1. Neutralità e invisibilità
A partire da una riflessione come quella sviluppata dalla teoria critica è diventato evidente come la relazione tra il modo in cui si codifica la posizione dell’uomo nel mondo e l’atteggiamento insito nel razionalismo che segna questo posizionamento producano un modo di dominare la natura, che si traduce in una forma di dominio dell’uomo sull’uomo (Adorno, Horkheimer, 1966; Marcuse, 1967; Marcuse 2008). In questa chiave, dalla metà del XX secolo il modello di razionalità su cui si basa il sapere e le strategie di intervento tecnico – che è possibile mettere a punto sulla base di questo sapere – non appaiono più neutri. Non solo, le conseguenze negative che tali strategie di intervento generano sia sugli esseri umani sia sull’ambiente non possono più essere considerate come meri errori, semplici effetti non voluti che è necessario e certamente possibile correggere, ma come effetti necessari di quel modello di razionalità e di quella strategia di intervento che si manifesta materialmente nel gesto tecnico. Se le cose stanno in questo modo, è chiaro che né la scienza, né la tecnica possono essere ritenuti neutrali rispetto agli obiettivi che perseguono e rispetto ai bisogni che intendono soddisfare, e, al contempo, che la convivenza tra esseri umani non è affatto estranea al modo in cui si sviluppano quei saperi che sono organizzati attraverso il concetto di scienza.
Non si tratta di ridurre il modo di produzione dei saperi ad un intento esplicito di sottomettere gli umani, ma di porre in questione la neutralità delle scienze in rapporto alla delineazione di loro oggetti e in rapporto alle relazioni di potere che esse contribuiscono a strutturare in termini di repressione e alienazione.
A partire dagli anni ’70 Foucault si pone su questo stesso terreno e suggerisce di assumere una prospettiva biopolitica proprio per indicare il modo in cui avviene l’articolazione tra saperi e poteri che, pur mantenendo un certo grado di indipendenza, tuttavia non vanno intesi come dimensioni separate delle forme di civilizzazione. A partire dalla pubblicazione del primo volume della Storia della sessualità, infatti, questo autore ha formulato la nozione di biopotere allo scopo di osservare l’articolarsi tra due dimensioni che, nell’ottica dell’autore, mostrano come l’esercizio del potere non avvenga esclusivamente nel campo della produzione della norma o nell’atto del’imperium ma anche, e soprattutto, nel campo della produzione del normale: i saperi si presentano come discorsi in grado di produrre semantiche che investono il modo in cui gli individui danno senso alle proprie esperienze, il modo in cui si orientano nell’agire, il modo in cui si dispongono ad ubbidire alle ingiunzioni che provengono dall’autorità, oltre che il modo in cui è possibile distinguere il vero dal falso.
In questa chiave la relazione tra scienza e politica diventa un ambito in cui si dispiegano processi che concetti come quelli di legge, di sovranità e di legittimità rendevano, invece, invisibili (Foucault 1998). In particolare, uno snodo concettuale fondamentale nella storia del pensiero filosofico moderno come quello della relazione tra uomo e natura viene ripensato radicalmente poiché la relazione tra l’uomo e ciò che sta fuori di lui, tra l’essere umano e il suo corpo – che la tradizione filosofica moderna pensa in termini duali (De Palma, Pareti 2004) – non può più essere pensata sulla base di una contrapposizione: l’esistenza stessa di ciò che chiamiamo uomo e di ciò che chiamiamo natura è innervata dalle semantiche di un sapere che contemporaneamente struttura l’una e l’altra parte del binomio. Il concetto di uomo e quello di natura si rivelano così essere delle astrazioni attraverso le quali gli esseri umani hanno guadagnato, da un lato, un’immagine di sé e un modo per statuire la propria razionalità e, dall’altro, un’immagine dello spazio nel quale la loro vita si svolge.
