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Congetture e provocazioni sul perché siamo degli ottimi artigiani

RAIMONDO CUBEDDU
Articolo pubblicato nella sezione Sulla filosofia italiana

Per parlare dello stato (o della 'decadenza'?) della filosofia italiana contemporanea contrapponendo un presente angusto ad un passato augusto, ci si dovrebbe anzitutto chiedere come ciò sia potuto accadere. Ma per quanto ricordi che alla Weltgeschichte si sia già dato (anche se in tempi remoti), sono del parere che riguardo al nostro recente passato ci sia poco da mitizzare o da rimpiangere; e pertanto che il confronto con la situazione attuale non debba generare amarezza. Lo Zeitgeist si ricorda di noi a sprazzi. Per imperscrutabili motivi ci ha dimenticati da molto tempo. E forse non è il caso di dolercene.
Il fatto è che nel mercato ormai globalizzato delle idee, come in quello della scienza e delle tecnologie, non produciamo più innovazione ma facciamo dell'ottimo artigianato. Prodotti di nicchia, sfiziosi, che però hanno scarse probabilità di diventare universalmente fruibili. Anche se ogni tanto qualcuno se ne innamora.
La mia impressione, per dirla con molta drasticità, è che lo spasmodico confronto dei filosofi italiani con le molte tendenze del Novecento («il neopositivismo, la filosofia analitica, il razionalismo critico popperiano, il neo-aristotelismo, il neo-kantismo, il personalismo, il variegato impatto del pensiero di Nietzsche e di Heidegger, la psicanalisi post-freudiana, la biopolitica») non abbia dato vita a qualcosa di particolarmente originale. Ma ho pure l'impressione che tale confronto, ed il suo essere a tratti esasperato, sia da mettere in connessione anche col desiderio (più o meno confessato e legittimo) di sottrarsi ad una tradizione nazionale esausta o oramai inutilizzabile.
Ciò che penso valga soprattutto per la Filosofia politica (FP).
Quel confronto, quindi, forse non ha spazzato ma soltanto resa marginale la tradizione filosofica italiana che Croce e Gentile, nonostante le indubbie differenze, e con ammirevole e titanico sforzo, avevano cercato di rivitalizzare nella prima metà del Novecento e che ha condizionato orizzonti e stili anche nei decenni successivi alla loro scomparsa. Una conferma di tale persistenza, prolungatasi fino agli ultimi decenni del XX secolo, è data dal numero sterminato di opere che quelle tendenze volevano inquadrare, comprendere, criticare, respingere, muovendo per l'appunto da Croce e da Gentile. Talora cercando anche di fonderle, arricchirle, integrarle, etc. Ma è anche da dire che pure dalle parti degli 'indipendenti' e dei critici dell'egemonia crociana e gentiliana – e nel campo delle scienze sociali e della filosofia della scienza non furono pochi e godettero, si pensi soltanto a Pareto, Volterra, Enriquez, di indubbio prestigio internazionale– gli allievi forse non hanno superato i maestri.
Un modo per affrontare il problema potrebbe essere allora proprio quello di chiedersi come mai ciò sia avvenuto in pressoché tutti i settori della ricerca filosofica, e se le istituzioni accademiche e culturali, o la vanità dei 'maestri', ne siano in qualche modo responsabili. Ma si potrebbe anche dire che per quanto indispensabile sia l'educazione, quando c'è, il genio filosofico riesce a rivelarsi. Soprattutto qualora non esistano persecuzione, censure, ma tanti editori (e pochi lettori).
A quest'aspetto del problema bisogna aggiungerne altri.
Il primo, più semplice ma anche più tragico, è rappresentato dal fatto che ormai – e purtroppo – chi non scrive in inglese, o non è adeguatamente tradotto in quella lingua, è praticamente tagliato fuori dal dibattito internazionale. Anche gli studi critici, per quanto di altissimo livello, stentano ormai ad entrare nella letteratura specialistica (si pensi, ad esempio, a quelli italiani su Machiavelli, e a quelli dei tedeschi che scrivono su Lutero, Kant, Hegel, Nietzsche, Heidegger, etc.).
