1. Premessa
La speranza è propriamente una virtù. Dire che è una virtù significa affermare che è una “disposizione d’animo” volta al bene e, quindi, che essa indica un assetto fondamentale della volontà umana. Ciò implica che essa debba essere considerata come una dotazione “naturale”, e dunque universale, dell’essere umano. Allo stesso tempo, però, all’osservatore attento non può sfuggire il fatto che essa sia stata posta in onore solamente all’interno di ben determinati contesti di civilizzazione, rimanendo pressoché inespressiva in altri e diversi ambiti storico-culturali. Questo stato della questione, lungi dal costituire una contraddizione da risolvere, rappresenta invece la possibilità di un arricchimento della sua comprensione nella misura in cui apra le porte ad una visione della complessità che la caratterizza, complessità che è costituita dall’inevitabile intreccio di “natura” e “cultura”. Intreccio che, a ben vedere, rappresenta la regola ineludibile della condizione umana.
La complessità è dunque il terreno formale all’interno del quale occorre inoltrarsi, e ciò richiede che si cerchi di analizzare, sia pure in grande sintesi, entrambi i momenti che la nutrono. Per farlo sceglieremo, fra le molteplici possibilità, di presentare la riflessione che due autori del XX secolo hanno dedicato rispettivamente all’uno e all’altro dei poli in tensione. Prima di passare a questo compito, anticipiamo però subito la nostra tesi di fondo, ovvero che il contrasto dirimente che attraversa l’interpretazione teorica e soprattutto la declinazione pratica della speranza non sia, per l’appunto, quello fra natura e cultura, ma quello che risiede nell’opposizione fra evento e dialettica come sue modalità dinamiche e, se così si può dire, realizzative.
2. Linee antropologiche
Per esplorare le ragioni dell’interpretazione che fa della speranza una virtù connaturata all’essere umano, occorre cercare di fare chiarezza sulla costituzione antropologica; come dicevamo, tante sarebbero le possibilità per svolgere tale analisi, ma fra tutte proponiamo di affidarci alle riflessioni che dobbiamo a un autore, Ernst Bloch, che ha posto quale centro essenziale della sua impresa filosofica il tema del “principio speranza” (Bloch 1959).
Per la concezione antropologica blochiana l’elemento caratterizzante l’essere umano, quasi la sua stessa radice, è rappresentato da una inappagatezza che pulsa costantemente nel fondo del suo essere. Si tratta di una condizione non ricercata ma in qualche modo subita, qualcosa di inconsapevole pur essendo realissimo, un momento dunque del pati e non dell’agere. «Nessuno ha scelto questa pressante condizione, essa è con noi da che noi esistiamo e per il fatto che esistiamo» (Bloch 1959, vol. I, p. 49). Così come è inconsapevole e subita, essa è anche del tutto indeterminata rispetto al proprio oggetto o, se si vuole, al proprio telos, ma ciò non toglie che la sua stessa dinamicità la spinga incessantemente a esteriorizzarsi, e a diventare lo stimolo a una apertura del soggetto umano che produce la costante tensione ad andare oltre se stesso.
Tale tensione che palpita nel fondo dell’essere umano non è destinata a rimanere permanentemente inconsapevole, bensì, in forza e in occasione dell’incontro con un’altra dotazione antropologica fondamentale, quella del sentimento, si determina, sino ad assumere l’aspetto dell’anelare, termine con cui Bloch intende indicare, per l’appunto, l’ingresso della inappagatezza originaria in una prima e sia pur flebile relazione con l’interiorità del soggetto, ovvero un primo accesso alla consapevolezza, accesso che dà avvio al progressivo movimento dal semplice pati in direzione dell’agere. Questo passaggio all’area della coscienza, oltre che illuminare l’autocomprensione dell’uomo come di un soggetto attivo e in ricerca, consente il sorgere di una rappresentazione del fine di tale ricerca, dell’oggetto a cui essa tende. Bloch elabora anche un nuovo termine per definire questo ulteriore stadio, parlando di un maturarsi della iniziale e solamente subita tensione in una consapevole e ormai attiva pulsione, in grado di rappresentare in maniera riflessa il proprio telos. Questo passaggio, che apre all’acquisizione della capacità rappresentativa dell’oggetto verso cui consapevolmente ci si muove, sfocia nella comparsa dell’esperienza del desiderio. A questo punto, il soggetto umano è consapevole, da una parte, di sé come di qualcuno che desidera e ricerca qualcosa e, dall’altra parte, che c’è qualcosa verso cui egli si protende. Per Bloch, il livello della pulsione consapevole - di sé come desiderante, del proprio oggetto come desiderato -, indica l’aprirsi di un percorso che può condurre al volere in senso proprio, e con esso all’azione stricto sensu.
