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Tolleranza zero

Carmelo Vigna

Lo scorso 17 gennaio il Papa Benedetto XVI avrebbe dovuto visitare l’Università romana “la Sapienza” e pronunciarvi un discorso. Si sa come sono andate le cose. Il Papa ha dovuto rinunciare, per via delle proteste di alcuni studenti e di alcuni professori.
Da più parti l’episodio è stato trattato come un caso emblematico. E c’è del vero in tutto ciò. A me la cosa ha fatto riflettere: non solo come di un caso emergente di contrasto tra “laici” e “cattolici”, ma anche come di un caso di contrasto in cui, più in generale, l’interlocuzione diventa praticamente impossibile. E si profila, più o meno esplicita, l’ombra della vecchia piaga dell’intolleranza. Giusto pensarci un po’ sopra. Dico subito che mi sono persuaso del fatto che si deve far capo, per intenderne qualcosa, alla struttura trascendentale della umana soggettività. Noi incliniamo all’intolleranza semplicemente perché “traduciamo”, più o meno inconsciamente, l’orizzonte intenzionale della trascendentalità che siamo, in un orizzonte ontologico. Provo a spiegarmi. Ma non tratto “il caso” determinato; arretro piuttosto sino ad una tipologia generale, che può forse offrire qualche lume.
Parto allora da lontano (ma non da molto lontano), cioè da una realtà “molecolare”. Ognuno di noi avrà sicuramente sperimentato innumerevoli volte che, quando due persone si trovano a discutere, non solo di cose importanti, ma anche di cose banali, raramente trattano le proprie osservazioni –nonostante qualche dichiarazione verbale “politicamente corretta”– come condotte da “un certo” punto di vista. Ognuno intende, piuttosto, essere portatore del punto di vista, cioè di un punto di vista che include in sé anche quello altrui. La pretesa (impulsiva) più o meno implicita è quella di parlare in modo “oggettivo” e non “soggettivo”, ossia di dire “come stanno veramente le cose”, a differenza dell’interlocutore nostro, il quale –noi supponiamo– non ha capito, non vede bene e, insomma, ha torto o è portatore del punto di vista sbagliato. Bisogna rendersi conto, allora, di ciò che noi attiviamo nel rapporto con gli altri, quando ci innalziamo alla pretesa di valere come “il” punto di vista. Valere come “il” punto di vista significa, in realtà, pretendere di valere come totalità intrascendibile, cioè come orizzonte di senso che tutto comprende; significa, quindi, includere l’altro come momento interno di questo orizzonte o anche come frammento –neppur tanto significativo– del nostro grande “Io”. E poiché solitamente il nostro interlocutore istituisce, da parte sua, lo stesso movimento dialettico, cioè si atteggia a sua volta come portatore “del” punto di vista nei nostri confronti, il dialogo tra due o più diventa inevitabilmente un conflitto tra pretese totalizzanti. Ma due o più totalità non possono convivere, perché, mediante il loro stesso esserci, si limitano reciprocamente, cioè si negano di fatto come totalità. La spinta di ognuna delle totalità in gioco diventa, allora, rivolta al toglimento dell’altra o delle altre. Ognuna delle totalità, infatti, può valere come tale, solo se l’altra o le altre vengono soppresse come totalità. E ciò accade in due modi: l’altra (o le altre) viene abbassata a parte e quindi resa interna alla totalità vincente; oppure l’altra (o le altre) viene tolta di mezzo, semplicemente.
Questo movimento delle coscienze che si fronteggiano, che lottano, in ultima istanza, per la vita e per la morte, è lo stesso movimento radicale della vita storica degli uomini nelle sue espressioni anche più corpose, cioè nei rapporti politici, nei rapporti religiosi o anche nei rapporti tra i popoli. Una volta questo movimento era quasi sempre cruento. La lotta era una lotta armata e il risultato era o la sottomissione dell’avversario o la sua eliminazione fisica. Nei tempi più recenti si moltiplicano, fortunatamente, le occasioni per rendere meno cruenta la lotta, ossia si tende a simbolizzare il conflitto (si parla di conflitti sociali, di conflitti religiosi, di conflitti commerciali, di conflitti sindacali, di conflitti familiari ecc.); ma anche la storia contemporanea, specialmente nelle regioni del mondo meno evolute, finisce non di rado per risolvere i conflitti con le armi (guerre, guerriglie, stragi, colpi di stato, insurrezioni urbane ecc.). Solitamente si vive questa condizione di conflittualità come una forma di vita di fatto insuperabile, e tuttavia come qualcosa che appare alle coscienze con le vesti della negatività etica. E questo, anche quando non si è dinanzi ad una lotta cruenta. Tutti, infatti, deprechiamo, ad es., la tendenza allo “scontro”, specialmente quando prende forme strutturalmente rilevanti e quindi paralizza la vita di una comunità, piccola o grande che sia. Raramente però siamo coerenti. Mentre, infatti, rifiutiamo (o dovremmo rifiutare) eticamente il conflitto (quel tipo di conflitto) ad ogni livello, evitiamo pure, quasi sempre, di mettere in questione la fonte permanente del conflitto, ossia la pretesa di rappresentare, rispetto all’interlocutore, non solo “un” punto di vista, ma anche “il” punto di vista sulla cosa.
