cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

Le culture del pacifismo

Giuseppe Moscati
«le manifestazioni popolari in vaste zone del pianeta
significano che la guerra non solo è temuta come evento terribile
e deprecata come evenienza, riprovata come fatto,
ma ha finito per essere concettualmente inammissibile,
fuori della comune logica umana.
L'anacronismo della guerra come prosecuzione della politica
è divenuto clamoroso, plateale. […]
I pacifisti non sono una setta né una tribù»


(Mario Luzi)[1]

 

Nell'ultimo ventennio le multiformi espressioni del fenomeno della globalizzazione, unitamente a un rilevante allargamento della realtà che in generale possiamo chiamare "movimentista", se da una parte hanno cambiato in profondità il senso dell'impegno, della partecipazione e di ciò che è "mobilitazione", dall'altra hanno inciso in maniera significativa, com'era inevitabile, anche sul processo di trasformazione del pacifismo nostrano. Che deve intendersi come trasformazione culturale principalmente in quanto ha interessato e continua tuttora a interessare un atteggiamento di fondo, un modo di pensare e insieme una modalità di agire. Il tutto all'interno di un panorama di adulta presa di consapevolezza, dove tutti i soggetti coinvolti in una strategia di impegno pacifista devono necessariamente tendere a instaurare tra loro una logica cooperativa il più possibile allargata.
Possiamo comunque considerare il pacifismo alla stregua di una posizione di tipo etico e socio-politico, secondo la quale la pace è un valore indispensabile nelle relazioni tra gli uomini e in virtù della quale può darsi una versione assoluta (pace come valore assoluto in sé e per sé) e una versione relativa (pace come dovere). Anche se, in tutto ciò, vanno poi considerati altri fattori di carattere geopolitico non secondari, come per esempio la concretizzazione della realtà non solo economica dell'Unione Europea o l'evoluzione e lo sviluppo di nuovi Stati democratici. Questi e altri fattori in varia forma hanno stimolato un ripensamento del ruolo stesso di quel valore universale che è il pacifismo.
La sfida della pace, lo diciamo nell'anno del cinquantesimo (1961-2011) della "Marcia per la pace e la fratellanza tra i popoli" Perugia-Assisi ideata da Aldo Capitini, risulta oggi più attuale che mai, vero e proprio banco di prova per tutte quelle culture che alla pace si richiamano e che si trovano a dover fare i conti con una triste situazione di violenza diffusa, ovvero di alcune grandi guerre come pure di svariati casi di micro-guerre sulle quali spesso i riflettori massmediatici non vengono puntati (si pensi, per esempio, alle numerose guerre civili nel continente africano).

 

 

Una realtà co-evolutiva

 

La riflessione pacifista si è così concentrata via via sempre di più intorno a un'idea della pace come risorsa, vale a dire un'idea che, in chiave propositiva, possa in qualche modo sottrarre la pace al destino di mera assenza della guerra (o intervallo tra un evento bellico e l'altro) cui a lungo è stata ridotta. Con l'intento di superare questo tipo di riduzionismo, le nuove culture del pacifismo italiano e non solo italiano hanno progressivamente anche dialogato tra loro a partire dalle proprie differenti identità, dando vita a una rete di relazioni degna di attenzione.
Accompagnandosi – come attesta la storia della disobbedienza civile, dell'obiezione di coscienza e della difesa popolare nonviolenta – l'idea della pace alle battaglie per i diritti civili, per la promozione di una cultura solidaristica e per la giustizia sociale, risulta chiaro come ci si trovi ad avere a che fare con un concetto sempre cangiante e che semanticamente si afferma proprio nel mentre si va fattivamente evolvendo. Ma il contesto delle culture pacifiste è più precisamente un contesto co-evolutivo. Questo a riprova del fatto che la pace stessa è innanzitutto co-evoluzione, quindi condivisione e compresenza (non semplice convivenza) capitinianamente intesa come cooperazione sempre crescente alla costruzione dei valori, dove nessuno è escluso e tutti hanno diritto di opinione. Tutti indistintamente, cioè ciascuno in virtù della propria differenza.
Continuando da sempre a respingere l'ipotesi che la guerra possa fungere da risoluzione in qualche modo legittima delle controversie o delle vertenze insorte tra Stati, e a maggior ragione oggi che incombono in maniera più pressante che mai il pericolo terroristico, quello atomico e in generale quello di una guerra globale, le culture e i movimenti pacifisti – siano essi laici o di ispirazione cattolica o altro ancora – si pongono, tra gli altri, un obiettivo davvero importante. Cioè quello di vincere finalmente la credenza diffusa che pacifista sia colui che, astrattamente, condanna la guerra senza proporre alcuna concreta alternativa.
In realtà la posizione pacifista autentica è posizione attiva, non passiva né attendista e non va pertanto confusa con un atteggiamento rinunciatario. La pace, poi, nel suo senso più genuino ha da declinarsi come «realismo di un'utopia» (Ernesto Balducci). E inoltre, come «ha più volte manifestato la galassia della rete delle organizzazioni no-global, umanitarie, per la tutela dei diritti e delle garanzie sociali ecc. – un altro mondo è possibile; solo che si voglia e si sappia indirizzare diversamente il percorso delle civiltà, la storia dei Popoli»[2]. Per questo occorre una grande mobilitazione delle coscienze che spinga a non restringere mai il discorso della pace entro i soli confini nazionali.