secondo – poiché per molti secoli, e forse tuttora, il nome Italia è nel mondo associato non soltanto a spaghetti, pizza, mafia, Venezia, Colosseo e Torre di Pisa, ma anche al Papato romano – riguarda i contributi genericamente ascrivibili alla tradizione cattolica. Molti, di diversa impostazione e pregio, ma accomunati dal fatto di non essere riusciti a creare, o a ripristinare, una teoria autonoma della modernità o una teoria ad essa alternativa (un disagio che recentemente è stato acutamente messo in luce da Pera in Diritti umani e cristianesimo) e di essere così costretti a inseguire o a criticare, altre tradizioni filosofico-culturali. E tuttavia, una cosa è dire che buona parte della modernità sfocia nel relativismo e nel nichilismo, o che è dominata da Mammona, altra cosa è creare un'alternativa attingendo al vasto patrimonio della tradizione 'filosofica' cristiana e sviluppandolo. Ci ha provato Ratzinger, ma forse era troppo tardi e forse non è stato capito e tanto meno seguito. Buona parte del mondo cattolico ha preferito confrontarsi con le teorie dei soliti tedeschi moderni e contemporanei, quando sarebbe stato invece il caso di chiedersi perché e come mai la Chiesa cattolica avesse abbandonato quella riflessione sulla filosofia politico-economico-giuridica nella quale fino ai tempi di Suarez, Vitoria e Bellarmino eccelleva. E se la si poteva riprendere. Sta di fatto che il confronto del cattolicesimo con la modernità è avvenuto tardi; quando questa si era ormai consolidata in un'egemonia difficile da scalfire. Pure in questo caso, quindi, nessun “prodotto culturale” veramente innovativo. Oltretutto perché i pensatori cattolici che riuscivano a dormire anche senza essere finalmente riusciti a fare i conti con Marx, Heidegger, Benjamin, Jonas, erano troppo legati ad una tradizione problematica storico-culturale italiana, come ad esempio Del Noce, per poter fare veramente il salto. Ed elaborare qualcosa di nuovo che si imponesse all'attenzione universale (quello che, per fare un esempio, è in parte riuscito a Spaemann).
Si può così dire che sia mancata una tipologia di confronto come quella che aveva caratterizzato il Saggio sul diritto naturale fondato sul fatto, di Taparelli d'Azeglio: un confronto informato e serrato che non rinunciava a ribadire la specificità, l'autonomia e il valore universale della soluzione cristiano-cattolica alla complessa e problematica relazione tra Filosofia e Religione e che aveva l'arditezza di scrivere che Kant travestiva in filosofia universale i suoi pregiudizi di protestante. Iniziata in Italia, la Dottrina Sociale della Chiesa, e per l'ovvio motivo che il suo 'aggiornamento' dipende dai documenti pontifici, non si può dire abbia da noi avuto sviluppi eclatanti in un cattolicesimo che a livello di filosofia politica e sociale (messo in soffitta, o in qualche occasione riesumato, il tentativo di Rosmini di confrontarsi con liberalismo e mercato) si divideva tra Maritain e Del Noce. Ciò che può essere detto anche a proposito degli studi sul Diritto/Legge Naturale; dove non sembra siano da annoverare contributi non soltanto pari a quelli di Taparelli, ma neanche a quelli del panorama cattolico internazionale. La domanda, a questo punto, è se la crisi della filosofia cattolica non sia il risultato di una errata scelta degli interlocutori che – unitamente alla convinzione che la parte della modernità con la quale non fosse il caso di confrontarsi era quella appartenente alla tradizione liberale che poneva la libertà individuale di scelta al centro della vita sociale e delle sue istituzioni (e Antiseri potrebbe dire delle cose assai interessanti su questo tema) – l'ha progressivamente costretta a cimentarsi in un campo che non era il suo e con regole stabilite da altri. Talché, conclusivamente, ci si potrebbe anche chiedere quale sia lo spazio di una 'filosofia cristiano-cattolica' se, persa la 'protervia' di Taparelli, e con l'ansia di non essere adeguata a certi modelli tedeschi, si riduce ad essere una delle tante sul 'mercato delle idee'.
Ma sono un professore di FP; ed è bene ed opportuno che non mi allontani dalla mia bottega.