Grazie a questa analisi antropologica, l’essere umano appare come un essere fondamentalmente connotato da un vasto campo di pulsioni/desideri che lo spingono verso l’azione e così, per Bloch, si impone una questione che sin ora era stata trascurata. Infatti, il suo discorso aveva preso le mosse dalla costatazione che l’uomo era soggetto passivo di una condizione di insoddisfazione, e aveva seguito il percorso del suo ascendere a una prima dimensione di consapevolezza e di inziale attività; ora, raggiunto questo traguardo, egli ritorna all’inizio per cercare di illuminare cosa sia l’elemento attivo che sta alla base dell’intera dinamica sin qui esplorata, e pone un decisivo interrogativo: «La pulsione deve pur nascondere qualcuno. Chi è dunque questo essere stimolabile, che cerca?» o, meglio, «chi desidera nell’uomo?» (ivi, p. 52). Si tratta di una domanda di fondamentale importanza, perché la risposta che le verrà data sarà discriminante rispetto sia alla complessiva concezione antropologica, sia alla scelta del principio realizzativo della speranza. Ma di questo parleremo in sede di chiusura.
La risposta che Bloch dà all’interrogativo si distacca radicalmente dalle interpretazioni classiche della pulsione – Freud, Jung, Adler -, a cui rimprovera – anche a Freud - di avere del tutto trascurato il dato della corporeità umana: alla radice della pulsione non sta il soggetto psicologico, ma il soggetto materiale, il corpo per l’appunto. Dire corpo, per Bloch, non significa però evocare solamente una dimensione fisico-biologica, perché il corpo posto qui in gioco è il corpo “vivente”. La connotazione di “vivente” ha una fondamentale importanza in quanto la categoria della “vita”, in sede umana – e in tale sede ci troviamo -, non può semplicemente arrestarsi alla dimensione della zoé ma deve accedere al livello del bios, ovvero, seguendo la lettura che Hannah Arendt dà di questa categoria, accedere al livello di «vita specificamente umana», la cui caratteristica fondamentale «è di essere sempre ricca di eventi che in definitiva si possono raccontare mediante una storia o scrivendo una biografia; di questa vita, bios in quanto distinta dalla mera zoé, Aristotele ha detto: “in un certo senso è una specie di praxis”» (Arendt 2016, p. 70). In sintesi, il richiamo al corpo vivente introduce ad una realtà che, oltre all’inevitabile versante biologico, è necessariamente connotata da una altrettanto costitutiva dimensione che è, insieme, storica e morale: praxis, appunto. Dunque, quando Bloch afferma: «”Suum esse conservare”, salvaguardare il proprio essere, rimanere vivi, questo è e rimane, secondo l’integra definizione di Spinoza, l’”appetitus” di ogni creatura» (Bloch 1959, vol. I, p. 74), non ha in mente, lo ribadiamo, la sola e immediata dimensione della zoé materiale, ma il complesso storico del bios, ovvero un complesso fondamentalmente relazionale e intersoggettivo.
La riprova di ciò sta nel fatto che per Bloch la pulsione non è il punto d’arrivo finale della dinamica antropologica, ma è destinata ad una ulteriore maturazione legata al progressivo crescere della coscienza. Come sopra abbiamo ricordato, la “tensione” inconsapevole, subita e cieca, acquisisce un primo e primitivo momento di consapevolezza attraverso il “sentire”, trasformandosi così in “pulsione”; ma il processo di coscientizzazione, se così si può dire, non si arresta a questo primo stadio ed è destinato a compiere un ulteriore passo con la comparsa del sentire se stessi, ovvero di un momento di autoriconoscimento e di autoconsapevolezza in cui il Sé è ormai comparso in scena come l’attore consapevole di tutta la vicenda. La presenza del Sé pienamente cosciente di se stesso è talmente innovativa da riuscire a provocare l’ultimo e definitivo cambiamento nella pulsione stessa, trasformandola in ciò che Bloch chiama affetto, e l’affetto, per Bloch, è a sua volta caratterizzato da una piena intenzionalità, ovvero da un’adeguata presenza dell’alterità come elemento necessario per l’adeguato sviluppo e compimento dell’essere umano, rappresentando con ciò stesso il punto di approdo dell’apertura/tensione antropologica originaria che, in esso, raggiunge la sua definitiva estensione e la sua adeguata maturazione. «La vita affettiva sarà dominata dall’amore di qualche cosa, dalla speranza per qualche cosa o dalla felicità di qualche cosa» (ivi, p. 78). Nell’affetto il Sé, che ormai conosce se stesso, si scopre costitutivamente bisognoso di altro da sé.
