In questi ultimi anni il fenomeno dell’immigrazione ha attraversato e sta attraversando un momento particolarmente difficile. Il futuro si fa ogni giorno più oscuro e il dibattito si è, in parte considerevole, spostato su quella che si potrebbe definire “l’emergenza dentro l’emergenza”. Per dirla in altro modo: si profila all’orizzonte uno stato di cose in cui non sarà più in questione l’accoglienza ma, a monte, il soccorso in mare e la stessa garanzia della vita e dell’incolumità degli immigrati. Il razzismo e la xenofobia montanti in alcuni Paesi europei, compresa l’Italia, fanno sempre più presa su quella parte dei cittadini di questo pezzo di mondo in cui la nostalgia dei fascismi non ha mai smesso di esistere. In queste condizioni, alla prospettiva di una convivenza solidale e ispirata ai princìpi dell’umanesimo si è dovuta, per forza di cose, affiancare e talvolta anteporre una sorta di “resistenza” contro linee di governo basate sul rigetto violento e demagogico di quei princìpi.
Ma il profilarsi sempre più netto dell’emergenza non dovrebbe bastare a schiacciare il dibattito e l’impegno sotto la pressione del momento. Se fosse così, si avrebbe una resa nei confronti di quelle forze politiche e sociali che vorrebbero imporre ancora una volta nella politica l’antitesi “amico-nemico”, costruendo, com’è accaduto, non una sola volta, in un passato che nessuno dovrebbe dimenticare, il “nemico” a proprio uso e consumo. In netta antitesi rispetto a tale posizione si pone, invece, la speranza in un domani migliore, in cui la collaborazione dei Paesi europei diventi effettiva. Questa speranza spinge a guardare avanti e, mentre si lotta contro l’oscurantismo e l’indifferenza, rende urgente ragionare sul senso ancora vivo di una cittadinanza diversa da quella tradizionale, pur con tutti i problemi che sembrano per ora caratterizzarla non solo nelle teorie, ma nella concreta vita di ogni giorno.
Si tratta, lo sappiamo, di pensare una cittadinanza che sia in grado di ospitare, insieme, l’uguaglianza e la differenza, garantendo efficacemente agli immigrati non solo un asilo, ma dei precisi diritti e una convivenza rispettosa della dignità della persona umana, da qualsiasi Paese provenga. È necessario, però, che ciò sia fatto senza nascondersi le questioni aperte che abbiamo di fronte in questo campo. Se è errato e, anzi, moralmente riprovevole l’odio come atteggiamento politico, non è una buona strada neppure quella di far scivolare il discorso della cosiddetta “società multiculturale” in una nuova forma di ideologia che, spinta dalla forza della passione che l’anima, finisca per ignorare o sottovalutare la complessità dei nodi da sciogliere e non arrivi a comprendere l’entità del problema di civiltà che oggi emerge di fronte al fenomeno dell’immigrazione di massa.
La cittadinanza è stata sempre un termine plurisenso e la sua portata semantica ha costituito un dilemma non certo facile da affrontare. Infatti, “cittadinanza” può significare la garanzia di alcuni diritti fondamentali che attestano l’appartenenza politico-giuridica a una società politica determinata. Ma, in un’accezione più articolata, indica anche la coesione di una comunità (che nell’evo moderno è stata, e in parte cospicua, continua a essere la nazione) entro la quale viene condiviso un ricco insieme di pratiche di vita, di princìpi di condotta, di tradizioni; insomma, tutto ciò che costituisce l’identità - storicamente sempre in evoluzione, ma fortemente riconoscibile quanto ai suoi tratti essenziali - di un popolo. La cittadinanza, in questo significato, va considerata come «storicamente generata in base a una doppia codificazione; per un verso, è lo statuto definito dai diritti del cittadino e, per l’altro, è l’appartenenza alla cultura di un popolo» (Gomarasca 2004, p. 131).