Il punto su cui si concentra l’attenzione di Foucault è quello di osservare come l’ordine del discorso prodotto dalle scienze che riguardano l’umano abbia dato vita a forme di governo e a istituzioni (come gli ospedali, i nosocomi ma anche i sistemi di assistenza sanitaria, le istituzioni di polizia e i sistemi di detenzione) nelle quali ciò che garantisce l’ordine non è la norma, ma soprattutto la codifica di un modello di normalità che rende gli esseri umani docili nell’obbedire (Foucault 1976, pp. 147-186). Ritenere la scienza neutra significherebbe neutralizzare un vasto campo di relazioni umane, nelle quali – viceversa – Foucault individua forme di esercizio del potere.
In questa chiave emerge una riflessione sull’assenza di neutralità della scienza che non ha tanto di mira i suoi vincoli con forme specifiche di ideologia politica, né l’eventuale malafede di coloro che situano la loro attività nella produzione dei saperi scientifici, quanto piuttosto un’assenza più originaria e più radicale di neutralità basata sull’idea che gli oggetti stessi che si cerca di conoscere non sono oggettivi, non sono cioè situati in una sfera esterna e indipendente da quella dell’attività umana. Accanto agli studi foucaultiani, a partire dagli anni ’80, con i social studies of technology si è sviluppata una riflessione sul rapporto tra scienza e società che veda la scienza stessa come una tecnica attraverso la quale stabilire differenze ontologiche come quella ciò che è e ciò che non è (oltre che quelle, classicamente, epistemologiche tra vero e falso; Latour 2015).
2. I cyborg degli anni ‘80
Proprio all’incrocio tra l’interesse di Foucault per il rapporto tra saperi e potere e l’analisi sociologica degli strumenti e delle strategie della scienza, si situa la riflessione che Donna Haraway affida all’immagine del cyborg. Il Cyborg Manifesto – pubblicato a metà degli anni ’80 su “Socialist Review” – è scritto con lo stile retorico tipico di questo genere letterario e ha avuto successo anche grazie alle assonanze dei suoi temi con alcune correnti artistiche e letterarie che si affacciavano sulla scena statunitense proprio in questi anni. Gli anni Ottanta del Ventesimo secolo sono stati, infatti, un periodo nel quale nuove possibilità di integrazione tra umano e macchinino hanno suscitato grande interesse e grane attenzione anche nella sfera pubblica. Eccone due esempi paradigmatici. Nel 1981 al quarto turno del Mississippi State Closed Chess Championship, Cray Blitz sconfigge Joseph Sentef in 55 mosse. Il risultato della partita viene commentato sulla rivista “Cray Channels” (vol. 3, n. 2, 1981, pp. 7-14), senza menzionare il nome di Joseph Sentef: l’avversario di Cray Blitz viene indicato semplicemente come human, perché la sfida vinta non è l’ennesima versione di una partita di scacchi – giocati già da alcuni secoli tra i membri della specie umana – ma la prima in cui un programma, messo a punto da Robert Hayatt e Harry L. Nelson e installato su un supercomputer Cray, riesce ad avere la meglio su un homo sapiens versato nell’arte degli scacchi. Si tratta della scena originaria di una sfida tra calcolatori e programmatori, da un lato, e giocatori umani, dall’altro, che culminerà nel 1997 con la vittoria di Deep Blue (ibm) contro l’allora campione del mondo Garri Kimovič Kasparov (Levy 1973, p. 726; Levy, Newborn 1980).
Solo un anno dopo la vittoria di Clay Britz, un altro evento aveva colpito l’immaginario dei sapiens. Uno di loro – Barney Bailey Clark, un dentista di Seattle nato nel 1921 – era affetto da una forma di cardiomiopatia molto grave che lo avrebbe condotto alla morte entro breve tempo. Già da qualche anno era possibile tentare di sostituire per intero l’organo malato con un organo sano di un altro sapiens, ma nel caso specifico le speranze di successo di una simile cura erano molto scarse a causa dell’età e delle condizioni complessive di salute del paziente. Così Barney Clark accettò – nonostante le scarse probabilità i successo a lungo termine (Woolley 1984; Fenton, Gaffney 1984)– di essere il primo della sua specie a farsi impiantare un cuore interamente artificiale destinato a sostituire stabilmente quello malato. Il 2 dicembre 1982 il dottor William DeVries, nelle sale operatorie dell’Università dello Utah, gli impiantò un cuore artificiale modello Jarvik 7 (da poco approvato dalla Food and Drug Administration degli Usa come dispositivo medico adatto all’impianto nel corpo umano). Il dottor Clark, non sempre cosciente, sopravvisse 112 giorni all’operazione e morì, probabilmente, a causa di un’infezione. Per la prima volta sembrava possibile sostituire un organo chiave del corpo umano con una versione artificiale.