Con la categoria dell’affetto compare, come si è visto anche nella citazione sopra riportata, il concetto di speranza; vediamo come. Bloch distingue due diverse tipologie di “affetto”; la prima la definisce “affetto saziato”, mentre la seconda è quella dell’“affetto di attesa”. La differenza è radicale e semplice al contempo. L’affetto saziato è quello che ha il proprio telos intenzionale contemporaneo e disponibile, mentre quello di attesa no, per cui l’essere umano che ne è portatore risulta animato da una forte tensione temporale verso il futuro (il telos non è contemporaneo) e dalla ancora indecisa sospensione fra il possibile appagamento e l’altrettanto possibile scacco (il telos non è necessariamente disponibile). Questa attesa rivolta al futuro, e l’incertezza che l’accompagna, sono esattamente gli elementi che qualificano l’affetto di attesa come speranza, che dunque risulta essere caratterizzata dalla dimensione temporale del futuro e da quella modale della possibilità/impossibilità. Ciò, tuttavia, non toglie alla speranza il suo carattere di qualificazione antropologica universale, tanto fondamentale da fare dire a Bloch che essa «è la più umana di tutte le emozioni, essa non è accessibile che agli uomini e nel medesimo tempo è connessa all’orizzonte più vasto e luminoso che ci sia» (ivi, pp. 83-84).
In conclusione, la prospettiva antropologica elaborata da Bloch ci restituisce una concezione della categoria, o meglio, della virtù della speranza come di una dotazione “naturale” dell’uomo e, per tale motivo, afferma la convinzione della sua inerenza “strutturale”, se così si può dire, allo statuto umano. Dunque, risulterebbe perentoriamente esclusa la plausibilità stessa di pensarla come qualcosa che, in qualche modo, necessiti dell’apporto di una qualche e ben circoscritta condizione storico-culturale. Tuttavia, come dicevamo in premessa, esiste anche una linea interpretativa che, al contrario, ritiene che la virtù della speranza esiga un processo evocativo e formativo caratteristico e peculiare, e, aggiungiamo, di un processo ascrivibile a un ben determinato contesto di civiltà e cultura; precisamente, al contesto europeo e occidentale. La riflessione che ci permette di esplorare questa posizione la dobbiamo a Maria Zambrano.
3. La relazione fra speranza cultura
La relazione fra speranza e cultura è pensata da Zambrano in maniera bilaterale: se, per un verso, la virtù della speranza esercita un ruolo primario nel costituirsi della cultura, per un altro verso si dà una non solo innegabile, ma anche decisiva, influenza della cultura in ordine all’esercizio della virtù della speranza. Questa tesi, per non apparire confusiva, necessita di essere collocata all’interno della più complessiva concezione che Zambrano ha dell’uomo e del suo posto nel mondo.
Detto con la necessaria sintesi, si tratta di una concezione creazionistica in virtù della quale l’essere umano (e con esso tutto il reale) è connotato essenzialmente dalla relazione costitutiva con il Creatore Divino, e tale relazione implica due cose. Prima di tutto, il fatto che egli non possa concepirsi come compiuto in se stesso o autosufficiente, e dunque che debba riconoscersi come qualcuno a cui manca la propria perfezione e, quindi, come qualcuno che è caratterizzato da un insopprimibile e radicale bisogno: «Non siamo stati terminati e non ci è chiaro che cosa dobbiamo fare per completarci» (Zambrano 1996, p. 92); poi, il conseguente fatto che il bisogno costitutivo indichi il proprio termine di soddisfazione in altro da sé e che, pertanto, la cifra caratterizzante l’umano (e tutto il reale) sia quella del movimento di uscita da sé, del movimento della trascendenza, «dai gradi più umili dell’essere, la trascendenza si mostra come carattere ultimo della realtà che comincia a manifestarsi in ogni complesso o struttura, in cui il tutto è qualcosa di più della somma delle parti, che si compenetrano l’una nell’altra trascendendosi» (ivi, p. 84).
Occorre però osservare che se la dinamica del trascendimento risulta essere decisiva per comprendere che l’essere umano non è autosufficiente ma bisognoso e incompiuto, ciò non significa affatto pensare che egli sia passivo e sottoposto a una sorta di ineludibile necessità. Il bisogno che l’uomo ha, e che lo costituisce, è quello di trascendersi per compiersi, ma l’attore del trascendimento altri non è che lui stesso e, per tale motivo, la direzione che il trascendere prenderà o, meglio, i contenuti che esso assumerà, non sono né univoci né scontati. Pertanto, pur rimanendo stabilito che l’uomo è persona, «vale a dire: un essere non solo dotato di finalità, ma costituito fondamentalmente da questa» (Zambrano 2002, p. 72), la declinazione di questa “natura” teleologica può andare in diverse direzioni, e l’opposizione fra di esse sta alla base della bilateralità, a questo punto solo apparentemente confusiva, della relazione fra speranza e cultura. Stabilito ciò, dobbiamo vedere meglio tale bilateralità.
