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Editoriale

Far convergere in un medesimo orizzonte d’indagine i vari aspetti del dibattito sulla schiavitù può contribuire all’analisi di un fenomeno che, nella storia dell’umanità, torna in modo costante, seppure mutando aspetto nel corso del tempo (come illustrano bene i saggi contenuti nel fascicolo dedicato a questo tema dalla rivista originariamente fondata da Lelio Basso “Parolechiave” [n. 55, 2016], nonché un’opera come La schiavitù in 100 mappe: dall'antichità ai giorni nostri di Marcel Dorigny e Bernard Gainot [Gorizia, Leg, 2016]).
La questione può essere affrontata da diverse angolazioni prospettiche – mediante l’indagine storica; lo scandaglio teorico-giuridico di quello che a lungo è stato un istituto-cardine degli ordinamenti e degli assetti istituzionali; la disamina di inedite configurazioni che rinviano a nuovi sistemi di controllo e assoggettamento – ma quel che si cerca di realizzare in questo fascicolo è una sorta di mappatura delle molteplici forme di oppressione e dominio che possono essere comprese mediante il ricorso alla categoria della schiavitù.
Se i contributi di Alan Coffee, Silvia Vida e Thomas Casadei sono esplicitamente finalizzati a questo obiettivo – che pone la questione in rilievo nell’ambito dell’odierna riflessione filosofico-politica e giusfilosofica – gli altri articoli mostrano in quali contesti e con quali modalità un rapporto di tipo schiavile o para-schiavile può costituire un dato strutturale delle società contemporanee.
Sotto questo profilo, Alessandra Sciurba e Lorenzo Milazzo indagano le «forme di asservimento del lavoro migrante» mostrando come l’«illegalizzazione» assuma un significato che va ben al di là del numero degli “irregolari” e come in essa sia possibile cogliere una fra le più significative manifestazioni attuali della violenza legale che, nelle sue diverse forme, è sempre stata necessaria ad assicurare ai sistemi economici occidentali la quota di lavoro “servile” o “semi-servile” dalla quale hanno continuato a dipendere. La marginalità del migrante riproduce la sua irregolarità “istituzionale” e ne è a sua volta riprodotta, e proprio tale condizione, sovente invisibile, manifesta i tratti tipici del dominio schiavile.
Molto di rado, e solo quando accadono eventi tragici come la morte di un migrante legata al contesto lavorativo in cui era inserito, l’attenzione viene rivolta per un momento alla visione delle migrazioni come forma di grave sfruttamento e alla tratta di esseri umani a fini di riduzione in schiavitù (significativo, da questo punto di vista, è certamente il lavoro di Gennaro Avallone: Sfruttamento e resistenze: migrazioni e agricoltura in Europa, Italia, Piana del Sele [Verona, Ombre corte, 2017]). Questi fenomeni, nei paesi di arrivo, rappresentano strutturalmente l’altra faccia delle migrazioni in Europa. In questo contesto esiste un particolare gruppo di donne migranti vittime di tratta, le cui storie e le cui condizioni di vita, come mostra nel suo contributo Consuelo Bianchelli, restano spesso ancora più taciute che per gli altri.
Al lavoro forzato e disumanizzante (la ben nota schiavitù da lavoro) e al fenomeno della tratta estesa su scala globale (che ripropone oggi “rotte” che fanno della violazione il rovescio dei diritti umani) si affiancano inediti, specifici, caratteri della schiavitù contemporanea: basti pensare alle donne e ai bambini segregati e costretti con la violenza alla prostituzione (schiavitù sessuale) o ancora al fenomeno persistente, e anche in questo caso sottaciuto sotto il velo delle consuetudini saldamente radicate in molti paesi del mondo, dei matrimoni forzati e precoci, un fenomeno di riduzione in schiavitù costitutivamente connotato dalla violenza di genere, come illustra nel suo articolo Manuela Tagliani.
Alla radice di questi fenomeni, a volerlo vedere, rimane un sistema di profonda ingiustizia transnazionale, oltre che interna ai singoli Stati, che si nutre delle diseguaglianze economiche ma anche, come mostrano diversi casi trattati nei vari contributi, di una cultura patriarcale che, nei contesti lavorativi, produce forme di violenza estrema (che possono coinvolgere anche bambini e bambine, come spiega Francesca Baraghini nel suo articolo) e, in quello domestico, produce una delega mercificata della cura che non può che basarsi su forme neo-servili e neo-schiavili.
Tutti questi fattori creano quella condizione di vulnerabilità derivante dalla mancanza di alternative rispetto all’“acconsentire” all’oppressione e alla completa mancanza di autonomia. Tali situazioni vengono in genere derubricate a ‘problemi’ di singoli o di gruppi (non senza processi di etnicizzazione e razzializzazione); mostrare che dietro essi agisce una logica sociale globale, ancorata a specifici contesti economici, politici, giuridico-istituzionali ci pare un contributo utile nella direzione di un ribaltamento, dell’acquisizione di una diversa prospettiva, nonché di un possibile invito ad un’azione volta ad abolire tutto ciò che, nel XXI secolo, fa della schiavitù una condizione comune a milioni di esseri umani in carne ed ossa.



Thomas Casadei


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