente una dimensione di eccedenza, dovuta al fatto che noi viviamo all’interno di un senso che ci com-prende e che non riusciamo mai a dire o a conoscere interamente. Credo che la felicità sia quasi sempre legata al sentimento inconscio di coincidere, sia pur per un attimo, con un senso che sfugge in parte alla nostra esperienza consapevole. Non si tratta tuttavia di un’eccedenza rispetto alla dimensione intersoggettiva, che al contrario è parte integrante del senso vissuto che ci accomuna e che, proprio per questo, ci unisce agli altri in una comunicazione che è più profonda dello scambio, peraltro socialmente indispensabile, di significati linguistico-culturali determinati.
Lei individua la «radice del male», oltre che nella mancanza di riconoscimento, nella «volontà di evadere dal rischio dell’esistere» alla quale oppone la necessità di una accettazione del male in quanto elemento che non potrà mai essere interamente espunto dalla condizione esistenziale. Da tale constatazione mi sembra si possa derivare una precisa connotazione del nesso fra felicità e dimensione temporale: lasciata alle spalle la pretesa assolutizzante di realizzare la felicità in un futuro (terreno o ultra-terreno), infatti, una piena adesione all’«ex-sistere» sembra richiedere un’accettazione dei limiti intrinseci alla condizione umana ai quali non può sottrarsi neppure il godimento della felicità. Se così fosse, le parole pronunciate dall’anonimo protagonista dostoevskijano de Le notti bianche al “risveglio” esprimerebbero puntualmente tale adesione: «Un intero attimo di beatitudine! Ed è forse poco seppure nell’intera vita di un uomo?»
Desidero ribadire che non parlo di una accettazione del male come tale, contro il quale dico che bisogna lottare costantemente, ma del fatto che esso non è mai eliminabile del tutto.
Credo che la felicità, come ho avuto occasione di scrivere anche in altri miei libri, non debba essere pensata come una situazione nella quale l’esistenza sia risolta in uno stato di pieno appagamento o di conciliazione suprema. La felicità non è il contrario dell’esistenza quotidiana, il momento necessariamente illusorio nel quale l’esistenza viene, per così dire, messa tra parentesi nell’eccezionalità di un evento (innamoramento, giorno di festa, vacanza, stato di ebbrezza ecc.) che in apparenza sospende l’intima contraddittorietà dell’esistenza stessa. La felicità può invece essere concepita, come dicevo prima, come sentimento di piena adesione al senso dell’esistenza nelle sue contraddizioni e nei suoi limiti. Quegli stessi eventi eccezionali possono essere vissuti non come un’illusoria uscita dalla condizione esistenziale, ma come parte di essa, come compresenza nella vita quotidiana di gioia e dolore, di parziale soddisfazione del desiderio e, in ultima analisi, della sua frustrazione.
Se si concepisce la felicità come dimensione propria dell’esistenza nella sua inconciliabilità, allora essa appare come una forma di saggezza che ci rende felici di esistere, partecipando al sentimento che il poeta Rilke esprimeva nel verso «essere qui è meraviglioso». La speranza che sorregge questo tipo di felicità non è quella di una redenzione finale, bensì quella di riuscire, attraverso un difficile apprendistato, ad avvicinarci per quanto possibile all’autorealizzazione di noi stessi, aderendo totalmente al senso della nostra esistenza.
Pur individuando nel tentativo di superare i limiti della situazione esistenziale una delle cause principali del male, Lei riconosce che tale aspirazione al trascendimento del limite nella direzione del raggiungimento di un «compimento assoluto» costituisce un tratto essenziale dell’essere umano. Si profila così una «contraddizione di fondo» fra la «dimensione finita dell’esistenza, in quanto situazione sottoposta a una serie di limitazioni fisiche e morali» e la «dimensione infinita del desiderio come aspirazione incontenibile a un benessere totale». Non ne deriva che tale contraddizione non potrà mai essere eliminata e che l’uomo, aspirando ad una felicità costitutivamente al di là delle sue concrete possibilità di raggiungimento, viene a configurarsi necessariamente come un “desiderio frustrato”?
Se il nostro desiderio ci orienta fatalmente verso un compimento assoluto, dobbiamo anche essere sempre consapevoli che la mancanza originaria che nasce dalla presa di coscienza non potrà mai essere interamente colmata. Credo quindi che, in effetti, la frustrazione del desiderio di un pieno superamento della mancanza originaria sia inevitabile. Ma penso anche che la consapevolezza di questo fatto non impedisca la possibilità pratica più realistica di una certa felicità nel senso che intendevo prima.
Da quanto fin qui affermato emerge l’idea che il riconoscimento e l’accettazione dei limiti propri della condizione esistenziale costituiscono la via alternativa ai differenti tentativi di evasione dall’«ex-sistere». A suo avviso, sviluppare una simile consapevolezza può costituirsi quale punto di partenza per una rinnovata tensione verso una felicità “conforme” alle concrete possibilità umane o, ricordando il Dialogo della Natura e di un’Anima, dobbiamo ritenere, con Leopardi, che quanto più l’uomo è consapevole della propria miseria, e dello scarto fra la sua condizione e il desiderio del piacere, tanto più cresce la sua infelicità?
L’infelicità insopprimibile di Leopardi costituisce un buon esempio delle conseguenze cui conduce il rifiuto di accettare quella che io definisco l’inconciliabilità dell’esistenza. Nello stesso tempo, Leopardi, nel compiacimento nevrotico del suo tragico destino, ottiene comunque il risultato di porsi al di sopra dell’esistenza dei comuni mortali, esaltando la sua diversità, la sua proterva volontà di non sottomettersi ai limiti dell’esistenza. Il fatto di condurre questo tipo di esperienza fino in fondo costituisce, del resto, la sua grandezza, pagata al prezzo di vivere, per così dire, in negativo o reattivamente lo stesso senso dell’esistere.