La prima cosa da mettere in evidenza è l’idea che Zambrano ha della cultura e, a questo fondativo livello, incontriamo subito la sua dipendenza dalla speranza. Lungi dall’essere interpretata come una “cura” della realtà nella sua intera estensione, la cultura viene ricondotta esclusivamente ad una cura dell’essere umano, una cura che l’uomo ha di se stesso, e lo scopo di tale azione costantemente riprodotta e reinventata è quello di assicurare al suo soggetto la possibilità di quella continua rinascita che, come sopra ricordato, rappresenta il suo essenziale bisogno o, si potrebbe anche dire, il suo appropriato statuto ontico. Da questo punto di vista, «tutte le culture realizzate [...] sono tentativi di essere. Le forme che hanno raggiunto una maggiore vigenza sono quelle che si sono cinte più strettamente alla struttura della vita umana, sempre nella speranza di una rinascita» (Zambrano 2009, p. 54).
Tuttavia, per Zambrano, non tutte le culture hanno saputo tenere fede a questo loro fondamento, ma una soltanto e per di più in maniera ambigua; ovvero, si impone un discernimento fra di esse, e questo versante dell’indagine porterà alla luce l’altro aspetto della bilateralità, quello dell’influenza della cultura sull’esercizio appropriato della speranza.
I termini del discernimento elaborato da Zambrano sono tre: l’Asia, l’antica Grecia e l’Europa. Tutte e tre le culture risultano, a loro modo e con gradazioni diverse, portatrici di una lesione della speranza e, in essa, dell’umano nell’uomo. L’Oriente rappresenta il grado estremo dell’annichilimento nella misura in cui la predicazione buddhista ha soffocato l’anelito umano a rinascere, che si manifestava nel mito delle successive reincarnazioni individuali. Da ciò è sorta l’intonazione fondamentale delle «durevoli culture orientali [che] sembrano essere nate, dunque, dall’ansia della snascita» (ibidem) e, come tali, raffigurano una pressocché insuperabile barriera alla possibilità del darsi dell’esperienza della speranza. Con la cultura dell’antica Grecia, le cose appaiono più complesse e articolate.
Nell’interpretazione che ne dà Zambrano, infatti, la cultura greca appare fondamentalmente connotata da un’aura di radicale pessimismo rispetto al destino del singolo individuo umano, con la conseguenza che la sua intonazione sostanziale risulta essere quella di un “disgusto della vita” accompagnato da uno speculare “orrore per la morte”. L’uomo greco coglie solamente la meschinità dell’esistenza individuale, e risponde a questo scandalo cercando una via d’uscita per così dire di ordine oggettivo, ossia attraverso la ragione e la sua capacità di scoprire verità universali, e attraverso la bellezza e il suo carattere di assoluta protesta rispetto agli dei olimpici sottratti come sono, e a differenza degli uomini, al destino di mortalità e dissipazione. «Il greco non ha avuto vocazione per la vita; l’ha avuta per la ragione, per la bellezza, per cose che raggiungerebbero il loro essere soltanto in un luogo che non è né la vita né la morte, ma l’immortalità. E perciò i greci scoprirono l’immortalità [...], una sorta di retromondo, scoprirono l’essere, un essere che è in certo modo contrario alla vita [...]; perché l’essere è al di là della vita e della morte, come la ragione, come la bellezza» (ivi, pp. 59-60). Questo orientamento all’immortalità potrebbe sembrare una forma della speranza, ma in realtà non lo è e si presenta piuttosto come una fragile illusione che sortisce l’effetto contrario di quello promesso, ossia conduce alla disperazione in quanto richiederebbe, per essere nutrito, la capacità di un eroismo “filosofico” – “al di là della vita e della morte” - del tutto impraticabile per l’uomo comune che, dunque, finisce per ritrovarsi preda di un’amara disillusione. «La ragione, anche nel suo massimo splendore, non poté nuovamente generare l’uomo; lo lascia in solitudine e senza protezione. La crisi del mondo antico, sotto questo volto, può ben chiamarsi l’impotenza della filosofia» (ivi, pp. 61-62). In conclusione, l’intonazione spirituale che si dà anche nell’ambito culturale classico, contrasta con l’esercizio della speranza e allontana da essa.
Rimane da esaminare quanto Zambrano dice della cultura europea, e anticipiamo subito che anche in essa ella ritrova una lesione della speranza, ma non come sua prima e fondamentale caratteristica, bensì come possibile esito deformato. Nella cultura europea, infatti, è presente una fondamentale ambiguità per la quale essa si mostra, prima di tutto, come il terreno adatto al fiorire della speranza e, nel contempo, come il luogo del suo abbandono. Un abbandono che è più colpevole e perverso di quello che abbiamo incontrato nelle due precedenti forme culturali, ma che è anche sempre penultimo e mai definitivo. La cultura europea è, insomma, connotata da una lotta, la cui cifra potrebbe ben essere riassunta dall’espressione paolina “spes contra spem”, sia pure assunta al di là del suo letterale significato e tradotta come: “la speranza che lotta per rimanere se stessa”. Con ciò incontriamo la nostra tesi di fondo che era stata anticipata in sede di premessa, ossia che il vero contrasto che attraversa la speranza è quello dell’opposizione fra evento e dialettica, come forme e della sua comprensione e della sua declinazione.