 

 

Qualche punto fermo e qualche punto critico

 

Volendo tentare una ricognizione e sullo "stato dei lavori" delle culture pacifiste e sulle opportunità di un loro confronto-incontro che di recente si è intensificato, proviamo a individuarne alcuni aspetti comuni. Un punto fermo rimane quello della considerazione della pace come orizzonte che ha da rimanere sempre presente (pace mai data per scontata) e come condizione da perseguire in virtù del rifiuto radicale della violenza (inconcepibilità di questa e illegittimità del ricorso alle armi); ma anche e forse soprattutto come conquista da ricercare attraverso dei percorsi di riconciliazione e di gestione nonviolenta del conflitto. Proprio la nonviolenza costituisce, a nostro avviso, la chiave di lettura privilegiata di come è cambiato oggi il modo di intendere la pace. Vediamo perché.
È vero che senza pace non può darsi alcuna progettualità, riducendosi l'esistenza a una vera e propria questione di (lotta per la) sopravvivenza, ma allo stesso tempo è vero anche che pace non vuol dire azzeramento dei conflitti. Essa ha da strutturarsi piuttosto essenzialmente come impegno di gestione alternativa di quei conflitti che non vanno né possono essere rimossi. Fermo restando che il nodo cruciale rimane quello della libertà, da declinare sostanzialmente come "libertà per" piuttosto che come "libertà da" e/o "libertà di", e della gestione del potere, che una autentica cultura della pace sa leggere quale 'potere di condivisione' e non quale forza da esercitare sull'altro a tutela del proprio esclusivo benessere.
Questo è il motivo fondamentale sia del perché la difesa della libertà deve andare sempre di pari passo con la tutela e la promozione dei diritti umani di tutti gli individui, sia del perché una gestione responsabile della cosa pubblica richiede la presenza e anzi l'attiva partecipazione delle cosiddette società civili. Le quali civili non sono se non nella misura in cui concorrono a costruire e a far crescere una politica di pace e una cultura della pace, una cultura laica che peraltro possa accogliere l'eco evangelica del principio per cui la mia pace è la pace dell'altro.
Un altro punto fermo delle culture del pacifismo contemporaneo possiamo trovarlo nel fatto che il pensiero e l'agire pacifisti passano attraverso un tenace lavoro sulla qualità delle relazioni interpersonali, anche in un'ottica intergenerazionale. Tanto questo elemento della qualità delle relazioni quanto quello richiamato poco sopra della gestione nonviolenta degli eventi conflittuali sono strettamente connessi alla questione della scelta dei mezzi. Le culture del pacifismo sono oggi concordi nel riconoscere che mezzi e fini hanno da coniugarsi in maniera coerente, ovvero che è imprescindibile accordare ogni mezzo che si intende utilizzare al fine che si sta perseguendo.
La linea di pensiero che da un Immanuel Kant e da un Giuseppe Mazzini, passando per la filosofia gandhiana, giunge sino ad Aldo Capitini, Danilo Dolci e ad altri nonviolenti dell'epoca contemporanea si dichiara nettamente contro quella tradizione che, sulla scorta del Principe di Machiavelli, ha sempre privilegiato il raggiungimento dello scopo prefissato senza subordinarlo alla conformità dei mezzi cui si fa ricorso per raggiungerlo. Se il fine aspira a essere nobile, insomma, non possono non esserlo altrettanto i mezzi: questo insegna la strategia nonviolenta e questa eredità è stata finalmente e pienamente raccolta dalle culture di pace. Bastino due rimandi: uno a Capitini, per il quale essere nonviolenti è, gioco forza, fare i conti preliminarmente con questo tipo di rapporto mezzi/fini su cui vale la pena insistere: «Esiste un legame organico tra il fine e i mezzi e l'averlo fin qui trascurato nell'azione politica […], usando la guerra come via alla pace, la dittatura come via alla libertà, la violenza come via all'amore, ha esacerbato la crudeltà e l'oppressione nel mondo»[3]; l'altro a Tonio Dell'Olio, operatore di pace che qui si cita a rappresentanza di tutto il mondo dell'associazionismo pacifista e dei tanti movimenti per la pace italiani: «C'è una grammatica della guerra che prevede la creazione del nemico. Uno più crudele degli altri e più temibile del giorno prima. Tra le sue regole c'è sempre il nobile motivo e noi dalla parte giusta»[4].
Ma veniamo al risvolto della medaglia. Incontriamo così alcuni punti critici, verso i quali le culture della pace sono chiamate tutte, indistintamente, a prestare grande attenzione. Una posizione genuinamente pacifista, oltre a essere tutto quello che abbiamo detto e cioè una ferma denuncia e una opposizione nonviolenta, una costruzione di pace e una co-evoluzione nella pace, non può non impegnarsi al contempo anche per la creazione di tutte quelle condizioni che la pace la favoriscono e la ampliano il più possibile. Tra queste rientrano, solo per citarne alcune delle principali, quelle relative:


