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La filosofia del diritto in Italia negli ultimi settanta anni

FRANCESCO D'AGOSTINO
Articolo pubblicato nella sezione Sulla filosofia italiana

1. Nel 1952 muore Benedetto Croce e con lui, lucidissimo ma poco convincente teorico della riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, si esaurisce, simbolicamente, l’interdetto neoidealista che pesava da decenni contro la nostra disciplina. Parallelamente si diffonde in quegli anni la consapevolezza della vera e propria rivoluzione culturale attivata dalle Nazioni Unite e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, un testo destinato, comprensibilmente, a sollecitare la mente dei filosofi del diritto (non a caso, Croce, a chi lo sollecitava di fornire un giudizio sulla Dichiarazione, aveva reagito con insofferenza, rilevando –ragionevolmente dal suo punto di vista - l’inaccettabile e antiquato carattere illuministico di quel testo). Si aggiunga che la presa di coscienza di cosa avesse comportato il nazismo giuridico e la sua riduzione del diritto ad Hitlerum imponeva agli studiosi del diritto l’attivazione di nuove energie intellettuali, coinvolgendoli in quell’impegno storico-morale che Adorno riassunse efficacemente, quando scrisse che il ripudio di ogni tentazione che Auschwitz avesse a ripetersi doveva costituire il nuovo imperativo categorico vincolante per tutta l’umanità.
1.1 È appena il caso di aggiungere che l’interdetto crociano nei confronti della filosofia del diritto (che è anche possibile leggere in parallelo col similare interdetto nei confronti della materia mosso da Giovanni Gentile con la sua proposta di ridurre la filosofia del diritto alla filosofia morale) non arrivò mai a coinvolgere la collocazione accademica della disciplina (che pure Croce auspicava venisse sostituita nelle Facoltà di Giurisprudenza da una materia da intitolare, con estrema semplicità, Filosofia). Ma la storia accademica della Filosofia del diritto, in particolare durante il ventennio fascista, richiederebbe analisi particolareggiate, rilevanti dal punto di vista sociologico-culturale, ma di ben scarso rilievo filosofico.
2. Il nuovo vigore conosciuto dalla filosofia del diritto italiano fin dai primi anni del dopoguerra si può far ampiamente coincidere con la nuova attenzione riservata alla dottrina del diritto naturale. Una simile attenzione non stupisce in studiosi legati alla tradizione tomistica (come Giuseppe Graneris); colpisce di più in riferimento a una personalità come quella di Giorgio Del Vecchio, che da neokantiano che era si avvicinò inaspettatamente al tomismo giuridico (un autore sul quale ritorneremo), e soprattutto in riferimento a una folta schiera di studiosi del diritto positivo, che presero fermamente le distanze da ogni prospettiva giuspositivistica: tra costoro primeggia il nome di Francesco Carnelutti, il massimo giurista italiano del primo dopoguerra. Le nuove aperture al giusnaturalismo trovarono la massima rappresentazione simbolica nel Convegno dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani del 1948, i cui Atti, che apparvero con l’eloquente titolo Diritto naturale vigente, esprimevano bene la pretesa di stabilire un nuovo ponte tra diritto naturale e diritto positivo, tra giustizia e effettività: ponte favorito dalla lettura giuspositivistica (peraltro tutt’altro che indebita in quegli anni) della nuova Costituzione italiana e in particolare dei suoi principi fondamentali.
3. Un solo filosofo italiano del diritto restò in posizione teoreticamente eccentrica rispetto a questo nuovo fervore giusnaturalistico: Giuseppe Capograssi (nato nel 1889 e prematuramente scomparso nel 1956). Profondamente cattolico (e tra i promotori dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, nata appunto subito dopo la fine della guerra) Capograssi non è definibile come giusnaturalista: mancava nel suo pensiero qualsiasi idea di una duplicità ordinamentale (diritto naturale/diritto positivo) e soprattutto gli mancava l’idea di poter contrapporre, nelle grandi controversie giuridiche, le norme di diritto naturale a quelle di diritto positivo. Capograssi, che pure era fine giurista, aveva elaborato, ben prima della seconda guerra mondiale, una squisita antropologia, basata su di un’attenta analisi dell’esperienza comune; dopo la guerra (anzi, dopo la catastrofe, per usare un’espressione che gli fu cara) Capograssi portò il suo lavoro speculativo nel 1953 al suo culmine, riassunto in un’opera originalissima quale l’Introduzione alla vita etica. Quella di Capograssi fu una riflessione tanto originale nei toni quanto eterea nelle sue configurazioni dottrinali; se egli l’avesse radicata nell’ontologia, avrebbe potuto competere con le analisi heideggeriane del Dasein. Si trattò comunque di un’antropologia portatrice di un fascino mai raggiunto da altri filosofi del diritto novecenteschi, capace di avvincere i suoi discepoli e di lasciare in essi un’impronta indelebile, ma tale anche da suscitare in personalità sanguigne non solo critiche, ma anche profonde antipatie: un temperamento come