Detto questo, va però chiarito, nei limiti del possibile, il concetto di “cultura”. Si può, in estrema sintesi, affermare che consiste, secondo una definizione molto generale (fino a essere generica), in ogni creazione umana che si distacchi da un presunto dato “naturale”. Ma, come nel caso della definizione di “cittadinanza”, disponiamo di un’accezione più articolata. La possiamo enunciare così: l’insieme di usi, costumi, produzioni artistiche, credenze e valori da situare in stretto rapporto con la nazione, intesa quale «comunità intergenerazionale, più o meno istituzionalmente completa, che occupa un certo territorio o patria, e condivide una lingua e una storia distinte». Will Kymlicka, da cui traggo la citazione, invita a denominarla «cultura sociale», termine che, pur nella sua abbastanza evidente larghezza di significato, mi pare preferibile ad altri, come ad esempio «cultura pervasiva» usato da Margalit e Raz. Dworkin parla di «un vocabolario comune di tradizioni e consuetudini» (Dworkin 1985, p. 231) che, solo, può dare senso alle scelte che compiamo nella nostra vita in società; vi connette una componente morale, cioè il «dovere, per una semplice questione di giustizia, di lasciare quella struttura almeno altrettanto ricca di quando l’abbiamo trovata» (Dworkin 1985, pp. 232-233).
Ovviamente la “cultura sociale”, qualsiasi essa sia, è sempre in sviluppo, giacché è il frutto d’influenze, di condizioni, di apporti diversi che emergono nel tempo e nel tempo mutano e/o scompaiono. Costituisce un composto solo relativamente unitario, contraddistinto da un’elevata dose di variabilità in senso diacronico e da un’articolazione interna in senso sincronico, fattori che possono permettere un notevole grado d’interazione con altre culture. D’altra parte, l’alto grado di dinamicità non impedisce di parlare di un’identità culturale per quanto riguarda singole nazioni e anche (in questo caso, peraltro, con molte riserve) per quanto concerne entità politiche sovranazionali, come ad esempio l’Europa.
Il nostro discorso deve riguardare il problema degli immigrati e, quindi, restringersi a questo caso specifico.
Inizierei con il rilevare che i dati di fatto non sembrano confermare la tesi secondo cui esisterebbe un nesso inscindibile tra “volontà di mantenere una cultura sociale distinta” e “volontà di isolamento” da parte di questa cultura rispetto alle altre. Certamente il rischio di “murare” le differenze entro micro-universi chiusi c’è e si manifesta talvolta con effetti drammatici: ce lo dice chiaramente la cronaca. Ma il pericolo maggiore mi sembra esattamente l’opposto, cioè la disintegrazione delle culture in cui dovrebbe manifestarsi e conservarsi la differenza. Quindi, credo sia più utile e produttivo affrontare il problema del rapporto tra cittadinanza e differenza culturale - così come si presenta nei vari paesi interessati dai flussi migratori - mettendo in primo piano il dissolvimento delle differenze piuttosto che il loro irrigidimento autoreferenziale.
È noto che la cittadinanza, nelle società che definisco per semplicità, “multiculturali”, si concretizza nella garanzia dei diritti civili, politici e sociali previsti dalle costituzioni liberal-democratiche, garanzia congiunta alla promozione di diritti “specificati” a tutela e nel rispetto di alcuni princìpi e pratiche salienti propri dei diversi gruppi minoritari. Il punto critico, a mio avviso, risiede nel fatto che il godimento di questa cittadinanza, con cui si cerca di assicurare contemporaneamente uguaglianza e differenza, rischia di far pagare un alto prezzo, che abbiamo sotto gli occhi; per quanto riguarda gli immigrati, “cultura sociale” e cittadinanza tendono, infatti, a scindersi. La cittadinanza delle nostre democrazie, pur sempre in mutamento e mai statica, dovrebbe basarsi sull’adesione alla cultura liberal-democratica che ispira e caratterizza le costituzioni dei paesi occidentali; questa cultura è ovviamente diversificata al suo interno, ma abbastanza compatta quanto ai suoi valori e orientamenti essenziali. Però, come ben vediamo, è sempre meno sentita e sempre meno vissuta intimamente dai membri delle nostre società: il rinascente razzismo e l’incontestabile riemersione delle ideologie di stampo fascista si situa in questo contesto e vi trova alimento. La politica dell’inclusione democratica spesso dimentica o sottovaluta la non confortante realtà che sull’inclusione grava l’ipoteca di una disaffezione dei cittadini dei nostri Paesi ai princìpi della democrazia; incombe, inoltre, una profonda crisi delle istituzioni a garanzia della libertà e della partecipazione. Si tratta di due fattori che non rendono certo molto efficace tale politica. La mancata educazione civile di parti ingentissime delle società occidentali e, in particolare, di quella italiana, fa sentire oggi il suo peso come mai prima.