  1. 1) alla prevenzione della guerra e allo sviluppo di politiche di disarmo planetario, nonché al progressivo ridimensionamento del mercato-traffico delle armi;

  2. 2) al richiamo costante a un rinnovato costituzionalismo mondiale che vada al di là della stretta osservanza di quanto previsto dalla Carta dei diritti umani (continua ottimizzazione della democrazia e accordo diritto-politica);

  3. 3) all'orientamento del mondo della ricerca in direzione della promozione della pace invece che, come sinora massicciamente è stato fatto, dell'incremento e del perfezionamento del potenziale bellico (problema della riconversione di tutto un sistema industriale);

  4. 4) alla riduzione delle situazioni di schiavitù e tortura, di dominio e colonizzazione (delle menti e dei corpi), di intolleranza e discriminazione (etnica, razziale, religiosa…), di esclusione in genere, di disuguaglianza e di ingiustizia (economica, sociale…), in altri termini di quella chiusura ermetica dell'io che non riconosce l'altro e non lo riconosce a partire dalla negazione dell'altrui autonomia decisionale, morale, confessionale;

  5. 5) al sostegno a un'economia alternativa, equosolidale ed ecosostenibile, per la cooperazione internazionale e in controtendenza rispetto all'economia imperialista che schiaccia i deboli a tutto favore degli Stati "ad economia forte" (per cui si hanno Paesi sempre più poveri e Paesi sempre più ricchi);

  6. 6) alla sensibilizzazione a un'educazione alla pace e a una costante presenza nel mondo della scuola di programmi educativi in chiave pacifista, interculturale e interreligiosa (o intrareligiosa nell'accezione proposta da Raimon Panikkar);

  7. 7) all'impegno per un'informazione libera, accessibile a tutti, svincolata il più possibile da dipendenze che ne potrebbero corrompere la natura e mirata a favorire lo sviluppo di una ragione critica e consapevole.