4. Spes contra spem. L’opposizione di evento e dialettica
Spes o dell’evento. Se è vero che il fondamento della cultura è la speranza, è anche vero che occorre una cultura per consentire alla speranza di esercitarsi nella sua verità. La cultura europea rappresenta, per Zambrano, la precisa rappresentazione di tale stato delle cose.
Alla base della cultura europea sta un terzo atteggiamento antropologico di coniugazione del bisogno umano di trascendimento e di alterità, diverso da quello orientale e anche da quello classico. Si tratta di un atteggiamento che declina il desiderio di vita e la necessità di continua rinascita “ostinandosi” a vivere, nonostante la congiura di tutto quello che parrebbe renderlo impossibile. «Disperazione che si ostina a vivere; fame di vivere consumandosi [...]. “E dopo che sarà disfatta questa mia pelle, ancora devo vedere Dio nella mia carne” – dice Giobbe – e prosegue: “Io devo vedere da me, e i miei occhi lo vedranno e non altri, benché le mie reni si consumino dentro di me”» (ivi, p. 61). Questo tipo di atteggiamento umano si caratterizza prima di tutto per il fatto che non si presenta come ricerca – della “snascita”, della ragione, della bellezza -, ma come attesa. Si tratta di un bisogno che diventa un grido verso l’Alterità di cui si è creatura e da cui si è separati, il grido che promana dalla «rabbia di vivere che aspettava Cristo, il conciliatore, colui che doveva portare resurrezione e vita eterna» (ivi, p.61). In questa terza posizione non troviamo lo sforzo dell’abbandono della vita o quello del reperimento di un ordine universale e oggettivo, ma la ferita individuale della singola, unica e irripetibile persona, che vuole e spera la propria resurrezione, nonostante tutto. Quando nella storia compare l’avvenimento di Cristo, questa ferita inizia a comprendere se stessa e, nel contempo, incontra la via per la declinazione della speranza che la caratterizza e definisce.
Per Zambrano, dunque, la cultura europea si è originata con l’irrompere dell’evento del cristianesimo nella storia, evento che ha consentito di trovare una adeguata corrispondenza all’atteggiamento umano di attesa e di grido. All’interno di questo incontro il protagonista - il “padre” come lei dice – della impostazione di fondo dello spirito europeo è stato Sant’Agostino che, dunque, rappresenterebbe il ponte che ha consentito il passaggio dal mondo antico a quello nuovo, europeo in quanto cristiano. È però assai importante sottolineare che, proprio attraverso Agostino, la nuova cultura che prende forma è stata in grado di inglobare in sé il meglio della cultura greca, salvandola dal destino di disperazione e dissipazione a cui pareva destinata. Per Zambrano, quindi, il mondo nuovo che sorge con l’avvenimento del Cristo è, come si è detto, europeo in quanto cristiano, ma anche europeo in quanto erede della classicità. Nell’incontro con il cristianesimo e soprattutto attraverso Agostino, pertanto, la cultura greca non scompare nella sua essenza più profonda ma, in un ammirevole equilibrio di valorizzazione e di superamento, concorre a formare la novità europea. «In Sant’Agostino l’uomo nuovo è già nato; ormai sa cosa deve sperare. In lui questa nuova speranza attecchì assorbendo la disperazione e la speranza antica. Ecco perché si tratta di una resurrezione in cui il mondo antico poté finalmente vivere, in alcuni dei suoi aspetti, meglio di quanto avesse sognato» (ivi, p. 57).
Quello che è più importante sottolineare, è l’indicazione che Zambrano offre di ciò che potremmo definire il metodo che ha consentito alla cultura europea di prendere forma, e anche di integrare in se stessa l’eredità greca. Si tratta del metodo della rivelazione, ed è qualcosa di assolutamente originale rispetto al lascito della classicità. Il termine rivelazione va chiarito, sia in senso generale che nella speciale declinazione che ne dà Zambrano. In senso generale la cosa è del tutto semplice: rivelazione indica che la verità non è il risultato di una ricerca; per incontrarla, certo, la ricerca è necessaria, ma non è la ricerca che la trova e tantomeno la produce, piuttosto è la ricerca ad essere trovata e illuminata dal darsi del vero che le si rivela. Insomma, non un prodotto ma un evento che si dà. Nella declinazione di Zambrano, però, la rivelazione non è pensata né in un contesto metafisico né in un contesto cosmologico, ma in una dimensione assolutamente personale, come incontro che introduce l’uomo a una relazione con Dio e, attraverso ciò, all’appropriata relazione con se stesso, relazione che ella definisce il “cuore trasparente”. Di nuovo, il paradigma è rappresentato da Agostino. «Nella confessione agostiniana si è cercata la verità, una verità che include l’oggettività e finanche la sostiene, ma che è viva, perché è il Dio della creazione e della misericordia. Ma una volta trovata, torna indietro per mostrare il suo “cuore trasparente”. Perché nello stesso momento in cui ha trovato la verità, ha trovato se stesso, e si mostra con l’allegria di essersi riconosciuto» (ivi, p. 63).