Quando ero giovane, pochi professori riuscivano a togliersi dalla mente Croce. Per respingerlo, criticarlo, imputargli i presunti ritardi della filosofia italiana, o per sostenere che, nonostante, tutto, aveva avuto ed aveva tuttora ragione. C'era chi sosteneva, e forse a ragione, che il suo fosse stato l'ultimo contributo italiano alla filosofia mondiale. Nutrito di Wiener Kreis, Popper, Strauss e Scuola Austriaca (scuole e pensatori allora controversi e discussi!), un po' mi incutevano timore e un po' mi lasciavano perplesso perché mi sembrava che quel contributo fosse sterile e che il mondo stesse andando in una direzione diversa da quella della 'storia della libertà'. Una direzione che non mi piaceva, ma che non credevo si potesse tentare di cambiare (velleità giovanili!) con la filosofia di Croce.
Ma Croce, in fondo, voleva soltanto rifondare il liberalismo per renderlo compatibile con la sua filosofia.
Un contributo universale, ma ormai e per fortuna sconfitto, fu invece la riflessione che durante il fascismo e grazie ad esso si iniziò sullo 'Stato', sulla politica, sul diritto, sull'economia corporativa, sulle scienze sociali. In questo caso, muovendo da una non banale fusione di verace tradizione italica e di sfrenata modernità, che a quei tempi suscitò vivo interesse in Europa e nel mondo, si ambiva a rifondare la FP e a creare un nuovo modello di Politica. Anche un libertario come me, che quelle teorie stato-centriche aborre e che sogna di fare a meno non soltanto dello Stato ma anche della Politica, non può che riconoscere che dal confronto col mondo e con le idee che lo agitavano (e negli anni del fascismo quel confronto ci fu) si stava generando qualcosa di originale. Dispiace dirlo (anche se noi studiosi di FP siamo abituati a vederne di tutti i colori), ma per quanto possa non piacere, quel qualcosa, ad di là del suo esito, è molto più interessante, originale e creativo di molta letteratura antifascista di quegli anni proprio perché mette in discussione tutto l'impianto istituzionale sedimentatosi intorno al trionfo del costituzionalismo liberale nello stato nazionale.
Di quelle tradizioni prima elencate dalla Redazione noi filosofi politici non ne abbiamo trascurata nessuna (anche se forse, ma soltanto fino a pochi anni fa, siamo stati poco attenti al conservatorismo; probabilmente per un malinteso sulla sua natura e per il timore di essere assimilati, occupandosene, a quella 'cultura di destra' prossima al fascismo).
In conseguenza di tutto ciò, i temi e i pensatori che vengono trattati e discussi (sempre più spesso in inglese) nelle nostre riviste di 'fascia A' sono ormai pressoché gli stessi che si ritrovano nelle riviste del resto del mondo. Ci siamo messi al passo col mondo, ma, e vorrei tanto sbagliarmi, senza essere ancora riusciti a produrre niente di originale, di veramente innovativo (e comunque non sono sicuro che se ciò dovesse avvenire sarebbe universalmente visto come l'atteso realizzarsi di un obiettivo comune). Per di più quando qualcuno (Esposito) ha cercato di mostrare che esisteva ancora una tradizione filosofica italiana e che fosse viva, ragguardevole ed originale, le reazioni (Viano) sono state dure e salaci. In parte condivisibili, dato il taglio dell'opera e i pensatori in cui tale tradizione sembrava reincarnarsi. Ma il problema (al di là del fatto che ogni tanto qualcuno si propone, o si fa presentare, come colui che è in grado di rinnovare gloria e fasti di un casato nobile e decaduto) indubbiamente esiste. Ci stiamo estinguendo? E perché?
A essere equanimi, per quanto riguarda la FP, la situazione non era poi così tragica. Nella seconda metà del XX secolo, accantonati Croce e Gentile, i quali per un motivo o per un altro hanno lasciato eredità non fruibili o sterili (e tale è stata, checché se ne possa dire, la controversia liberalismo- liberismo prolungatasi penosamente per decenni col risultato di devitalizzare il liberalismo italiano), eravamo infatti partiti bene.