I sette qui elencati non pretendono certo di esaurire la questione dei punti critici dinanzi ai quali si trovano a operare le culture della pace in Italia, ma concorrono evidentemente a presentare un quadro complesso e articolato a fronte del quale non possiamo che farci consapevoli di un fatto che reputo incontrovertibile. Il fatto cioè che siamo immersi, all'interno di un'ottica di corresponsabilità, in un contesto globale che non consente rinvii né attendismi e che ci pone di fronte a una realtà di assai precario ordine mondiale, in rapporto alla quale una scelta in chiave di ermetica chiusura identitaria finirebbe per rivelarsi presto un vero e proprio peccato mortale.
In questo particolare momento storico che stiamo vivendo, anzi, caratterizzato da repentine trasformazioni della geopolitica di buona parte dell'area mediterranea, una prova decisiva per le culture della pace è inoltre costituita dall'urgenza di misurarsi con il dibattito sul diritto di cittadinanza per profughi, dissidenti, migranti che, spesso in fuga da situazioni di emergenza assoluta, chiedono asilo e inducono a ripensare natura e significato di ciò che è 'frontiera' al di là delle forti tendenze alla militarizzazione delle barriere nazionali (Alessandro Dal Lago).

 

 

Una conclusione che riapre la questione

 

Prima ancora che alle armi in se stesse, il no delle moderne culture pacifiste è diretto alla logica delle armi; prima ancora che contro le guerre, insomma, è da pronunciare contro la monocultura della guerra, che alcuni arrivano a chiamare – credo a ragione – «idolatria della guerra» o «monomania della guerra» (Raniero La Valle) magari mistificata attraverso la propaganda di un «giustificazionismo umanitario».
Richiamavamo prima l'elemento dell'accordo reale di diritto e politica che tutto il mondo del pacifismo si attende dal nostro tempo, pena lo scadimento a nuovi soprusi, a nuove negazioni dei diritti e in sostanza a un ulteriore impoverimento dell'agire politico in generale. Anche la pace è in sé e per sé da intendersi innanzitutto come un diritto: diritto alla pace e diritto a un'educazione di pace.
Ma, come pure anticipavamo, è parimenti inaggirabile un potenziamento della presenza della cultura di pace nel mondo della scuola e dell'educazione tutta. Tale cultura di pace dev'essere costitutivamente ispirata a un pensiero (auto-)critico che si faccia concreta opposizione(-proposizione) al pensiero unico perché – come hanno suggerito e continuano con forza a suggerire non solo le culture, ma anche gli stessi movimenti del variegato universo pacifista – l'educazione alla pace è necessariamente anche un educarsi alla pace nell'intima persuasione nonviolenta che un'alternativa alla violenza è sempre possibile.
In ultima analisi, le culture del pacifismo sono dunque inchiodate alla responsabilità di percorrere un comune cammino di nonviolenza che non si adagi mai sulla realtà data e, insieme, impegnarsi integralmente affinché – come si auspicava Costantino Cipolla sul finire del XX secolo – la pace possa affermarsi prima di tutto come una vera e propria onestà intellettuale[5].

E-mail:



a id="ftn1" href="#body_ftn1">[1] M. LUZI, Quante guerre, quale pace, discorso all'omonimo convegno di Firenze del 6 maggio 2004: riportato in Documenti conclusivi del Forum del Movimento contro la guerra: Ferma la guerra. Libera la pace, Firenze 25-27 febbraio 2005, p. 5.
[2] G. DE MARTINO, Frammenti di un discorso politico, in AA.VV., Antologia del dissenso. Orizzonti politici e culturali del movimento antiglobalizzazione, a cura dello stesso De Martino, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2001, p. 13. Cfr. anche la recente e documentata ricognizione di A. SALVATORE, Il pacifismo, Carocci, Roma 2010.
[3] A. CAPITINI, Religione aperta, Neri Pozza, Vicenza 1964, p. 9 e p. 13.
[4] T. DELL'OLIO, La guerra è tornata, in "Rocca", LXX, n. 9, 2011, p. 17. Per approfondire, quanto ai movimenti per la pace e per la nonviolenza, si vedano almeno, rispettivamente, www.peacelink.it e www.nonviolenti.org/cms; diverse piste di ricerca sulle culture della pace del Novecento si trovano poi in F. PUGLIESE, Per Eirene. Percorsi bibliografici su pace e guerra, diritti umani, economia sociale, da un progetto del Forum per la Pace e i Diritti Umani di Trento (2007) e ora II ediz. a cura della Regione Umbria, Grafiche Futura, Mattarello (Tn) 2008.
[5] C. CIPOLLA, Epistemologia della tolleranza, 5 voll., FrancoAngeli, Milano 1997, vol. IV, p. 2032.

torna su