L’evento della rivelazione è il fondamentale innesco per la speranza e, nel contempo, la sua regola aurea. Infatti, la trasparenza che l’essere umano guadagna attraverso l’evento della rivelazione cristiana, altro non è che l’accesso alla propria interiorità. Accedendo ad essa l’uomo europeo non si scopre caratterizzato da una dimensione angusta e finita, ma dall’esatto opposto, perché in essa, nel “cuore trasparente”, egli non trova riflessa la propria bisognosa finitudine, ma la verità del Creatore e, così, diventa partecipe della sua infinitezza o, meglio, della sua dinamica di trascendimento, prima di tutto della propria finitudine rappresentata, e insieme simboleggiata, dal male e dalla morte. Per tale motivo l’uomo europeo, pur dentro la sua condizione spesso malata e sempre mortale, «è come una prospettiva infinita che non si esaurisce mai in nessuno dei suoi atti né in tutti messi insieme; è ciò che è sempre più in là [...], mai sarà detto definitivamente [...]. Fondo inesauribile che non si svuoterà mai, per quanto la confusione insista» (ivi, p. 67). Questa inesauribile fonte di trascendimento scandisce la regola aurea della speranza che, per così dire, è composta da due semplici elementi: nulla di finito la potrà mai appagare; la sua adeguata prospettiva è solamente quella della vita eterna. «Ecco perché l’uomo europeo [...] è perlomeno due; ecco perché ogni uomo, e non per speciale genialità né per particolare complicazione, ma perché vive in questo sistema di vita, porta un altro dentro di sé» (ivi, pp. 64-65).
Spem o della dialettica. La regola aurea della speranza, però, non è affatto scontata e l’accesso ad essa non è automatico. Detto in altri termini, nel percorso di realizzazione/trascendimento che la qualifica come tale, la persona umana è libera in forza del suo rapporto interiore con la verità e, per tale motivo, si trova sempre a dover scegliere fra almeno due opposte vie.
Se la prima è quella - che abbiamo descritto - dell’adesione all’evento costitutivo e interiorizzato, e che Zambrano definisce anche con il concetto di amore, che «è l’agente di ogni trascendenza nell’uomo» (Zambrano 2008a, p. 249), per cui la realizzazione non è mai un traguardo conseguito definitivamente, ma l’incessante «andare verso qualcosa per proseguire oltre [...]; visto dall’origine, l’essere umano assomiglia a una ferita che non può richiudersi» (Zambrano 2008b, p. 149), vi è sempre la possibilità di una seconda strada, del tutto opposta. Tale alternativa appartiene di fatto e di diritto alla cultura europea ed è rappresentata da un atteggiamento che la nostra autrice descrive e definisce attraverso l’utilizzo di due termini, assolutismo e idealismo. «L’assolutismo è un’immagine della creazione, ma al contrario. Creando, fa il nulla. Annulla il passato e nasconde il futuro. Un vero e proprio nodo che si vuole fare nel tempo. Per questo è un inferno» (Zambrano 2000, p. 104). «L’idealismo costitutivo dell’europeo [...] è il vivere progettando, credendo più nella realtà del progetto che nel visibile declivio dell’invisibile [la rivelazione che si offre all’attesa] e della sua realizzazione» (Zambrano 2009, p. 72).
Parlare di “inferno” ha un senso preciso. L’essere umano, autoproclamatosi creatore, ritiene che per il tramite della sua azione la storia e il mondo umani possano raggiungere il loro compimento ma, con ciò stesso e in realtà, revoca la dinamica del trascendimento e annulla l’alterità che lo qualificano come persona, ottenendo l’unico risultato di condannarsi ad una perfetta solitudine e, in essa, alla dissipazione idolatrica di sé: “inferno” è il nome che descrive tale condizione. In questo incubo, generato dalla volontà e dallo sforzo umani di insediarsi al posto di Dio e dalla pretesa di giungere al definitivo possesso della vita, la speranza viene “oggettivizzata” in qualcosa che può essere prodotto e posseduto, ma che in realtà è solo un suo vuoto simulacro, è spem, e con ciò è destinata a deperire svuotandosi di energia e di significato.