quello di Giovanni Tarello (il fondatore della scuola genovese di filosofia del diritto) non trovava difficoltà a denigrare come fumisterie le speculazioni capograssiane, invitando in tal modo molti giovani studiosi di filosofia del diritto a non leggerlo nemmeno (ma è un fatto che chiunque abbia ascoltato o letto Capograssi – anche laici come Norberto Bobbio o Vittorio Frosini - ne percepirono la sublimità spirituale). Anche a volerle ritenere ingiustamente e malevolmente fumisterie, quelle di Capograssi ottennero comunque anche un incredibile successo editoriale che ben pochi filosofi italiani del diritto (con l’eccezione di Bobbio) hanno mai ottenuto. Nel 1959, quindi pochissimi anni dopo la sua morte, l’opera omnia del filosofo di Sulmona venne edita da Giuffrè in ben sei volumi (ai quali si aggiunse, diversi anni dopo nel 2008, e per lo stesso editore, un settimo tomo, che raccolse ulteriore e prezioso materiale che era sfuggito ai volenterosi curatori dei primi sei); lo stesso editore, dal 1978 al 1981 pubblicò in tre grossi tomi le Lettere a Giulia, cioè le lettere, teoreticamente densissime, che il giovane filosofo scrisse negli anni di fidanzamento alla sua futura moglie Giulia (una scelta di queste lettere è stata poi edita da Bompiani nel 2007); ancora l’editore Bompiani, nel 2008, dà alle stampa un volume capograssiano, cui è stato dato il titolo La vita etica, che raccoglie le sue pagine più suggestive. Proprio questa ultima pubblicazione e il titolo che le è stato dato, ci indicano che Capograssi non appartiene propriamente al panorama della filosofia italiana del diritto della seconda metà del Novecento: egli sta altrove, in una “provincia” che non è nemmeno qualificabile – se non estrinsecamente - come quella della filosofia morale, una “provincia” tutta sua, nobilmente provinciale sotto un duplice profilo, poiché nelle pagine da lui scritte si percepisce benissimo quanto poco egli abbia importato da altre “province”, soprattutto straniere, e quanto difficile sia possibile l’ esportazione della sua dottrina.
3.1 Se l’immagine di Capograssi va qualificata – come appena detto - come nobilmente provinciale, si può giustamente sostenere – solo sotto il punto di vista del provincialismo - che il suo vero alter ego sia stato Giorgio Del Vecchio (1878-1970), l’autore più esportabile e più esportato della filosofia italiana del diritto. Del Vecchio, studioso dotto e precoce (cominciò ad insegnare la filosofia del diritto nel 1903), limpido nell’espressione, di produzione ampia e generosa, ebbe a cavallo delle due guerre un successo strepitoso non solo in Italia (in questo favorito anche dalla sua adesione esplicita al fascismo), ma anche e soprattutto all’estero, segnatamente in Spagna, in America latina, negli Stati Uniti e nell’estremo Oriente: ognuna delle sue opere principali ebbe traduzioni nelle principali lingue europee e perfino in giapponese. Il suo saggio La giustizia, la cui prima elaborazione risale al 1922, conobbe successive ristampe e integrazioni e giunse alla sua versione definitiva solo nel 1959, per i tipi della casa editrice Studium: si tratta di un testo che unisce con intelligenza dati storiografici e aperture speculative e che consentì a Del Vecchio (ebreo convertito al cattolicesimo in età già più che matura) la sua definitiva iscrizione nei ranghi dei filosofi del diritto di ispirazione cattolica. Di Del Vecchio si può dire ciò che un acuto critico musicale ha detto di Handel: e cioè che egli ha scontato l’immensa fama goduta in vita con un non casuale oblio dopo la sua morte.
4. Gli anni successivi alla scomparsa di Croce costituirono, come si è detto, anni di straordinario fervore editoriale per la filosofia italiana del diritto. Sarà sufficiente citare solo alcuni autori e alcuni titoli: nel 1952 viene pubblicata l’edizione italiana della Dottrina del diritto naturale di Alessandro Passerin d’Entrèves; nel 1959, un allievo di Croce, Carlo Antoni, pubblica una monografia dall’inequivocabile titolo La restaurazione del diritto di natura; Pietro Piovani (allievo di Capograssi, studioso di profonda, ma laica, religiosità) dà alle stampe nel 1961 Giusnaturalismo ed etica moderna; nel 1964 appaiono i testi di Giovanni Ambrosetti Diritto naturale cristiano e di Guido Fassò, La legge della ragione (opera quest’ultima sotto alcuni profili anticipata dal Fassò nel saggio Cristianesimo e società); infine, nel 1965, Norberto Bobbio raccoglie in volume alcuni suoi saggi fondamentali sotto il titolo Giusnaturalismo e positivismo giuridico. Anni formidabili, quindi, per la riflessione italiana sul diritto naturale, che potremmo immaginare ritornata – dopo la chiusura filosofica del ventennio fascista - a respirare giusnaturalisticamente, in piena sintonia con le punte più avanzate della giusfilosofia mondiale; anni che potremmo far inaugurare da Leo Strauss, che nel 1950 pubblica il suo National Right and History (tradotto in italiano nel 1957) e far chiudere simbolicamente dalla traduzione italiana, apparsa nel 1965, del celebre saggio di Heinrich Rommen, L’eterno ritorno del diritto naturale.