Nella lunga storia dell’evoluzione dell’ingegneria biomedica, gli anni ’80 rappresentano una fase importante anche nella messa a punto di dispositivi meccanici in grado di interagire col sistema nervoso. Le prime protesi neurali inserite nel corpo umano hanno consentito le prime riparazioni delle lesioni spinali e midollari e hanno dato l’avvio a tentativi di realizzazione di impianti cocleari per la cura della sordità e di occhi artificiali, che trasmettessero direttamente al cervello le immagini che gli occhi dei pazienti non erano in grado di catturare (Prochazka, V.K. Mushahwar, D.B. McCreery 2001; Handa 2006, p.1).
Queste novità, insieme a «walkman, stereo portatili, videoregistratori, batterie elettroniche, videocamere portatili, televisioni ad alta definizione, telex, fax, laser-disc, antenne paraboliche per captare i segnali dei satelliti, cavi a fibre ottiche, personal computer, chirurgia plastica» (Scelsi 1990, p. 10) fecero di questo periodo un momento nel quale appariva imminente un nuovo futuro per l’essere umano e il suo ambiente, le cui inquietudini e le cui possibilità vengono colte da un genere distopico come il cyberpunk (Braidotti 1995, pp. 34-36; Sterling 1994; Dazieri 1990). Questa corrente della fantascienza e la sua estetica si legavano ad una dimensione culturale che intendeva appropriarsi di queste tecnologie, emanciparle dagli scopi per i quali le industrie li avevano messi a punto e utilizzarle come strumenti di resistenza e di lotta (Anderson 2016).
3. Dall’homo sapiens all’homo proteticus
Collocato nell’alveo di questo contesto politico, tecnologico e culturale, lo stile visionario del Manifesto di Haraway appare come un testo in cui l’interesse per la fantascienza si radica nell’idea che ripensare la relazione tra l’essere umano e le macchine sia il tentativo di esplorare un nuovo immaginario, di concepire una nuova sintassi per comprendere il presente (Berardi 2013). Nel caso del Cyborg Manifesto si trattava soprattutto di un testo con un carattere politico, che intendeva porre in rilevo due questioni. La prima è senza dubbio quella di mettere a tema l’esistenza di nuove possibilità d’integrazione tra uomo e macchina, rese possibili dalla nascita di modelli del tutto inediti di automi e dallo sviluppo della cibernetica (Haraway 1995, p. 40). Nell’economia degli argomenti sviluppati da questo testo è essenziale sottolineare i caratteri del tutto nuovi di ciò che continuiamo a chiamare macchine (Haraway 1995, p. 43). Le macchine della fine del Ventesimo secolo appaiono a Haraway «fastidiosamente vivaci» (Haraway 1995, p. 44) in virtù della dissociazione tra potenza e dimensione – le macchine sono contemporaneamente sempre più piccole e sempre più potenti –, sono in grado di sviluppare forme di apprendimento e lavorano soprattutto nell’invisibile sfera della comunicazione, esse «sono leggere e precise perché non sono altro che segnali, onde elettromagnetiche, sezioni di uno spettro» (Haraway 1995, p. 45). Ma l’esortazione a prendere visione della necessità di aggiornare la percezione dei nuovi campi di sviluppo tecnologico garantiti dalla produzione industriale dei semiconduttori non discende dall’idea di formulare ammonimenti su quanto sia sottile il crinale che distingue le distopie fantascientifiche dalla realtà, ma dalla proposta di partire da questa nuova capacità di integrazione tra uomo e macchina per aggiornare il concetto foucaultinao di biopolitica, il quale appare ad Haraway come una «fiacca premonizione di quel campo aperto che è la politica cyborg» (Haraway 1995, p. 40).