Che le opere di Gramsci avessero innovato il marxismo, aperto alla possibilità di un comunismo non-sovietico, influenzato gli studi sul passaggio al socialismo nei paesi occidentali, e costretto quanti la negavano a farci i conti (e a concentrarsi ossessivamente sul tentativo di spiegarne l'erroneità, invece di proporre un modello alternativo migliore e più attraente), è innegabile. Quel che ci si deve chiedere è come è perché questa innovatività sia sia persa e smarrita. Dopo Gramsci il marxismo italiano ha prodotto soltanto 'studi', 'saggi', 'ricerche'; ma non opere teoriche in grado di approfondire, allargare la via da lui intravista ed intrapresa (e chi ha la fortuna di dare uno sguardo, nello studio del Presidente dell'Istituto Gramsci di Roma, a parte delle opere che aveva a disposizione in carcere, si rende conto di come il genio possa sopperire all'informazione, e pensare anzi che questa possa rattrappirlo).
Che Leoni avesse per molti versi visto negli anni Sessanta temi e problemi di cui i liberali della Mont Pélerin Society suoi amici (Hayek, Mises, Buchanan, Friedman, etc.) si renderanno conto anni, se non decenni, dopo; che li abbia in qualche modo spinti a riflettere su di essi, è ormai fuori discussione. Cito, a titolo di esempio, la questione del rapporto tra liberalismo e rappresentanza, i pericoli della produzione legislativa del diritto per la libertà individuale, la questione della definizione e della produzione dei beni pubblici. Leoni intuisce i limiti del liberalismo classico prima di qualsiasi altro pensatore liberale del Novecento e, presone atto, sembra preludere ad un Libertarianism non anarchico. Ma muore (nel 1967) prima di compiere passi decisivi in tale direzione. Il suo 'liberalismo' non aveva a che fare con quello della tradizione italiana. La sua opera principale (Freedom and the Law) venne da noi tradotta più di trent'anni dopo la sua pubblicazione. E tuttavia, il fatto che di lui per decenni non si ricordò o accorse quasi nessuno, lo si può ritenere una scusante del fatto che la ripresa delle sue idee non abbia ancora prodotto qualcosa di paragonabile alle sue geniali intuizioni?
Bobbio è stato oggetto di riconoscimenti, celebrazioni e di un autentico culto. Chi lo ebbe come tutor nei giovanili anni torinesi della Fondazione Einaudi non può dimenticarne la scienza e la curiosità intellettuale. Come Leoni mise in evidenza i limiti di un liberalismo con cui si identificava, così Bobbio si arrovellò su quelli della democrazia (che nonostante i politici amava) mostrando che la relazione tra libertà individuale e scelte collettive (di cui essa pretendeva di essere l'armonica soluzione) era il vero problema irrisolto e che fino a quando non lo fosse stato si sarebbe dovuto continuare a parlare di “democrazia liberale” o di “democrazia socialista”. Neanche lui, come quasi tutti i veri filosofi (e quelli politici in particolare), per quanto ci si sia applicato con rara perizia ed acume, trovò una soluzione al problema. Ma lo individuò con la consueta lucidità e chiarezza meglio di molti altri celebrati filosofi e pensatori politici i quali, non riuscendo neanche loro a risolverlo, finiscono per proporre soluzioni raffazzonate; che comunque piacciono. Si può veramente sostenere che i problemi messi in luce da Bobbio abbiano avuto sviluppi importanti? Ovvero, e vale anche per Gramsci e per Leoni, sviluppi che si sono imposti all'attenzione 'universale'?
Di qui la domanda: perché, dato che i problemi posti sono tuttora aperti, questi sviluppi non ci sono stati?