5. Ma le cose non stanno propriamente così. Con la sola eccezione del lavoro di Ambrosetti (curatore, non a caso, della traduzione del capolavoro di Rommen) tutti gli altri testi che abbiamo citato, da Passerin a Antoni, da Piovani a Fassò e a Bobbio, sono attraversati da un medesimo filo rosso: quello del primato della considerazione storico-funzionale del giusnaturalismo rispetto alla questione della sua fondazione antropologica e ontologica. Naturalmente ben diverso era l’atteggiamento storicistico di Carlo Antoni (e in un certo senso di Pietro Piovani) rispetto a quello di un Passerin d’Entrèves, di un Fassò o di un Bobbio: i primi erano portatori di una sensibilità filosofica che non solo mancava nei secondi, ma era intenzionalmente rifiutata. Guido Fassò, nella Legge della ragione, esalta il giusnaturalismo contro il volontarismo giuridico, che egli vede come l’antenato del giuspositivismo; non vede nella ragione uno strumento di orientamento alla verità, ma più riduttivamente come una mera istanza critica, funzionale all’ottimizzazione delle relazioni sociali. In Cristianesimo e società Fassò sostiene che la giustizia in senso proprio va pensata nella logica dell’assoluto; ma, a suo avviso, solo i mistici e i santi possono accedere all’assoluto e quindi, parlare legittimamente di giustizia; agli uomini comuni questo non è concesso. Il diritto, insiste Fassò, rivela la viltà che caratterizza l’esperienza storica degli uomini, pronti a sopraffare gli altri e prontissimi a lamentarsi quando a loro volta vengono sopraffatti. Di qui la soddisfatta meraviglia, che caratterizza la riflessione filosofica di Fassò in tutto l’arco della sua vita, per la dottrina del diritto naturale, come tecnica di coesistenza sociale, priva di autentiche radici teoreticamente fondabili, ma dotata di una sua preziosa utilità pragmatica.
6. Norberto Bobbio, pur senza giungere ad affermazioni così esplicitamente amare e disincantate come quelle di Fassò, si muove sostanzialmente nella stessa linea. Anche per Bobbio il giusnaturalismo va pensato in contrapposizione al giuspositivismo; ma a suo avviso la loro contrapposizione è più complessa di quanto usualmente non si creda. Lo studio del diritto, infatti, va portato avanti, per Bobbio, su piani diversi: quello della teoria, quello della metodologia e quello dell’ideologia e può quindi ben capitare che uno studioso sia positivista da un certo punto di vista e giusnaturalista da un certo altro. «Per quel che può valere – egli scrive in Giusnaturalismo e positivismo giuridico (Edizione di Comunità, Milano 1965, a pag. 146) - adduco come esempio il mio caso personale: di fronte allo scontro delle ideologie, dove non è possibile alcuna tergiversazione, ebbene sono giusnaturalista; riguardo al metodo, sono, con altrettanta convinzione, positivista; per quel che si riferisce, infine alla teoria del diritto non sono né l’uno né l’altro». In queste poche righe cruciali Bobbio non usa l’espressione filosofia del diritto, ma palesemente è ad essa che allude quando parla di ideologia. La filosofia non ha, né può aspirare al rigore e alla freddezza della teoria generale del diritto e della metodologia giuridica: la filosofia è sostanzialmente ideologia, un pensiero caldo, coinvolgente, appassionante, ma privo di rigore epistemologico. Le ideologie si possono descrivere e ancor più vivere; per esse si può anche perfino morire; ma non si possono giustificare. Nella sostanza Bobbio aderisce alla posizione di Hans Kelsen e alla sua teoria secondo la quale la giustizia, afferendo alla sfera del Sollen, del dover essere, irriducibile a quella del Sein, cioè dell’essere, altro non sarebbe se non un ideale irrazionale. Una prospettiva, questa, sconfortante per chi legga la storia del Novecento come quella di una giusta lotta contro i grandi totalitarismi; una prospettiva, però, che non ha mai cessato di guadagnare terreno nella seconda metà del Novecento, strutturandosi nelle più diverse forme di riduzionismo epistemologico e di relativismo filosofico. L’impegno di Bobbio nella teoria generale del diritto, alla quale dedicò molti studi e due celebri corsi, la Teoria della norma giuridica del 1958 e la Teoria dell’ordinamento giuridico, del 1960 (corsi riuniti nel volume Teoria generale del diritto del 1993) testimonia ampiamente il suo distacco, lento, non brusco, ma irreversibile, dalla filosofia del diritto, da lui progressivamente pensata – in profonda sintonia con le linee predominanti (anche se non esclusive) della filosofia del diritto europea e americana - come non fondabile psicologicamente e come di conseguenza assiologicamente sterile.