L’annuncio secondo il quale
alla fine del Ventesimo secolo, in questo nostro tempo mitico, siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo: in breve, siamo tutti cyborg (Haraway 1995, p. 41).
non intende cioè riferirsi alla nostra condizione di esseri sempre più artificiali grazie alle protesi dentarie in ceramica, ai legamenti di gomiti e ginocchia in kevlar o a tutte quelle pratiche mediche e chirurgiche che sono in grado di sostituire parti del nostro corpo (Pitts 2002). L’intento di Haraway è quello di contestare direttamente quella distinzione tra artificiale e naturale, tra macchina e organismo, tra natura e cultura che innerva il modo in cui la tradizione moderna ha pensato la relazione tra l’essere umano e ciò che gli sta intorno.
L’idea che «il cyborg è un’immagine condensata di fantasia e realtà materiale» (Haraway 1995, p. 41) non va perciò intesa come indicazione del fatto che il presente è un ibrido tra un romanzo di Bruce Sterling e ciò che chiamiamo realtà, ma come una posizione epistemologica molto radicale che propone di osservare come mere astrazioni alcuni dei dualismi più caratteristici del pensiero filosofico e politico moderno. Tra di essi certamente quello di uomo e natura e quello di scienza e politica.
Al centro di questa proposta c’è in primo luogo la critica al modello di anthropos caratteristico del progetto illuminista. Se, infatti, prendiamo in considerazione il modo in cui l’Encycopedie di Diderot e D’Alembert situa l’uomo nel mondo ci rendiamo conto che il dualismo uomo-natura non è un effetto della condizione dell’uomo, ma un effetto del modo tipicamente illuministico di concepire la sua collocazione privilegiata:
V’è forse nell’infinito spazio qualche altro punto dal quale si possono tracciare, con maggior profitto, le linee immense che ci proponiamo di estendere a tutti gli altri punti? (Diderot 2003, p. 331)
L’uomo è il centro di tutti quei saperi e di tutte quelle tecnologie (o tecniche) che per la prima volta l’Enciclopedia riuniva in un unico testo (Tega 1984; Darnton 2012). L’idea che l’uomo con il proprio sapere si trovasse al centro di qualcosa che poteva indicare come altro da sé – a cui dava il nome di natura o di artificio o di mondo –, si basa sull’assunto che l’essere umano possa essere definito in sé, che sia possibile conferire senso all’esperienza di esistere al di qua del confine di ciò che indichiamo come altro. Essa inoltre dà rapidamente per scontato che tra questo al di qua e l’al di là ci siano canali di comunicazione cui si dà il nome di corpo, di mezzo e di strumento.
Questa impostazione dualistica nel corso della riflessione moderna ha trovato due soluzioni che erano apparse inconciliabili, ma che traggono origine proprio da questo modello binario, rispetto al quale la dimensione tecnica e la dimensione del corpo appaiono sempre come media al di qua e al di là dei quali si trovano le dimensioni più rilevanti. Se, infatti, ci chiediamo dove sono le cose prima di essere scoperte ci troviamo di fronte a due opzioni: una idealistica secondo la quale, finché il soggetto non le conosce non ci sono, o sono racchiuse in un essere opaco e sono del tutto indisponibili; oppure c’erano già e bastava che il pensiero le individuasse (opzione oggettivistica). Nel pensiero contemporaneo, invece, si fa strada l’idea che lo scopritore non si limiti a trovare dei fatti, ma che sia un manipolatore, un coproduttore di proposizioni dalle quali la scoperta futura può emergere, un agente che dispiega una condizione problematica in cui la cosa da scoprire si trova in forma implicita prima della sua formulazione e della successiva operazionalizzazione (Sloterdijk 2015, pp. 195-215).