Alcuni sostengono che per lo meno nel caso della filosofia liberale ciò sia dovuto al paralizzante retaggio dell'eredità crociana, altri, come Antiseri, che ciò sia da mettere in relazione al calo di interesse per una tradizione liberale italiana compressa tra cultura marxista e cultura cattolica, da esse mal compresa e comunque ad esse invisa. Concordo in parte. Il mondo accademico che anche Antiseri ha conosciuto era pieno di professori liberali (di molti stimati 'maestri', ad esempio Matteucci, per altro ben introdotto nell'editoria) che hanno prodotto 'studi', ma non opere teoriche innovative. Come mai? Perché finirono per limitare coscientemente la propria creatività? Come mai affinché si uscisse dalle angustie del polveroso dibattito Croce-Einaudi, quella distinzione tra liberalismo e liberismo nella quale Antoni individuava il contributo italiano alla cultura politica universale, si dovette aspettare che penetrassero le idee di Popper e poi quelle di Rawls, della Public Choice, della Scuola Austriaca, dei vari Libertarians, etc.? Ciò che, comunque e tuttavia, al di là delle sincere amicizie personali, ha dato vita a visioni e a versioni del 'liberalismo' parzialmente conflittuali e comunque non ad un'univoca prospettiva politica liberale (l'idea di social justice, per fare un esempio fa venire l'orticaria ad un 'austriaco', e il fatto che i Liberals non riescano a fare a meno dello Stato e pensino di limitarlo e di redimerlo tramite l'etica gli fa anche tenerezza).
Nei casi di Gramsci e di Bobbio, tali resistenze sono state molto minori ed il numero di studiosi che si è dedicato al loro pensiero è stato maggiore, senza poi dire degli 'incentivi' di tipo culturale, mediatico, accademico e dell''apertura' delle case editrici. Eppure...!!! I recuperi e le rivisitazioni (per quanto culturalmente stimolanti ed anche divertenti), lasciano il tempo che trovano e assai raramente innescano processi innovativi. Con alterne fortune ed imprevedibili esplosioni di travolgente interesse (si pensi a Strauss o a Foucault) da noi sono così approdati tutti i filosofi politici del Novecento e quasi nessuno è stato disdegnato di uno studio e di un confronto più o meno simpatetico. Nessuno è stato però quella miccia che ha generato qualcosa di diverso dalla distruzione di una comunque già esausta e decomposta tradizione italiana.
Comunque sia, e per quanto su tante di quelle 'tradizioni' vantiamo opere di pregio e di rilievo internazionali, bisogna chiederci come mai quel girovago Weltgeist non si fermi più nel paese che fece anche da culla al diritto. E pertanto, prima di farcene una ragione dobbiamo chiedercela.
Infine, e per concludere con un'ennesima domanda, che senso ha parlare di una tradizione filosofica nazionale in un mondo in cui la filosofia si occupa ormai di problemi che sono pressoché comuni a tutti i paesi dell'Occidente? Senza dire poi che l'obiettivo ormai non è il trattato, più o meno sistematico, bensì l'aggiunta teorica, la precisazione erudita, la critica di una passaggio logico di una teoria altrui; in breve, quello spaccare il capello in quattro perdendo così la possibilità di fare un qualcosa dei pezzi che ne restano in mano.
Prima che i filosofi scrivessero nelle loro lingue nazionali era assai difficile, guardando i temi affrontati e lo stile, coglierne la nazionalità; forse si poteva distinguere tra domenicani, gesuiti, francescani, etc. Ora che le lingue nazionali stanno ridiventando un peso, forse torneremo ad una situazione non dissimile da quella pre-Riforma. Anche se non è del tutto chiaro chi saranno e come si distingueranno i nuovi chierici. Lo 'stato nazionale' imponeva alla FP modelli nazionali. Essendosi i nostri, per motivi vari e diversi, esauriti, l'importazione di pensatori stranieri i quali ovviamente facevano riferimento a problematiche diverse, non poteva che avere limitati effetti benefici. Quel che dobbiamo chiederci è quali questi potranno mai essere qualora quello venga a mancare.
Ciò detto, sono passabilmente ottimista. Quando avremo colmato il language gap, fatto nostro quell'academic professional English (che corrisponde al latinorum dei nostri antenati), imparate le rules of the game e capito che i prodotti intellectually sophisticated hanno un mercato limitato perché i consumatori hanno gusti semplici e poco tempo per capire e per apprendere novelties, sono sicuro che le cose cambieranno. In parte stanno già cambiando. Solo che di italiano non resterà quasi più nulla. E forse non sarà neanche un male.
Per soddisfare la domanda redazionale bisognerebbe, in definitiva, dare una risposta ad un'altra domanda: quella concernente ciò che determina il successo di una teoria, di uno stile, di una tradizione di pensiero; un segreto che quel bisbetico Zeitgeist si tiene ben stretto.



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