7. Fu probabilmente a causa dell’insoddisfazione nei confronti di questa sterilità assiologica (peraltro da lui mai esplicitamente tematizzata né mai formalmente riconosciuta) che Norberto Bobbio decise di abbandonare la disciplina nella quale si era formato e di cui tutti lo riconoscevano maestro. Abbandono che lo portò ad abbandonare anche la Facoltà torinese di Giurisprudenza, per passare ad insegnare nella ben più recente Facoltà torinese di Scienze politiche, come successore di Alessandro Passerin d’Entrèves alla cattedra di Filosofia politica, insegnamento al quale ben presto egli aggiunse quello di Scienza della politica. Impegnandosi nello studio di queste materie Bobbio non intendeva certamente animarle di nuovi afflati valoriali, dato che, nella scia di d’Entrèves, egli non smise mai di trattarle con freddezza analitica, accettando la nota distinzione di origine weberiana tra lo Stato come forza, come potere e come autorità. Ma è certo che la filosofia della politica, ancorché ridotta a mera dossografia, era ben più capace, rispetto alla filosofia del diritto, di soddisfare gli interessi storici e valoriali di uno studioso, ancorché ontologicamente scettico, come lo è stato Bobbio. È in questa chiave che vanno capiti i saggi di storia della filosofia che egli elaborò spinto da diverse sollecitazioni e che restano ancora oggi preziosi: mi limito a ricordare quelli che egli dedicò a Hegel (Studi hegeliani, del 1981), a Hobbes (Thomas Hobbes, 1989) o a Marx (Né con Marx né contro Marx, del 1997). Fu comunque così che colui che i suoi allievi ancora insistono per riconoscere come il più grande filosofo del diritto italiano della seconda metà del secolo scorso finì la sua carriera accademica come cultore di altre discipline.
8. L’abbandono da parte di Bobbio della filosofia del diritto ebbe altre e non irrilevanti conseguenze: portò i suoi discepoli a inserire nella materia elementi nobili, ma spuri. La Teoria generale del diritto entrò in tal modo (e indebitamente) all’interno dei programmi di Filosofia del diritto. Stessa sorte toccò alla Logica giuridica, all’Informatica giuridica e, sotto diversi aspetti, anche alla Sociologia del diritto. Il radicamento storico della disciplina, tanto caro a Bobbio e da lui così attentamente coltivato, venne ampiamente trascurato dai suoi allievi e l’unitarietà della materia venne palesemente a frantumarsi, creando nelle nuove generazioni di filosofi del diritto di ascendenza bobbiana ampi spazi di incomunicabilità. Concentrando la loro attenzione sulle dinamiche interne del diritto positivo e sui suoi risvolti linguistici, gli allievi di Bobbio hanno infatti rinunciato ad ogni impegno teoretico di timbro schiettamente antropologico (cioè filosofico): in una parola hanno lasciato cadere la tematizzazione della giustizia. Scelta metodologicamente legittima (dal loro punto di vista) e in consonanza con dinamiche culturali presenti in altri paesi e (forse anche) predominanti a livello internazionale. Scelta però che ha avuto una conseguenza rilevante e cioè l’inaspettato decentramento degli studi filosofici sulla giustizia, abbandonati alle competenze (rilevanti, ma ben poco giusfilosofiche!) di filosofi morali, filosofi politici ed economisti. E in effetti, considerando il panorama internazionale, le elaborazioni più preziose in tema di giustizia della seconda metà del Novecento appaiono indubbiamente – in un elenco che non aspira né alla completezza, né ad un ordine - quelle di Jankélévitch, Ricoeur, Habermas, Rawls, Hayek, Dworkin, Nussbaum, Heller, Amartya Sen, Sandel; mentre nel panorama nazionale è difficile non riconoscere spessore materialmente filosofico-giuridico a produzioni come quelle di Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Natalino Irti ed altri ancora, tutti illustri studiosi non di filosofia del diritto, ma di diritto positivo.
9. Questa sorta di cupio dissolvi della filosofia del diritto di matrice bobbiana ha però conosciuto non irrilevanti resistenze. Alcune tra di esse hanno avuto un carattere piattamente accademico (data la caratteristica delle Università italiane di favorire la continuità delle “scuole” e quindi la persistenza di paradigmi teoretici svuotati di ogni vitalità intrinseca). Altre invece sono state portatrici di nuovo e diverso pensiero, indipendentemente dall’entità del loro consolidarsi nel sistema culturale del nostro paese. Mi limiterò a fare solo due esempi.