Ciò comporta due importanti conseguenze nel modo in cui si concepisce l’essere umano. Innanzitutto la sua relazione con il mondo circostante non è un rapporto che si dà nel modo della separazione, ma esso si basa su un’immersione e su una relazione metabolica in cui ciò che è rilevante è la comprensione di questo metabolismo più che la separazione originaria. In secondo luogo che gli strumenti di questa relazione non vanno a sovrapporsi allo status dell’essere umano, ma determinano la possibilità stessa che l’anthropos dia senso alla propria esperienza di sé chiamandosi essere umano, e che sia possibile quel qualcosa a cui si dà il nome di mondo esterno o di natura (Sloterdijk 2015, pp. 209-214; Sloterdijk 2004, pp. 267-292).
L’homo sapiens che prende forma nella tradizione illuminista come colui che traccia la geografia del mondo standone al centro, come colui che grazie al proprio sapere e alla propria ragione comprende, governa e modella il mondo è il prototipo del prodotto di un dualismo che è indispensabile superare per cominciare ad addentrarsi nell’analisi della condizione metabolica dell’essere umano. Per farlo è innanzitutto necessario cominciare a pensare l’essere umano non come ciò che sta al di là e al di fuori del mondo, ma come un essere che pensa se stesso e il mondo esclusivamente grazie agli strumenti con i quali questa relazione si dà da sempre. La mano, il linguaggio, le macchine, gli oggetti tecnici sono invece protesi innestate nell’umano: senza di esse non è pensabile né l’uomo stesso né la conoscibilità né la manipolabilità di ciò che sin qui abbiamo pensato sotto forma di mondo, di natura o più modestamente di oggetto esterno. Il sapiens sarebbe perciò innanzitutto e soprattutto un homo proteticus.
Ed è proprio in questa chiave che è possibile leggere il testo del manifesto harawayano:
Nella relazione tra macchina e umano, non è ben chiaro chi sia l’artefice e chi il prodotto. Non è chiaro che cosa sia mente e che cosa corpo in macchine che si risolvono i protocolli di codifica. Nella misura in cui conosciamo noi stessi nel discorso formale e nella pratica quotidiana scopriamo di essere cyborg, ibridi, mosaici, chimere (Haraway 1995, p. 78).
La smaterializzazione e la miniaturizzazione della tecnologia caratteristica delle prodotti della cibernetica conferma definitivamente la profondità dell’innesto tra naturale a artificiale, tra semantiche linguistiche di interpretazione delle esperienze e tools di origine tecnica. Tale convergenza, tuttavia, non costituisce la catastrofe di una distinzione che è sempre esistita, bensì la caduta di una differenza che abbiamo continuato ad utilizzare troppo a lungo per comprendere noi stessi e il mondo (Hayles 1999; Braidotti 2014).
La più importante conseguenza che è necessario porre in rilievo a questo punto è che l’intento dell’autrice non si limita ad una proposta di revisione confinabile nell’ambito dell’epistemologia, ma ad una riarticolazione complessiva di un insieme di concetti tra i quali quelli politici giocano un ruolo fondamentale.
3. Al di là del genere
Tra le tecnologie che l’autrice è interessata a mettere in discussione ci sono almeno due semantiche politiche. Si tratta da un lato della tradizione del marxismo in senso lato (Echols 1989, pp. 23-138) e, dall’altro, quella del femminismo. Se, infatti, partiamo dal presupposto che il linguaggio è un medium attraverso il quale conosciamo, nominiamo, rendiamo possibile il mondo, esso è contemporaneamente anche lo strumento con il quale percepiamo noi stessi, diamo senso alle nostre esperienze e identifichiamo la nostra collocazione. Il Manifesto dichiara molto presto l’intento di collocarsi entro queste due tradizioni, ma, nel contempo, di volerle sottoporre ad una critica radicale. Haraway dichiara di scrivere questo testo con lo scopo di contribuire alla «cultura e alla teoria del femminismo socialista», ma ritiene che
il femminismo e il marxismo si sono arenati sull’imperativo epistemologico occidentale di costruire un soggetto rivoluzionario a partire da una gerarchia di oppressioni e/o da una posizione latente di superiorità morale, di innocenza e di più intimo contatto con la natura (Haraway 1995, p. 77).