Politica, felicità, utopia: si tratta di termini che sono stati spesso in stretta connessione soprattutto quando le differenti “utopie politiche” hanno cercato di offrirsi come prospettive di salvezza in grado di dare una risposta definitiva al problema del male. Insieme all’indebolimento dei messianismi politici però, mi pare si assista oggi ad una progressiva riduzione anche dell’impegno fattivo della politica per una società più equa che tenti, se non di eliminare, quanto meno di ridurre quel male che dipende dall’agire umano e che assume spesso la forma del dolore che si infligge agli altri, delle disuguaglianze e delle discriminazioni. In questo senso, credo che si tratti di ridefinire con urgenza compiti e finalità della politica, sia a livello nazionale che sovranazionale. Condivide il timore qui espresso che la politica possa ridursi progressivamente a mera amministrazione, con tutte le conseguenze che ciò finirebbe per implicare?
Come cerco di dimostrare nel mio libro sul male, la ricerca della felicità come compimento assoluto è stata spesso causa di grandi disastri sia sul piano individuale che collettivo. Proprio a partire dall’esperienza della fine dei grandi racconti ideologici e delle loro conseguenze distruttive, credo che oggi si apra una nuova possibilità di comprendere la funzione politica come capacità pragmatica di gestire le contraddizioni che nascono dalle esigenze contrapposte, da un lato, di consolidare un ordine normativo capace di fondare la prevedibilità sociale e una solidarietà generalmente condivisa, dall’altro, di lasciare spazio al cambiamento e alla diversità, alle libere scelte di vita. L’accento che nelle società democratiche contemporanee viene posto sul problema della giustizia sociale, sull’esigenza del riconoscimento reciproco e della lotta alle discriminazioni va nella giusta direzione. Vi è tuttavia certamente il rischio di un appiattimento della funzione politica a mera amministrazione, ma esso va combattuto restituendo alla funzione politica il compito di promuovere la qualità della vita, l’autorealizzazione individuale, il senso della comune appartenenza alla situazione esistenziale, lottando sia contro le pretese di assolutizzazione della razionalità strumentale oggi imperante nella globalizzazione, sia contro tutte le diverse forme di fanatismo integralista, sia contro l’anarchismo sociale, rivitalizzando senza complessi la tradizione della laicità nelle sue intere potenzialità. Nel mio libro sostengo che oggi nella nostra cultura vi sono numerose componenti che pongono l’accento sull’attenzione verso la vita quotidiana anziché su proiezioni illusorie di tipo utopistico. La possibilità di restituire alla funzione politica una legittimazione sostanziale deve confrontarsi con le istanze che nascono dalla maggioranza delle componenti sociali per un benessere che non può essere inteso soltanto in termini materiali. È venuto il momento di assumere più responsabilmente, e forse anche più umilmente, un punto di vista fondato sulla consapevolezza dei limiti dell’esistenza e sulla sua costitutiva ambivalenza.
Ad osservare le differenti immagini della felicità offerte dalle varie concezioni filosofiche, religiose e politiche, si potrebbe ritenere che esse costituiscano quasi un luogo privilegiato di osservazione dei bisogni e dei desideri insoddisfatti dell’umanità. Quanto possiamo comprendere di una particolare cultura o di una determinata società ad una fase specifica del loro sviluppo storico partendo da un’analisi dell’immagine della felicità che in esse viene perseguita? E quanto possono incidere tali elaborazioni collettive nella modalità in cui l’individuo non solo sviluppa una concezione della felicità sua propria, ma giudica le proprie esperienze e ne opera una valutazione in base al grado di conformità o meno con tale ideale?
Non vi è dubbio che le diverse concezioni filosofiche, politiche e religiose abbiano inciso profondamente sulle rappresentazioni che, nelle diverse epoche storiche, gli individui e le collettività hanno condiviso circa i traguardi da raggiungere e circa l’ideale della felicità. Da un lato, le diverse prospettive religiose di tipo integralista (ebraiche, cristiane, islamiche) hanno teso a rinviare nell’al di là il raggiungimento della felicità, riducendo l’esistenza a mera prova, a puro momento di passaggio verso una miglior vita, impedendo quindi di comprendere l’esistenza nel senso che le è proprio. Le religioni orientali, dal canto loro, hanno anch’esse svalutato l’esistenza terrena promuovendo l’estinzione del desiderio e l’annichilimento della coscienza individuale. Dall’altro lato, le ideologie politiche hanno invece per lo più proposto, come il marxismo e il nazismo, prospettive utopiche di realizzazione della felicità in un futuro storico più o meno prossimo, chiedendo anche qui di sacrificare il presente. I sistemi filosofici, quando non hanno suggerito ideali sostanzialmente elitisti di una felicità di tipo egoistico privato come nella tradizione dello stoicismo o dell’epicureismo, hanno spesso favorito le prospettive politiche totalizzanti, dalla Repubblica di Platone all’idealismo hegeliano, al positivismo. Per questo credo che sia oggi estremamente importante sviluppare una critica radicale nei confronti delle diverse forme di assolutizzazione che strumentalizzano il desiderio insopprimibile di felicità degli esseri umani manipolando le coscienze secondo una logica di dominio. L’emancipazione individuale e collettiva non può essere ottenuta che attraverso una rivalutazione del presente come luogo preminente dell’umano, promuovendo il potere di gestirne pragmaticamente e responsabilmente le contraddizioni e orientando verso un’immagine della felicità nel senso che prima auspicavo.
Intervista rilasciata il 4 ottobre 2006