Da un lato, esiste un problema palese e facile da documentare: il crescente tasso di insofferenza e spesso di vero e proprio odio verso gli immigrati rende ogni giorno più difficile la loro esistenza a casa nostra.
Dall’altro, se spostiamo la riflessione su un piano ulteriore e, credo, meno analizzato, possiamo stringere su un punto certamente molto rilevante: il rapporto tra cittadinanza e cultura sociale. In questo caso sembra plausibile affermare che, per quanto li riguarda, gli immigrati si trovano nella necessità di separare la cittadinanza formale - che acquisiscono, secondo regole diverse da Paese a Paese, nelle società ospitanti - dalla cultura sociale che portano con sé. Il punto saliente consiste nel fatto che questo non è solo l’effetto di un atteggiamento assimilazionista che è diventato ipertrofico in alcuni paesi come la Francia (ma presente, in modo più o meno marcato, dovunque). È qualcosa di più e di molto diverso.
Ovviamente quest’affermazione va spiegata. Per farlo, inizio col distinguere tre modalità di trattamento della differenza culturale:
a) Il retaggio culturale degli immigrati può essere volontariamente abbandonato e sostituito da un’integrazione che si sviluppa nel tempo e che plasma una nuova identità, non tanto per gli immigrati di prima generazione ma per i loro figli e discendenti (solo loro, in fin dei conti, saranno cittadini a pieno titolo delle nuove terre che vengono ad abitare). Però, il fatto cruciale è che, il più delle volte (vedi il modello francese), in questa forma di integrazione c’è poco di volontario, giacché le persone sono obbligate all’ omologazione dal sistema giuridico del Paese ospitante.
b) Il retaggio culturale può divenire parte di un processo di apprendimento reciproco in cui dovrebbero emergere le potenzialità, per ora purtroppo più teoriche che pratiche, dell’ “interculturalità”, cioè del dialogo tra le culture. Alla pluralità di appartenenze culturali che, seguendo una strada opposta a quella descritta nel punto a., mirano a immunizzare la loro purezza in modo integralistico si sostituisce, nelle teorie politiche ispirate all’interculturalità, il progetto di una società dialogante nella quale l’arricchimento dovrebbe essere vicendevole e in cui anche la cultura prevalente potrebbe trarre vantaggi ai fini dell’autoriflessione critica su se stessa. In alcune realtà ciò in parte già accade, ma moltissimo c’è ancora da fare. Credo, comunque, che qui stia uno dei nodi principali da sciogliere e nel quale sono coinvolte le istituzioni educative, le università, le libere associazioni del volontariato e, ovviamente, le politiche sociali di sostegno atte a garantire e a promuovere tutto questo.
È il tempo, in questo caso, il fattore determinante: siamo di fronte al processo vero e proprio della fondazione di una nuova cittadinanza e di un ordinamento istituzionale idoneo a portarne il peso e la responsabilità. A differenza delle esperienze di fondazione sperimentate nel passato più o meno recente, almeno a partire da quella dei Padri fondatori delle colonie americane, qui non è pensabile un covenant a partire dal quale si sviluppi storicamente una convivenza secondo regole liberamente consentite. Invece che alla figura e all’artificio del contratto di fondazione dovremmo pensare all’immagine di un cammino da compiere, in cui la fondazione s’implementa dinamicamente con gli anni. Se è accettabile quello che ho affermato poco sopra sull’insufficiente formazione democratica dei cittadini della nostra parte di mondo, potremmo parlare di un’interrelazione che, partendo dai “mondi vitali”, crei lo spazio pubblico di una mutua ri-comprensione della democrazia in vista della quale ogni cultura potrebbe portare il suo piccolo o grande contributo. Cadrebbe così l’immagine del cittadino immigrato quale “eterno minorenne”, per usare il lessico kantiano, che deve essere trattato come oggetto passivo e sovente sfruttato; ad essa subentrerebbe quella della pluralità di apporti che ognuno può dare, spingendo in avanti la “fragile navicella” della democrazia, come la chiamava Maritain.