Possiamo cercare una esplicazione esemplare di questo movimento verso l’oggettivizzazione della spes in spem ritornando, per un breve momento, al pensiero blochiano che, nel panorama della cultura europea contemporanea, ne rappresenta uno dei momenti più emblematici. Come abbiamo già detto, il punto di partenza di Bloch è quello di una antropologia essenzialmente connotata dalla speranza, e quindi intessuta dalla dimensione temporale del futuro e da quella modale della possibilità/impossibilità. Dunque, e sin qui, una antropologia a cui parrebbe possibile ascrivere una ultima, se pur sommessa, intonazione religiosa e, pertanto, un’antropologia che potrebbe sembrare in qualche modo coniugabile con quella che abbiamo visto essere di Zambrano. Tuttavia, le cose non si muovono in questa direzione, e la prosecuzione del discorso blochiano va verso una prospettiva che può essere definita di tipo dialettico-immanente.
Uno degli elementi maggiormente significativi della declinazione dialettica della speranza è rappresentato dal fatto che Bloch ha cercato di fondarla all’interno di una più vasta dottrina ontologica. Sebbene l’argomento meriterebbe ben altro spazio di trattazione, cercheremo di mostrarne perlomeno i tratti essenziali e utili al nostro ragionamento.
L’inizio del discorso ontologico è rappresentato dall’esperienza del proprio individuale esserci, l’existere, e dallo stupore che esso genera, ma si tratta di un’esperienza che si rivela subito come ambigua perché «io sono. Ma non mi possiedo ancora» (Bloch 1980a, p. 41). Per Bloch, l’existere appena inizia a sperimentarsi, si ritrova segnato dalla presenza di un deficit, di un non che parrebbe contraddirlo o che, quantomeno, lo qualifica solamente come una pura possibilità ancora irrealizzata. Questa condizione trova la sua appropriata radice sul piano dell’essere in generale, della substantia, in quanto, sempre secondo l’interpretazione blochiana che in questo è del tutto innovativa rispetto alle concezioni tradizionali, anch’essa risulta connotata dalla stessa limitazione alla sola pura possibilità. L’essere «ha la sua essenza non come già fisso essere-stato, bensì come non-ancora-divenuto» (ivi, p. 276) e, quindi, è contrassegnato da una ancora irrisolta tensione fra potenza e atto, qualificandosi non già come on ma come dynamei on, come essere-nella-possibilità. In conclusione, l’intera dimensione ontologica - esserci ed essere - è caratterizzata da questa condizione di sospensione nella pura possibilità, di non che la priva della sua realizzazione, è Noch-Nicht-Sein, non-ancora-essere.
Il problema che rimane aperto è pertanto quello del superamento di tale condizione sospesa, del passaggio dalla potenzialità all’attualità e, per Bloch, la risposta risiede nella relazione che si dà fra essere ed esserci, relazione che ha un doppio movimento. Il primo movimento è quello più scontato e va dalla substantia all’existere. Di esso abbiamo già detto: essendo la substantia solamente un dynamei on, questa sua condizione si ripercuote sull’ existere che per tale motivo non può ricevere la sua attualizzazione; detto con un linguaggio impreciso ma eloquente è come se l’existere fosse solamente un “atto potenziale” della substantia un suo “atto attuale”; qui risiede il fondamento del non che ambiguamente lo caratterizza. Questo stato delle cose è, però, solo un aspetto della loro relazione che pertanto conosce anche una seconda direzione, stavolta orientata dall’ existere alla substantia. Prima di descriverla brevemente, va subito sottolineato che con l’introduzione di tale secondo vettore viene alla luce, da una parte, il centro teoretico dell’ontologia blochiana e, dall’altra parte, la definitiva maturazione/rivelazione della sua concezione antropologica.
Per Bloch, l’existere non si rassegna all’ “horror vacui davanti a se stesso”, al non che segna la sua condizione di sola potenzialità, e cerca la propria realizzazione. «C’è qualcosa in noi che palpita, questo qualcosa bussa, ha fame, sospinge, avvia. Dunque continua sempre ad annunciarsi il fatto-che [Dass] del porre, il fatto-che, molto in basso, che non si possiede, ma che di dentro come di fuori, cerca, pone, mette appunto quel che è suo sulla via ulteriore del portarsi fuori» (ivi, p. 282). L’existere vuole e si impegna a trovare il passaggio dalla potenzialità che lo connota e lo affligge, all’atto che lo realizzi e lo compia. In questa dinamica del movimento dal non-avere-ancora l’essere al suo pieno possesso, l’existere si muove in autonomia rispetto alla substantia, ma ciò non implica il venire meno della loro relazione, bensì l’aprirsi del suo secondo e rovesciato movimento in forza del quale è l’esserci che risulta attivo rispetto all’essere e, nella misura in cui il suo passaggio all’atto si realizza, provoca necessariamente il medesimo passaggio anche in esso. In sintesi, secondo Bloch il movimento ontologico realizzativo ha il suo attore nell’esserci e, pertanto, l’essere dipende da esso per potere diventare pienamente se stesso. «La sostanza raggiunge l’essentia del non-avere-ancora solo nell’ultima realizzazione del fatto-che non più rimasto fermo in sé, e ha solo in questo ultimum il più alto grado d’essere che si possa raggiungere» (ivi, p. 276).