10. Il primo è quello di Italo Mancini (1925-1993). Partito dall’ontologia e dalla filosofia della religione, passato attraverso profondi studi dedicati al pensiero evangelico tedesco soprattutto del Novecento, dotato di cultura non solo filosofica, ma anche teologica di altissimo livello, studioso, traduttore e commentatore di Kant, Barth, Bonhoeffer, Bultmann, Mancini si avvicinò progressivamente alla teoria della giustizia, fino al punto da trasferire il suo insegnamento di ruolo, nell’amatissima sede urbinate, nella Facoltà di Giurisprudenza, occupando la cattedra di Filosofia del diritto e insegnando questa disciplina non quindi dall’ “esterno”, ma dall’ “interno” dell’esperienza giuridica. A partire dagli inizi degli anni ottanta del secolo scorso, Mancini cominciò a pubblicare una serie di opere di notevole impegno teoretico: Negativismo giuridico (1981), Filosofia della prassi (1986), L’ethos dell’Occidente (1990). Postumo, nel 1993, è apparso Diritto e società, che contiene una lunga serie di note di lavoro, che dimostrano con quanta attenzione seguisse la produzione della filosofia del diritto italiana e straniera. In questi testi Mancini, oltre a dar prova di un’immensa cultura storico-filosofica e di forte originalità di pensiero, elabora un progetto teoretico volto ad innestare nell’ermeneutica la lettura del fenomeno giuridico. Un’ermeneutica che per Mancini poco aveva a che vedere con le ricerche di teoria dell’interpretazione elaborate da un Emilio Betti o, in anni molto più recenti da un Giovanni Tarello: per Mancini l’ermeneutica andava intesa come strumento di ricerca ontologica, volta a far emergere la vocazione ultima del diritto, quella di creare continuamente nuovi fronti di lotta per la difesa della dignità della persona e dei diritti umani.
10.1 Un progetto straordinario e suggestivo il suo, che gli costò un isolamento pressoché totale all’interno della comunità accademica dei giusfilosofi italiani (con l’eccezione dei suoi allievi più diretti e di chi scrive queste righe, che non fu suo allievo), come prova il fatto che i filosofi del diritto che hanno tentato di creare una prospettiva giusfilosofica etichettabile come ermeneutica (penso in particolare a Giuseppe Zaccaria, autore di Questioni di interpretazione, del 1996 e di Diritto e interpretazione, da lui scritto assieme a Francesco Viola nel 1999) non solo non ne hanno utilizzato il pensiero, ma nemmeno hanno ritenuto opportuno citarne i lavori; e ne è prova ancor più rilevante il fatto che nel terzo volume della Storia della filosofia del diritto di Guido Fassò, aggiornato da Carla Faralli nel 2001, il nome di Italo Mancini non viene ricordato né nel testo, né nella pur abbondante bibliografia che chiude il volume e nemmeno in una pur piccola noticina.
11. Il secondo nome da fare tra gli autori che hanno rappresentato un’autentica, e non accademica, reazione al bobbismo, è quello di Sergio Cotta (1920-2007).
12. Laureato in Scienze politiche, formatosi a Torino come assistente di filosofia del diritto alla cattedra di Bobbio e da lui inizialmente influenzato, al punto da scrivere nel 1956 un libro che cercava di sviluppare un’interpretazione formalistico-kelseniana del concetto di legge in Tommaso d’Aquino. Non certo per questo libro (tanto intelligente quanto curioso e in cui comunque egli, negli anni della maturità, cessò di riconoscersi), egli giunse a conquistare la cattedra nel 1956, ma grazie a brillanti studi storiografici, dedicati in particolare a Montesquieu, a Filangieri e a Rousseau. Suscitò quindi qualche meraviglia negli ambienti accademici il fatto che egli, abbandonando (sia pur provvisoriamente!) la storia del pensiero giuridico e politico settecentesco, nel 1960 pubblicasse un libro dal titolo La città politica di S. Agostino. Ancora un’opera di alta storiografia, intrisa però di filosofia. Nelle Università italiane venivano in quegli anni introdotte le prime cattedre di Filosofia della politica. Con la sua lettura profonda e innovativa di Sant’Agostino, Cotta attivava la riflessione su di un tema essenziale, quello del dis-centramento della politica, che sarebbe rimasto centrale nei suoi interessi di studioso.