c) Certo, come accennato poche righe sopra, può darsi anche il caso che una o più culture di cui sono portatori gli immigrati si chiudano in se stesse con l’obiettivo di mantenere la propria “purezza” puntando a diventare vere e proprie “minoranze culturali”, talvolta pacifiche, qualche altra volta meno (o per nulla). Ma, come detto, non sembra trattarsi di casi dominanti, anche se talvolta gravi nei loro esiti.
3. In tutto questo, qual è il pericolo? Detto in breve è che, se questo processo di possibile ri-fondazione si arrestasse all’ambito formale dei diritti, l’appartenenza politica e giuridica finirebbe per autonomizzarsi rispetto alle fedeltà religiose, morali, spirituali, di questa o di quell’altra comunità culturale. Si potrebbe dire che di “comune” rimarrebbe il Giusto che garantisce il rispetto dei diritti sul piano procedurale, mentre il Bene sarebbe sottratto al confronto, rimarrebbe non-comune e sarebbe prevalentemente collocato nella sfera privata con le sue variegate soggettività e con i suoi variopinti look nel campo degli imperativi morali, spirituali, religiosi. Non sarebbe più neppure pensabile una forma di unità nella possibile e auspicabile tessitura di una “cultura sociale” che, a partire dal contributo delle singole comunità, dovrebbe diventare, laddove risultasse possibile, un nuovo bene comune nella sfera pubblica.
In caso contrario, avremmo frammenti di identità culturali che, dopo aver spezzato le loro radici con il luogo originario di nascita, si manterrebbero faticosamente in riti, costumi, usanze, ognuno chiuso in sé e senza altri punti d’incontro e di convergenza se non il rispetto (importante, ovviamente, ma credo non esaustivo) degli universali procedurali, di cui ha parlato Norberto Bobbio. E non è difficile prevedere che, in questa sorta di monadologia culturale, spirituale, politica le diverse culture incontrerebbero ad ogni passo anche considerevoli ostacoli alla loro permanenza in vita.
La domanda che ne deriva si può sintetizzare così: le società che stanno nascendo in questa parte del mondo - ovviamente fatta eccezione per i Paesi che praticano la politica dell’esclusione e per i quali, di conseguenza, questi problemi neppure sono immaginabili - saranno unite solo proceduralmente oppure saranno caratterizzate da un’etica pubblica frutto di un consenso dialogico cha sappia far tesoro dell’uguaglianza e delle differenze? Sembra che l’eredità plurisecolare dello Stato moderno, lungi dall’essere esaurita, inviti invece a fare ancora una volta, oggi, i conti con i fondamenti possibili dell’unità nella sfera pubblico-politica. Nel momento in cui nuovi soggetti chiedono di essere parte della società che li accoglie, siamo chiamati ad affrontare il problema che, dopo un’intera epoca storica, torna a interrogarci: quali sono il significato e i caratteri del consenso che dovrebbe cementare la convivenza? Fonte e garante di questo consenso non potrà essere più unicamente il sovrano, ma una società civile nella quale il pluralismo ha assunto un volto molto diverso e molto più enigmatico, data la varietà delle radici culturali dei potenziali nuovi cittadini. Ai tempi delle guerre civili di religione la soluzione era, al confronto con la situazione attuale, relativamente facile, perché le basi culturali, spirituali, morali di un’Europa ormai divisa quanto all’appartenenza religiosa, erano e rimasero per secoli, malgrado questa divisione, unitarie e stabili, così come le aveva formate una tradizione culturale che l’Umanesimo e il Rinascimento avevano recuperato, sintetizzato, fatto fruttificare, conferendole una tenuta che la Riforma non riuscì ad intaccare se non in parte. Oggi la situazione è diversa, perché le identità culturali in campo vengono da processi di formazione molto diversi e talvolta conflittuali. Il problema di individuare una “cultura sociale” comune ci viene dalla storia trascorsa, ma le sue variabili sono infinitamente più complesse di quanto non fossero nei secoli passati.