Il risultato “metafisico” di questa dottrina ontologica è quello della indistinzione fra esserci ed essere, anche se tale indistinzione risulta come un punto di arrivo finale affidato al movimento storico. Bloch parla al proposito di un’identità finale che non si presenta come vuota tautologia, ma come “identificazione processuale”. Corollario non secondario di essa è, poi, la riduzione del piano ontologico ad un livello puramente immanentistico, che restringe il significato della trascendenza al solo livello storico-temporale. Aggiungiamo, infine, che la concezione dell’uomo che ne deriva è una concezione pienamente prometeica e ateistica, che Bloch spinge fino al punto di elaborare un’interpretazione di Cristo non più come figlio di Dio incarnatosi, ma come «l’inconsolato Lucifero ed il suo desiderio di essere come Dio [...] solo in Lui dunque, nel Nascosto in Cristo, in quanto anti-demiurgico assoluto, è compreso anche l’autentico elemento teurgico di chi si ribella perché figlio dell’uomo» (Bloch 1980b, p. 252). Dal che risulta che l’uomo è l’unico e assoluto attore tanto della storia umana, quanto della storia dell’essere. Tuttavia, l’aspetto per noi più importante, anche se ovviamente strutturalmente connesso al discorso ontologico e antropologico, è quello che investe il tema della speranza.
La cosa che mette conto osservare è che Bloch fa indossare alla speranza i panni dell’utopia, con la necessaria precisazione che il concetto blochiano di utopia non va confuso con quello usuale nella letteratura filosofica da Tommaso Moro in avanti. La speranza/utopia non è né volontà di significato contro l’assurdità dei fatti, né proiezione critica in un futuro migliore del presente, ma è insieme una situazione ontologica e un atteggiamento storico, è conoscenza della realtà e attivo intervento su di essa. Essa sorge dalla divisione fra potenza e atto e, nel contempo, ne è la risanatrice: pensiero/azione che salva il mondo, dunque anche piena teurgia. Con il che la dialettica si è pienamente sostituita all’evento e la dissipazione della spes in spem può dirsi perfettamente compiuta. Questa prospettiva, che evidentemente non è solo blochiana ma ampiamente diffusa in molteplici concezioni filosofiche moderne, costituisce il versante del fallimento della cultura europea e il conseguente stravolgimento dell’uomo che ne è stato il protagonista. Zambrano parla al proposito di una “ubriacatura” - che a nostro avviso è cifra allegorica per indicare lo smarrimento dell’autoconsapevolezza dell’essere creatura e del proprio limite -, che ha fatto dimenticare la distanza e la differenza fra la prospettiva della salvezza messianica, che costituisce il permanente orizzonte della spes europea, e quella del perfezionismo storico-politico, che rappresenta l’interminabile luogo del suo tradimento. «L’annullamento totalitario della distanza, della distinzione fra ‘ il bene che voglio e il male che faccio’. Barbarie monista, falsificazione mistica che soppianta la permanente speranza di resurrezione [...], e abbandono del sapere più peculiare dell’uomo europeo: il saper vivere nel fallimento» (Zambrano 2009, pp. 75-76).
Parafrasando Dostoevskij, per salvare la speranza occorre, dunque, abbandonare la dialettica per ritrovare l’evento e, con esso, la vita vera.
Bibliografia
Arendt H. (2016), Vita activa. La condizione umana, tr. it. con una introduzione di A. Dal Lago, Bompiani, Milano.
Bloch E. (1959), Das Prinzip Hoffnung, 3 voll., Suhrkamp, Frankfurt a. M., (tr. it. con una introduzione di R. Bodei, Il principio speranza, 3 voll., Mimesis, Sesto San Giovanni 2019).
- (1980a), Experimentum Mundi, ed. it. a cura di G. Cunico, Queriniana, Brescia.
- (1980b), Spirito dell’utopia, tr. it. di V. Bertolino e F. Coppellotti, La Nuova Italia, Firenze.
Zambrano M. (2009), L’agonia dell’Europa, ed. it. a cura di C. Razza, Marsilio, Venezia.
- (2008a), L’uomo e il divino, tr. it. di G.Ferraro, Edizioni Lavoro, Roma.
- (2008b), Per l’amore e per la libertà. Scritti sulla filosofia e sull’educazione, ed. it. di A. Buttarelli, Marietti 1820, Genova-Milano.
- (2002), Il sogno creatore, ed. it. a cura di C. Marseguerra, Bruno Mondadori, Milano.
- (2000), Persona e democrazia. La storia sacrificale, tr. it. di C. Marseguerra, Bruno Mondadori, Milano.
- (1996), Verso un sapere dell’anima, tr. it. di E. Nobili, Raffaello Cortina Editore, Milano.
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