13. Il definitivo avvicinamento di Cotta alla filosofia del diritto (che comunque non gli fece mai perdere la squisita originaria sensibilità per la filosofia politica) avvenne a seguito di alcune evenienze, non direttamente da lui previste né provocate. La prima ebbe un carattere accademico: orientato alla conquista di una cattedra di Storia delle dottrine politiche, e di fatto escluso dalla terna dei vincitori, egli fu “dirottato” nel 1956 - grazie a un decisivo e “salvifico” intervento di Capograssi - a quella di Filosofia del diritto, disciplina che egli insegnò a Perugia, Trieste, Firenze e finalmente a Roma (all’attuale “Sapienza”) dal 1964. In questo Ateneo, appena quarantacinquenne, egli fu, e rimase per vari anni, il più giovane professore della prestigiosissima Facoltà di Giurisprudenza. Pochi potevano allora immaginarlo, ma si creavano così le premesse per il consolidarsi, a Roma, dell’unica autentica alternativa al pensiero filosofico-giuridico che si era imposto come dominante nei primi decenni del secondo dopoguerra, quello di matrice formalistica, rappresentato ai massimi livelli dalla persona e dall’opera di Norberto Bobbio. Frutto dei primi anni dell’insegnamento romano fu un libro che riscosse un notevolissimo successo, anche al di fuori del ristretto mondo dei giuristi: La sfida tecnologica. In quest’opera si rendeva evidente il suo definitivo distacco dalla filosofia del diritto di matrice kelseniana, di cui si era imbevuto negli anni della sua formazione. Il kelsenismo è una teoria pura del diritto, intrisa di malinconico scetticismo e che proietta il sapere giuridico fuori dalla storia. Cotta nel suo libro parte invece proprio dalla storia, individuando nell’irruzione nel mondo della vita della tecnologia, con le sue caratteristiche ambivalenze e col suo ineludibile portato di sfida, il fenomeno epocale della modernità. Alimentandosi al pensiero di autori raramente posti in connessione tra loro, come Bergson e Heidegger, Cotta indica nella sintesi di scienza, tecnica e produzione (sintesi che egli riassume nell’efficace espressione energia tecnologica) il motore propulsore del nostro tempo, un motore che se da una parte è espressione della volontà di vita e della coscienza dinamica dell’uomo, dall’altra reca costitutivamente dentro di sé una concreta possibilità di involuzione e di morte. Sottraendosi agevolmente alla sterile alternativa tra apocalittici e integrati, resa celebre qualche anno prima da Umberto Eco, Cotta mostra come la sfida tecnologica vada presa sul serio e come solo un continuo e sapiente riferimento all’essere possa dare all’uomo l’equilibrio indispensabile per non lasciarsi accecare dalla dinamica vorticosa di uno sviluppo, che nella sua accelerazione tende inevitabilmente a perdere ogni orientamento teleologico. In questo orizzonte, spiega Cotta, il modello positivistico del giurista mostra definitivamente tutti i suoi limiti. Abbandonando la funzione di mero esegeta delle norme, di cui non porta kelsenianamente alcuna responsabilità, il giurista per Cotta deve assumere la funzione, quasi ingegneristica, di ideazione e di progettazione delle nuove e rischiose strutture sociali, richieste dalla modernità, e che hanno bisogno di un impegno umano profondo, per essere orientate al bene comune.
14. La sfida tecnologica, un’opera profondamente e intenzionalmente anti-ideologica, viene data alle stampe da Cotta nel 1968, nell’anno fatidico in cui ha inizio uno scatenarsi dell’ideologia, destinato a prolungarsi per anni ed anni e a produrre gli effetti che tutti ben ricordiamo. È un libro che, a chi oggi torni a leggerlo senza pregiudizi, appare capace di spiegare fino in fondo la genesi del “Sessantotto” e di indicarne i possibili esiti. A Cotta infatti appariva ben chiaro come fosse indispensabile dare risposte alla crisi antropologica e culturale indotta dall’energia tecnologica e individuava in una costante e spregiudicata attenzione ai bisogni oggettivi dell’uomo l’unico modo per “gestirla”. Il Sessantotto scelse invece un’altra strada, quella di un prassismo cieco, di un libertarismo volontaristico, di un individualismo narcisistico, di una esaltazione rozza e cieca della violenza: tutti elementi, questi, che vennero da molti identificati o fruttuosamente coniugati con innumerevoli varianti eterodosse del marxismo. L’ostilità di Cotta nei confronti del “Sessantotto” e di tutte le sue successive degenerazioni fu radicale e irriducibile: egli fronteggiò la “contestazione studentesca” con la rara fermezza di chi, avendo partecipato intensamente alla Resistenza, arrivando a conquistare una medaglia al valor militare, non poteva certamente lasciarsene intimorire. Il suo ulteriore lavoro scientifico, oramai di radicale impegno filosofico-giuridico, fu ampiamente orientato dall’esperienza sessantottesca. Il carattere quasi endemico assunto dalla violenza politica negli “anni di piombo” non si limitò a suscitare in Cotta, come in tanti altri, solo un forte senso di repulsione morale, ma attivò le sue più profonde energie speculative. In una serie di libri mirabili (ricordiamo tra tutti Perché la violenza, del 1977) Cotta cominciò una paziente opera di decostruzione del contesto culturale all’interno del quale il Sessantotto si era manifestato e che oggettivamente lo aveva prodotto, anche se non intenzionalmente: il contesto rappresentato ai massimi livelli da Norberto Bobbio. Per quanto personalmente fosse un uomo profondamente mite, in Bobbio, come in tutti gli intellettuali che riconoscono alla “prassi” un primato sulla “teoria”, restò sempre una certa soggezione nei confronti della violenza: lo dimostra – come già si è detto - il fatto che egli