L’egemonia della ragione calcolante, non solo in molte filosofie ma anche nel senso comune della gente, ha reso attraente l’idea che le identità dei popoli, non meno che quelle degli individui, siano non realtà con cui fare i conti, ma residui di una mentalità metafisica e religiosa di cui prima ci si sbarazza e meglio è. A causa di ciò, quando si guardano i fatti e quando si valutano le politiche del riconoscimento, ci si accorge che, al di là delle migliori intenzioni, la cittadinanza reale perde la sua sostanza culturale e morale, il suo ethos. In mano, concretamente, ci rimane l’attribuzione agli immigrati dei diritti civili e politici, che certamente ci fa guadagnare - al netto degli ostacoli che incontra quotidianamente e delle aporie interne alle legislazioni in materia - un livello prezioso di universalità e di unità, ma solo formali. Il prezzo che si paga è la perdita della considerazione e del rispetto delle memorie collettive, nonché del carente riconoscimento reciproco delle diverse culture. Anche da qui - seppure non solo da qui - nascono i fenomeni di disorientamento dei nuovi soggetti immigrati, si origina un’integrazione che tende all’assimilazionismo, cresce l’omologazione a livello nazionale e sovranazionale, mentre le culture antichissime dei popoli del mondo, in particolare, oggi, dell’Africa del nord e del Medio Oriente, tendono a diventare ammassi di macerie che forse, un giorno lontano, potranno al massimo essere preservate, per quel poco che ne resterà, in una sorta di “parchi protetti”, un po’ come accade alle specie animali in estinzione, mète di turisti alla ricerca dell’”esotico”.
Quindi, se si vuole evitare questo esito, dobbiamo affrontare un altro tema che mi pare inevitabile toccare, almeno di sfuggita. Lo sforzo di portare a sintesi le “culture sociali” con l’obiettivo di creare una “cultura sociale” che valorizzi i punti di consenso possibili non potrebbe riguardare ovviamente che un numero ridotto e attentamente selezionato di convergenze, lasciando quindi all’esterno tutta una serie di princìpi, valori, usanze, premesse filosofiche che stanno alla base dell’identità di ogni popolo della terra e che è bene conservino la loro specificità e integrità. La sintesi tra universalismo e contestualismo sembra poter funzionare così. È il metodo che Maritain suggeriva al tempo della stesura della Dichiarazione dei diritti del 1948.
Inoltre, certo molto più a lungo termine (e senza che questo faccia pensare a un’analogia con il dictum o, meglio, con il barbaro slogan che suona, più o meno: ci pensino da soli) si tratta, superando gli sconvolgimenti provocati dal colonialismo e dal neo-colonialismo, dalle politiche predatorie dei Paesi ricchi su quelli poveri e da tutto quanto ne deriva, di «ricreare la […] cultura sociale» (Kymlicka 1995, p. 168) dei nuovi aspiranti cittadini nei paesi d’immigrazione, operazione che qualcuno ha definito un compenso alla «nostra incapacità di dar loro la possibilità di una vita decente nel loro paese d’origine» (ivi, p. 173). Se qui sfioro l’utopia, pazienza. Non è detto che l’utopia non sia in grado di dare risultati sul piano storico, se utopia non significa solo evasione dalla realtà, ma provocazione finalizzata a cambiarla. Non è impossibile - tranne per politiche omicide e suicide allo stesso tempo - che, in un tempo non infinito, dai Paesi e dalle città del mondo oggi in drammatica difficoltà non si debba più emigrare forzatamente, cioè costretti. E non si debba più farlo semplicemente perché non ce ne sarà più bisogno; ciò implica restituire agli uomini e alle donne dei vari Paesi dilaniati dalle guerre, dalla povertà, dalla disperazione, la facoltà di abitare, in modo degno, le loro città. Quelle che stiamo allestendo chez nous hanno provveduto e provvedono come possono ai bisogni del presente, facendo però pagare agli immigrati, almeno