Ma è davvero possibile restare ad “un” punto di vista, oppure è inevitabile, solo che si parli, innalzarsi a rappresentare “il” punto di vista? Perché questa istintiva tendenza degli uomini a imporre agli altri il proprio punto di vista come “il” punto di vista? Il problema non è di facile soluzione, né io qui intendo istruirlo con la cautela e la complessità teorica che esso in realtà esigerebbe. Io qui posso solo tentare di indicare sommariamente una sorta di “uscita di sicurezza” rispetto a questa ambigua condizione dell’esistenza e, intanto, avvertire che tale problema non si può risolvere abolendo uno dei due movimenti che conducono al conflitto delle coscienze. In altri termini, dopo aver detto che è un vicolo cieco mettersi in ogni caso “dal” punto di vista, non si può neppure dire: aboliamo “il” punto di vista e pratichiamo solo “un” punto di vista, optando così per una specie di relativismo buono per tutti gli usi. Anche questa via d’uscita è impraticabile, perché dire che esistono solo punti di vista relativi è dire una evidente assurdità. Almeno questo dire, cioè dire che esistono solo punti di vista relativi, è un dire non relativo, bensì assoluto. È, di nuovo, un certo modo di innalzarsi “al” punto di vista, anzi che restare semplicemente ad “un” punto di vista.
In verità, di un riferimento a qualcosa di “assoluto” non si può mai fare a meno. Noi abbiamo, infatti, anche bisogno di avere a che fare con una qualche verità oggettiva; abbiamo bisogno, per dir così, di “toccar terra” da qualche parte. C’è, dunque, qualcosa che deve pur restare, di quella pretesa “al” punto di vista. Relativisti soltanto non si può essere, così come non si può essere soltanto “dogmatici”, cioè portatori della verità assoluta e indiscutibile. Di nuovo, come uscirne?
Ebbene, consideriamo previamente una distinzione elementare: la distinzione tra questioni teoriche e questioni pratiche, aggiungendo che le questioni etico-politiche o religiose sono fondamentalmente questioni pratiche. A che serve questa distinzione? A prendere coscienza del fatto che nelle questioni pratiche la possibilità di raggiungere una “verità oggettiva” è remota, anzi è quasi una impossibilità (di fatto). Le questioni etiche di noi singoli sono molto complesse, quelle politiche o religiose sono ancora più complesse, perché riguardano una intera comunità umana. Come è, allora, possibile accampare la pretesa di parlare in nome di una verità oggettiva? Non dobbiamo trattare le questioni pratiche come quelle in cui ci si “approssima” ad una verità “oggettiva” e magari con un movimento di convergenza da parte di molti? Certo, nelle questioni teoriche, stabilire da che parte sta la verità sembra compito relativamente più semplice. Ma vorrei ricordare che ognuno di noi, anche nelle questioni teoriche, è spesso condizionato dal punto di vista che risulta da una certa storia personale, da una certa collocazione geografica, da un certo tipo di sapere acquisito, da certe abilità particolari, e così via. Ognuno di noi ha una collocazione nel finito che non può in nessun caso scrollarsi di dosso. Ognuno di noi è, come oggi usa dire, un abitatore della finitezza.
“Ma tutto questo, di nuovo, non conduce ad una sorta di relativismo?”, mi si chiederà. Ebbene, rispondo che questa conseguenza non è necessaria. Si può, infatti, restare consapevoli di possedere solo “un” punto di vista sulle cose, eppure non professare convinzioni di tipo relativistico. Il relativista non è tanto sostenitore della persuasione che la propria prospettiva è una delle possibili prospettive sulla verità delle cose, ma è convinto che non esista la verità delle cose. Questo in ambito teorico. In ambito pratico il relativista pensa qualcosa di simile, giacché egli non crede che vi siano le cose buone, ma solo cose che paiono buone. Insomma, come non esiste per lui la verità, così neppure per lui esiste il bene.
Già avvertivo che il mondo della vita pratica possiede una tale complessità di fattori, da rendere difficile una declinazione “secondo verità” della situazione complessiva. Eppure, anche qui è possibile, per così dire, toccar terra, cioè anche qui è possibile incontrare il bene e non soltanto quello che pare bene a ciascuno. E, come nella vita della verità, per toccar terra occorre alla fine lasciare la parola alla cosa stessa e ad essa guardare per confrontare le nostre parziali verità, così accade anche nella vita pratica. Ora, nella vita pratica la cosa stessa è il bene e più propriamente la cosa buona e, meglio ancora, la persona buona o le persone buone. Questa presenza e questa testimonianza bastano molto spesso a unificare gli uomini, cioè a strapparli ad un sensazione mortale di inafferrabilità del bene. Del resto, i popoli, nella loro vita politica, da che cosa sono uniti, se non dai grandi testimoni della custodia del bene comune, cioè della buona vita comune? Se poi ci volgiamo alla vita religiosa, troviamo un riferimento analogo nella santità, variamente vissuta.