non riuscì mai a condannare fino in fondo la violenza “ideologica” (cioè quella posta in essere dalla “sinistra”), limitandosi a stigmatizzare con fermezza solo la violenza da lui ritenuta “bruta” (quella di “destra”). A livello filosofico-giuridico, Bobbio non riusciva a spiegare il diritto, se non riducendolo ad un insieme di norme emanate dal “sovrano” e imposte ai “sudditi” e quindi garantite esclusivamente dalla minaccia delle sanzioni (cioè in definitiva dal “monopolio legale della forza”). Di conseguenza, Bobbio si rassegnava a pensare la guerra come un concetto “forte” e la pace come un concetto “debole”. Cotta rovesciò questa visione del diritto e della politica e creò una scuola di pensiero per la quale il diritto appare come relazione tra pari, una attività-per e non un’attività-contro; un’esperienza nella quale il momento sanzionatorio, ovviamente ineludibile, deve restare sempre e comunque contrassegnato da una misura, che lo distacca nettamente dalla logica cieca e irrazionale della violenza. Ne segue che la pace, per Cotta, non va pensata come il frutto di un mero accordo convenzionale, forse nobile ma certamente fragile, ma come il valore intrinseco di ogni coesistenza sociale, o, se si vuole, la cifra riassuntiva della giustizia. In questo modo, Cotta torna a recuperare e a rivitalizzare, grazie ad un’antropologia originalissima, tematiche giusnaturalistiche: l’uomo ha bisogno dell’altro, perché per sua natura è un essere relazionale, che solo nell’altro trova se stesso. Il diritto custodisce la relazione interpersonale, come relazione pacifica e pacificante, valida universalmente, ostile a qualsiasi forma di discriminazione (è questo il tema centrale del suo capolavoro filosofico, Il diritto nell’esistenza, del 1984). È la politica, invece, che creando logiche chiuse e antagonistiche di potere attiva inevitabilmente forme di aggressività e di ostilità, che nessun accordo freddamente, ancorché democraticamente procedurale, potrà mai contenere adeguatamente. Solo se si dis-centra la politica (secondo la distinzione agostiniana tra la città degli uomini e la città di Dio), solo cioè se si inquadra la politica in una logica relazionale, al cui vertice va posta l’esperienza umana della fraternità (presupposto dell’esperienza mistica della carità) è possibile, secondo Cotta, smascherare e ripudiare definitivamente la violenza, mostrandone la vera identità: che non è quella, come pensano i teorici della rivoluzione, di una prassi pseudo-salvifica che apre al nuovo nella storia, ma di un umiliante cedimento alle nostre più brutali pulsioni narcisistiche. Il libro dedicato da Cotta a questi temi, Dalla guerra alla pace, del 1989, probabilmente il più importante testo di filosofia politica italiana di quegli anni, può essere interpretato come un ammirevole e definitivo superamento filosofico degli anni della contestazione e della violenza.
15. Negli anni Settanta, Sergio Cotta prese posizioni molto ferme e inequivocabili in merito all’introduzione del divorzio e alla legalizzazione dell’aborto e si impose come protagonista delle relative campagne referendarie. Dagli avversari, e spesso anche da alcuni amici (o pseudo tali), il suo impegno contro il divorzio e contro l’aborto venne connotato come primariamente religioso e ricondotto senza mediazioni alla sua fede cattolica, da lui in tutto l’arco della sua vita mai nascosta, ma nemmeno mai esibita estrinsecamente. Per quanto indebita, l’accusa di integralismo gravò pesantemente sulla sua immagine e fu altrettanto pesantemente strumentalizzata per nascondere l’ispirazione squisitamente laica delle sue battaglie. Cotta non combatteva per l’indissolubilità del vincolo matrimoniale in quanto vincolo sacramentale, né si poneva come difensore della vita umana prenatale, adottando argomentazioni teologiche o para-teologiche, come quelle che si riassumono nell’espressione sacralità della vita. Per lui, nell’uno come nell’altro caso, si trattava di difendere non valori religiosi, ma principi giuridici, condivisibili da credenti e non credenti, purché consapevoli che il vincolo giuridico esiste per difendere le reciproche spettanze dei soggetti e non per avallare le pretese del loro arbitrio individuale. Non è la fede, ma è il diritto a istituire il matrimonio come reciproco impegno di vita comune senza termini e senza condizioni, un vincolo che solo soggetti liberi e responsabili possono se vogliono assumere pubblicamente: l’introduzione del divorzio, nella prospettiva di Cotta (e non solo nella sua, ma di tutta la severa scuola giuridica della laicissima Italia liberale post-risorgimentale) è il segno di un inaccettabile cedimento alla logica del soggettivismo. Analogamente, se il diritto legalizza l’aborto, di fatto sceglie, nel drammatico contrasto d’interesse tra la madre e il figlio, la parte del più forte, cioè, semplicemente, quella dell’ingiustizia. In un uomo, come Cotta, in cui la fermezza speculativa si accompagnava alla fermezza morale, queste ragioni erano più che sufficienti per giustificare il suo impegno nelle campagne referendarie per l’abrogazione della legge sulla divorzio prima e di quella sull’aborto poi. Non c’è alcun dubbio che né nell’una né nell’altra campagna, terminate con insuccessi inequivocabili, le sue argomentazioni riuscirono a giungere all’attenzione dell’opinione pubblica. Ma non c’è nemmeno alcun dubbio che, al di là dei due casi concreti di riferimento, esse mettevano il dito sulla piaga del diritto contemporaneo, che non è più in grado di presentarsi come giustificabile in termini di giustizia, cioè come motivato dall’esigenza di difendere e promuovere il bene umano oggettivo, come bene di tutti.