per ora, il dazio di un’inevitabile scissione tra “cultura sociale” e cittadinanza. È auspicabile che le città che potranno essere un giorno approntate per tutti i popoli del mondo, finalmente liberi e uguali, consentano di ricomporre tale frattura. Ciò equivarrebbe a far sì che finalmente questi popoli riescano a fruire, nella loro patria, di una cittadinanza piena secondo i loro costumi, fedi, appartenenze morali. Potranno, nel loro modo, mettere a frutto le esperienze che stanno segnando l’esordio di questo secolo e organizzare i diritti della cittadinanza democratica secondo l’essenziale filtro del loro punto di vista sul significato e sui limiti di tali diritti. L’esodo sarà finito e potrà cominciare il tempo del libero confronto culturale e dello spostamento veramente volontario nello spazio globale democratizzato. Credo che sia un passaggio essenziale verso una democrazia cosmopolitica, intesa nel senso attribuito a questo concetto da David Held e Daniele Archibugi, in cui la progressiva istituzionalizzazione di sistemi democratici nei paesi del mondo sappia fare i conti con l’eredità dello Stato-nazione in senso autenticamente critico, cioè liquidando ciò che di questa realtà va liquidato e custodendo quello che andrebbe auspicabilmente custodito. Il dialogo tra i popoli e tra le loro culture ha senso solo nella misura in cui ogni popolo e ogni cultura siano poste nelle condizioni di conservare e sviluppare la loro identità, che per molto tempo ancora resterà legata al suo contesto nazionale specifico.
Ciò che sostengo è che la sovranità politica - come “sistema” che garantisce diritti e appartenenza giuridica - dovrebbe essere distinta dall’identità culturale - che non può essere in gran parte se non il prodotto del libero confronto e incontro tra culture differenti che si misurano principalmente nei “mondi vitali”. Se sovranità e identità culturale di un popolo hanno costituito per secoli, non solo in Europa, una sorta di binomio inscindibile, è venuto il tempo di saper differenziare questi due livelli. Intendo questo nel senso che si tratta a) di cedere sovranità a favore del libero confronto tra le culture, b) in vista della promozione di istituzioni democratiche sovranazionali, c) mantenendo e sviluppando gli elementi fondamentali che caratterizzano le differenze culturali nei loro luoghi propri di origine e di sviluppo, d) con l’obiettivo di intessere un dialogo che avrà senso ed efficacia unicamente se parte da soggetti, individui e popoli, liberi e uguali. Allora si potrà parlare di “multiculturalismo” come realtà diversa dall’aggregazione spesso informe che risulta oggi dall’afflusso nei Paesi benestanti di individui e gruppi che trascinano con sé, oltre la paura, brandelli confusi della loro storia e delle loro culture. Melassa pseudo-culturale e sfruttamento economico sono, in tale contesto, i risultati più vistosi.
Fallire significherebbe sancire la fine della varietà e della ricchezza culturali di un pianeta in cui, se non si cambierà radicalmente la politica internazionale, solo il surrogato di tale varietà e ricchezza potrà sopravvivere nelle “riserve” delle società opulente. Il resto sarà omologazione dominata dagli imperativi dei mercati finanziari, che sempre più non mediano i conflitti, secondo il fatuo ottimismo dei liberisti di vario colore, ma ne scatenano in ogni parte della terra.
Bibliografia
Dworkin R. (1985), A Matter of Principle, Harvard University Press, London; tr. it. Questioni di principio, Il Saggiatore, Milano 1990 (citato in Kymlicka 1995).
Gomarasca P. (2004), I confini dell'altro. Etica dello spazio multiculturale, Vita e Pensiero, Milano.
Kymlicka W. (1995), La cittadinanza multiculturale (1999), il Mulino, Bologna; titolo originale: Multicultural Citizenship, Oxford University Press, Oxford.
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