Si tratta in estrema sintesi di avere ridotto la polivalenza dei soggetti ad un’unica matrice, ad una ragione monovalente nella quale c’è una forma di oppressione più vera o più originaria. Nell’ottica di Haraway l’obiettivo di eliminare una specifica forma di oppressione è erroneamente ritenuto come la chiave di accesso a quei paradisi perduti dove sia ancora possibile una relazione autentica con la natura e una condizione di libertà non alienata. Sulla scorta del radicale costruttivismo della prospettiva epistemologica di Haraway questa condizione non è, invece, mai esistita.
Rispetto alla semantica del femminismo, le critiche di Haraway si rivolgono in due direzioni. La prima secondo la quale il concetto di donna è una protesi che svolge il compito di produrre un’evidenza di sé, la quale rischia di renderebbe invisibili altre semantiche e altre strutture materiali che generano subordinazione. Haraway riprende qui un filone di riflessione politica nel quale si situa un’autrice come Audre Lorde, i cui lavori hanno posto in rilevo il fatto che il movimento femminista alla fine degli anni ’60 stentava a sviluppare una riflessione attenta alle forme di subordinazione come quella razziale e al ruolo giocato dalle preferenze sessuali (Haraway 1995, p. 74; Loretoni 2015). La necessità è quella di uscire dalla mera questione femminile e di vedere i diversi dispositivi di collocazione che agiscono nel determinarne la posizione sociale: tra questi dispositivi quello del genere appare come uno tra quelli possibili, non necessariamente il più importante.
La seconda è quella che individua nel femminismo la tentazione di essenzializzare un concetto – come è già avvenuto per quelli di uomo e di natura – e di non cogliere le esperienze e le circostanze in cui ha luogo l’essere donna come dimensione che si dà attraverso specifici dispositivi tecnici, semantici, sociali e materiali. In questo senso l’estraneità del cyborg alla dimensione dell’essere uomo e dell’essere donna non va inteso né come una forma di bisessualità originaria né come forma di disincarnazione, ma come una prospettiva nella quale donna e uomo vengono visti radicalmente come effetti di dispositivi semantici, come costrutti che trascrivono sul corpo apparati di conoscenze che come tali devono essere oggetto di critica. Il genere – per usare un’espressione che dà il titolo ad un saggio di Teresa De Lauretis uscito pochissimi anni dopo il Manifesto cyborg – è una tecnologia (De Lauretis 1987).
4. L’oncotopo™ e la situazione
Sottolineare la densità semantica, storica e sociale dei concetti, dei dispositivi e delle pratiche serve a provare a tessere nuove descrizioni delle relazioni entro cui prendono forma l’umano e il suo ambiente. Ma per farlo è necessario «assumersi la responsabilità delle relazioni sociali della scienza e della tecnologia» e «accettare il difficile compito di ricostruire i confini della vita quotidiana, in parziale connessione ad altri, in comunicazione con tutte le nostre parti» (Haraway 1995, p. ).
Questa assunzione di responsabilità passa, secondo Haraway, dal compiuto riconoscimento che la distinzione tra scienza e politica non è data, non è cioè il risultato di due sguardi diversi e indipendenti, di due modelli di episteme distinti o di due aspetti diversi della mente umana tra loro separabili. Laddove si discute di un oggetto o di una pratica tecnica è in gioco soprattutto il tentativo di collocare il confine tra scienza e politica. Criticare la neutralità della scienza si traduce, in altri termini, in una nuova militanza politica che vuole porre in rilievo pericoli e possibilità, spazi di risignificazione e ambiti di libertà.