16. Il pensiero di Norberto Bobbio e quello di Sergio Cotta restano centrali nella filosofia del diritto italiana della seconda metà del Novecento. Bobbio muore nel 2004, Cotta nel 2007; ambedue si erano ritirati da tempo dalla vita pubblica. A chi hanno trasmesso o a chi è stata comunque trasmessa la loro eredità? O – ancora più radicalmente - hanno avuto un’eredità da trasmettere?
17. Difficile a dirsi. La scuola di Bobbio ha mantenuto e continua a mantenere viva la memoria del maestro, ma ne ha ingessato l’immagine, proiettando su di essa un’icona inautentica, quella di un autore legato alla tradizione di un liberalismo pacifico e tollerante: un’icona a dir poco problematica, non perché Bobbio non fosse costantemente pronto a predicare tolleranza e libertà, ma perché non aveva mai fondato, né cercato di fondare – cosa ben più grave - questi valori, in particolare negli anni in cui si fece più duro il confronto col totalitarismo sovietico e cinese, da cui egli prese sempre le distanze, ma con una timidezza esasperante (timidezza che egli cercò di riabilitare teoreticamente con il suo Elogio della mitezza, testo tanto “nobile”, quanto fumoso, apparso in volume nel 1994, quando cioè – non a caso - il crollo dell’Unione sovietica a livello internazionale e a livello interno il completo superamento degli “anni di piombo” consentivano riposizionamenti ideologici privi di rischi). Ad avviso di chi scrive resta come un fatto che l’eredità di Bobbio non è filosofica (se non per la parte in cui si voglia impropriamente assimilare la teoria generale del diritto alla filosofia del diritto), ma ideologica e che, come tale, poco dovrebbe interessare gli studiosi di filosofia. Giudizio, questo, che non dovrebbe apparire né crudo né riduttivo, ma coerente con la stessa mens di Norberto Bobbio, che nel 1960 diede alle stampe un lucidissimo Profilo ideologico del Novecento italiano: opera nella quale, fin da titolo, la filosofia è assente e appare completamente sostituita da una rigorosa disamina delle diverse visioni del mondo alle quali i relativisti – sia pur moderati, come appunto Bobbio - hanno ridotto i sistemi di pensiero.
18. Più difficile valutare l’eredità di Cotta. Uomo di incredibile probità, di estrema profondità ed eleganza argomentativa e di difficile carattere, alieno da compromessi esistenziali ed accademici (e sotto questo profilo ben lontano da Bobbio, che per garantirsi la cattedra non esitò, ben prima del crollo del regime, a scrivere una lettera umiliante a Mussolini, rivendicando i propri meriti fascisti, nonché quelli della sua famiglia), Cotta non si curò di creare una vera e propria scuola, lasciando del tutto liberi i propri allievi di seguire le loro diverse inclinazioni filosofiche, col risultato (peraltro per nulla disprezzabile) di disseminare delle proprie idee giovani studiosi attratti da S.Tommaso e da Rousseau, da Heidegger e da Freud. Propriamente egli non fu mai un vero giusnaturalista, in quanto ben poco attratto dalla teoria classica del diritto naturale e dalle più brillanti riformulazioni di questa, come quelle elaborate da Jacques Maritain, il che gli suscitò una certa ostilità negli ambienti legati al tomismo, che ostacolarono una sua chiamata all’Università cattolica di Milano, alla cattedra di Filosofia del diritto. È un fatto però che negli anni centrali della seconda metà del Novecento il suo pensiero fu assimilato alla tradizione giusnaturalista: ciò dipese soprattutto dal fatto che egli fu tra i protagonisti delle battaglie referendarie in tema prima di divorzio, poi di aborto: battaglie che il mondo cattolico lesse e portò avanti usando argomentazioni di carattere esplicitamente giusnaturalistico, cioè come battaglie radicate nella mera ragione umana e non in una prospettiva di fede. Era questa, ovviamente, la prospettiva di Cotta, ma per lui la ragione umana non andava fondata su di uno stanco concetto di natura, bensì in una prospettiva fenomenologico-strutturale, che ben a suo avviso consentiva accostamenti arditi, come quelli di Hegel e di Husserl, di Heidegger e di Wittgenstein: un raffinato fondamento che egli arrivò alla fine ad esplicitare in maniera definitiva nel già citato Il diritto nell’esistenza, ma che ovviamente il contesto referendario, con le sue inevitabili semplificazioni, non era di certo il più adatto ad accogliere. In tal modo, col passare degli anni, alla figura di Cotta si sovrappose l’immagine del filosofo del diritto cattolico: immagine che egli ovviamente non ritenne mai erronea, ma certamente non adeguatamente espressiva del suo sforzo teoretico. Ciò che del suo insegnamento resta è quindi, in definitiva, ancora abbastanza misconosciuto, anche perché, per le ragioni cui prima si è accennato, non esiste propriamente tra i suoi allievi uno che ne abbia esplicitamente e intenzionalmente raccolto il testimone.



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