Così torniamo alla vita comune degli uomini, nelle sue molteplici stratificazioni (economiche, politiche, culturali, religiose). Ebbene, se in ogni forma di vita vogliamo convivere con gli altri senza permanentemente confliggere, cioè senza sposare l’intolleranza, non possiamo fare a meno di riconoscere che siamo portatori solo di un punto di vista e, nei casi migliori, di una verità e di un bene che sono parziali. Inevitabilmente. La verità e il bene parziali ci consentono di tenere insieme il desiderio di stabilità e di “oggettività” e l’ineliminabile condizione di “soggettività” che umanamente ci accompagna. A questa condizione si oppone soltanto la pretesa, più o meno esplicita, d’essere i possessori della verità e del bene, di tutta la verità e di tutto il bene, d’essere, cioè, non “un” punto di vista, ma “il” punto di vista. Questa pretesa è la radice che rende impossibile qualsiasi forma di vita comune onesta e rispettosa del contributo di tutti. Questa pretesa scatena la brutalità del potere. Solo se si abbandona questa pretesa si può, viceversa, convenire e convivere e insieme dialogare per costruire la comunità (anche quella multietnica). O almeno, è più probabile che ciò riesca.
Questa mia indicazione, a sua volta, può però essere solo proposta, non può certo essere imposta. La “proposta” è una figura pratica. Chi pro-pone, mette innanzi qualcosa; ma, prima di tutto, mette se stesso dinanzi alla libertà dell’altro. Alla libertà dell’altro egli si es-pone, cioè si di-spone come chi può essere afferrato. Si consegna in qualche modo alla mercé dell’altro e quindi si fa parte del mondo dell’altro, pronto ad essere “condiscendente” rispetto ad altri disegni. Certo, nella speranza che i disegni altrui siano benevoli e non malevoli. Analogamente: proporre un “punto di vista” significa, in realtà, proporsi come un “punto di vista”, cioè come uno che non attenta alla soggettività trascendentale dell’altro. Il quale resta solitamente rassicurato da questo gesto e a sua volta per lo più si dispone a lasciar venire avanti a sé quanto si annuncia nell’interlocuzione. In altri termini, l’essenziale assicurazione intorno alla propria soggettività trascendentalmente vissuta vale come un lasciapassare per il contenuto proposto dall’altro. Esso non può più nuocere quanto all’essenza, giacché appare aprioricamente inoffensivo rispetto a ciò che innanzitutto sta a cuore.
La formula del proporre non ha, dunque, un valore immediatamente teorico, bensì un valore pratico. Anche perché è tutta interna al mondo della comunicazione. E il mondo della comunicazione è un rapporto intersoggettivo come interazione tra due o più esistenze, anche quando il messaggio veicolato fosse di natura strettamente teorica. Perciò implica delle dinamiche di odio-amore, di simpatia-antipatia, di accordo-disaccordo e simili. Come dire: anche quando personalmente non si nutrono dubbi su un certo gruppo di convinzioni, anche quando alcune convinzioni sono rigorosamente presenti ad una soggettività nella loro verità, non si può e non si deve estendere immediatamente ad un interlocutore l’obbligo di uno stesso sentire o pensare. Se così si agisse, ci si comporterebbe evidentemente da “fanatici” e a nulla varrebbe la pretesa di stare dalla parte della verità. La violenza usata nei confronti dell’altro uomo dispone infatti all’interno della trasgressione e quindi all’interno della forma della non-verità. Nessuna verità può essere veicolata dalla violenza. La violenza recata all’altro occulta la verità dell’altro, cioè il suo permanente diritto al rispetto della trascendentalità della propria soggettività.
Una strategia di comunicazione che voglia essere efficace deve poter ragionevolmente prevedere il transito effettivo del messaggio. Ma un messaggio, per transitare presso altri, deve anzitutto lasciar essere altri come tale. Deve rispettare l’esserci dell’altro come altro. Ciò significa che io devo praticamente presupporre una buona relazione all’altro e al suo mondo. Questa presupposizione è il fondamento della tolleranza come reciproco dovere.
Non è mio intento, naturalmente, assegnare torti e ragioni nella vicenda sgradevole che citavo agli inizi. E però fin troppo evidente che l’impossibilità del dialogo è stata determinata dalla percezione, alquanto pregiudicata, di un interlocutore che viene innanzi recando “il” punto di vista. Una sorta di “effetto di alone” è diventato, cioè, protagonista dell’interpretazione di un gesto che intendeva essere diverso. L’interlocuzione negata mi è parsa rimandare, comunque, a sua volta, a una qualche pretesa di rappresentare il “vero” punto di vista (opposto). Un altro “effetto di alone”, insomma, si è fatto largo, di rimando. A spese di una possibile intesa reciproca. Non c’è che da dispiacersene, sperando che la vicenda serva a tutti da lezione.


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