Il senso che l’autrice conferisce a questo confine si chiarisce molto bene in un testo redatto qualche anno più tardi e in cui analizza un particolare oggetto tecnico come la cavia da laboratorio commercializzata dalla società Dupont che doveva servire per la messa a punto di nuove terapie contro il cancro. In Testimone_Modesta@FemaleMan©_incontra_OncoTopo™ (Haraway 2000), Haraway osserva come questi topi siano oggetto di una particolare inquietudine perché si tratta dei primi organismi viventi brevettati, venduti da una grande società biotecnologica. La brevettazione del vivente – un fenomeno sino ad allora del tutto inedito – diviene oggetto di un’analisi in cui sono centrali temi e questioni molto lontani da quelli di cui si occupava il femminismo: la vicenda storica della società che lo produce, i dispositivi legali che definiscono la brevettabilità di un’invenzione, le politiche di commercializzazione di questo nuovo “prodotto per la ricerca”, le semantiche di genere che investono i corpi femminili a cui sono destinate alcune delle cure sperimentate su questi viventi. In questo modo la questione del rapporto tra genere e tecnologia – che pure non è nuova nel femminismo (Cowan 1983, Waicman 2004) – mostra come gli oggetti tecnici siano parti di un sistema integrato di relazione tra individuo e società (Terranova 1996; Faulkner 2001; Timeto 2009) in cui nel novero delle tecnologia non rientrano solo automi e oggetti, ma anche «la modalità attraverso cui particolari macchine e meccanismi eseguono il compito di configurare, influenzare, mediare e incarnare relazioni sociali» (Terry, Calvert 1997, p. 4).
Questo implica definitivamente che laddove si prende in esame la questione della tecnica non è più possibile ragionare dando per scontata la distinzione tra scienza e politica: la scienza è una pratica in cui si riflettono relazioni sociali e la politica non è affatto un terreno di decisione che si trova al di là della scienza e forse neppure al di sopra di essa. Scrive Haraway:
Un’altra separazione categoriale, in particolare, non sembra utile alla rappresentazione delle tecnoscienze: quella tra scienza e politica, scienza e società, scienza e cultura. Una categoria di questo genere non può essere utilizzata per spiegare l’altra, e nemmeno può essere ridotta a contesto dell’altra. Ma il problema tassonomico va ancora più a fondo. Queste stesse biforcazioni categoriali sono reificazioni di pratiche sfaccettate, eterogenee, e intrecciate e delle loro sedimentazioni relativamente stabili; il tutto serve a tenere separati i relativi ambiti per ragioni principalmente ideologiche (Haraway 2000, p. 102).
Così come negare alla scienza la sua neutralità non significa riportarla nell’alveo delle semplici opinioni, così osservare in modo problematico la sua distinzione dalla politica non significa che i poteri che agiscono nell’una coincidano con quelli che agiscono nell’altra. Per identificare un terreno di confronto nel quale si prendono responsabilmente decisioni che ricadono su tutti i viventi, è necessario innanzitutto riflettere su tutte le relazioni che vengono stabilite da una certa pratica scientifica, sulle sue ricadute e sulle sue semantiche. Rispetto a questo procedimento la domanda tipica dell’etica se qualcosa è buono o cattivo per un certo insieme di persone, non può trovare posto a monte della complicata trama che connette ciò a cui diamo il nome di mondo, essa viceversa trova posto solo alla fine, dopo e non prima avere esplicitato le caratteristiche specifiche e contestuali nelle quali un oggetto o una pratica tecnica si danno (Haraway 1995, pp. 103-134).
Questa chiave di lettura ha aperto un nuovo campo di indagine che ha evidenziato come “natura” sia un concetto in cui si sedimentano campi di forze, costrutti culturali, concezioni dello spazio e della sua accessibilità, e anche una profonda differenziazione tra uomo e donna. Così natura si è mostrato essere un concetto innervato di politica, al quale vanno definitivamente sostituiti altri concetti situati – i cui effetti, dal punto di vista delle relazioni sociali, delle istituzioni politiche, dell’accessibilità, della distribuzione di chance di vita e della collocazione spaziale, siano resi espliciti.
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