Il termine Green Economy, con cui si indica la riconversione della produzione industriale all'efficienza energetica e all'utilizzo di energie rinnovabili, è diventato parte di un vocabolario globale dai primi mesi del 2009. Di fronte alle molteplici crisi – economica, alimentare e ambientale – i Capi di Stato e di Governo del G20 hanno dichiarato di voler puntare sulla "ripresa verde" per affrontare l'empasseglobale[1]. La "ripresa verde" altro non è che la fase iniziale di un processo più lungo che dovrebbe facilitare la transizione dei paesi industrializzati ad un'economia a basso consumo energetico e basse emissioni di CO2. Questa proposta, fortemente caldeggiata dal Presidente degli Stati Uniti, sembrava mettere d'accordo i politici – principalmente preoccupati per i mercati borsistici, la recessione e la crescente inflazione – con i gruppi di manifestanti che in occasione del G20 arrivavano da ogni parte del mondo per chiedere «giustizia, lavoro e rispetto dell'ambiente»[2].
A che cosa si riferiva il Presidente Obama quando, all'inizio del suo mandato, sosteneva che la Green Economy era la soluzione per la crisi economica, il degrado ambientale, la disoccupazione e la sicurezza energetica?
Si riferiva alla possibilità di ridurre le emissioni di CO2, e di promuovere la ricerca e lo sviluppo di innovazioni tecnologiche "pulite". Si riferiva all'urgenza di affrontare il problema dei cambiamenti climatici prima che l'innalzamento del livello dei mari, la perdita di biodiversità, l'aumento della temperatura colpiscano irreversibilmente le vite degli abitanti del pianeta. Si riferiva all'opportunità di ridurre la dipendenza dai paesi non democratici produttori di petrolio. Si riferiva all'esigenza di creare un nuovo modello economico basato sulla sostenibilità.
Mentre l'idea di "sostenibilità" poteva apparire lontana e indefinita, i fondamenti della società americana (libertà, democrazia, sicurezza nazionale e business), che sono minacciati dal consumo di combustibili fossili, non lo sono affatto.
Nel suo blog sul "New York Times", Thomas Friedman espone quella che chiama «la prima legge della politica del petrolio» sull'inversa proporzionalità del legame tra prezzo del petrolio e libertà: quando sale il prezzo dell'uno, diminuisce l'altra e viceversa. Friedman ricorda che il principio «No taxation without representation» della guerra di indipendenza americana si scontra con la filosofia dei paesi autoritari produttori di greggio, in cui vale la regola «No representation without taxation»[3]. Evidentemente, la pratica di chiedere in prestito un miliardo di dollari al giorno per comprare petrolio dall'estero, non solo ha danneggiato l'economia americana, ma contraddice anche lo spirito della democrazia. Questa pratica ha lentamente eroso il potere economico degli Stati Uniti, diminuendone l'influenza internazionale e mettendo in pericolo la sicurezza nazionale[4]. A meno di un anno dal decennale, ogni americano ricorda la sensazione di vulnerabilità dell'11 settembre 2001. Una simile sensazione di smarrimento e impotenza si è riproposta solo quattro anni dopo, quando uno dei più potenti uragani della storia degli Stati Uniti ha devastato la Louisiana. Gli incalcolabili danni umani ed economici provocati da Katrina hanno riportato l'attenzione sui rischi legati alla crescente emissione di CO2. Quasi a ricordare l'espressione "oltre al danno, la beffa", qualche mese prima di Katrina, il Presidente George W. Bush aveva ritirato gli Stati Uniti dalle trattative per l'attuazione del Protocollo di Kyoto affermando «lo stile di vita degli Americani non è aperto a negoziati»[5].
A soffrire la dipendenza dai combustibili fossili non sono stati "solo" la democrazia, la sicurezza nazionale e le vittime delle catastrofi naturali, ma anche l'economia. Alla crisi dei mutui del 2008 si è aggiunto il nuovo record del prezzo del petrolio, che ha causato l'aumento dei prezzi dei beni primari come il cibo, oltre a quelli dei carburanti per le auto e per il riscaldamento domestico.
Gli Stati Uniti hanno preso atto del legame tra riconversione dei modelli produttivi e crescita economica osservando la veloce crescita della Svezia, che negli ultimi tre anni ha registrato un tasso tre volte superiore a quello americano. Grazie a politiche di sussidio e all'introduzione della carbon tax, la Svezia ha incoraggiato i propri imprenditori a sviluppare nuove tecnologie per produrre energia dal sole, dal vento, dalle maree, dagli scarti agricoli e dai rifiuti, con l'obiettivo di eliminare completamente il petrolio dal proprio mix energetico entro il 2020[6].
Di fronte a questo quadro in cui i rischi e le opportunità della transizione verso la Green Economy sono chiari, che cosa hanno deciso di fare gli Stati Uniti?
Al momento del rinnovo degli accordi sul clima, gli Stati Uniti hanno perso la prima grande opportunità di mostrare la propria leadership nella promozione della Green Economy a livello internazionale. Ad un mese dalla conferenza di Copenaghen, la situazione degli accordi bilaterali sembrava quella del "cane che si morde la coda": i Cinesi avrebbero accettato una qualche forma di accordo solo se il congresso americano avesse votato un legge per ridurre significativamente le proprie emissioni, mentre il Congresso americano avrebbe votato una legge che conteneva obiettivi di riduzione solo se anche la Cina avesse fatto lo stesso. Poiché le aspettative su chi avesse dovuto fare il primo passo erano state palesate da entrambi i lati, i tentativi di trovare una soluzione comune sono falliti prima di arrivare in Danimarca.
Un più grave colpo alla Green Economy sostenuta dall'Amministrazione Obama è arrivato a luglio 2010, quando il Senato ha bocciato il decreto legge clima-energia. Tale decreto, l'American Clean Energy and Security Act, passato alla Camera nel giugno 2009, prevedeva importanti stimoli per l'utilizzo di fonti rinnovabili e obiettivi di riduzione del 17% entro il 2020 (usando come anno di riferimento il 2005). L'elemento centrale della legge era il "cap-and-trade", una normativa di limitazione delle emissioni (cap/limite) che prevede il commercio (trade) delle quote consentite (allowances) per permettere alle imprese di raggiungere il "tetto" stabilito in modo flessibile.
Tuttavia, a causa del mancato appoggio di sette Senatori repubblicani, quella che doveva essere la promessa di un'industria nuova in grado di creare milioni di posti di lavoro e rendere l'energia pulita la forma più conveniente di energia si è trasformato in uno dei più grossi fallimenti dell'"Era Obama". Molti ambientalisti attribuiscono la colpa al Presidente che non ha saputo mettere in relazione il disastro ambientale provocato dall'esplosione della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico (aprile 2010) con la necessità di ridurre le emissioni di CO2. Nel 1969, dopo una fuoriuscita di petrolio a Santa Barbara di entità molto minore, Richard Nixon creò l'Agenzia per la Protezione dell'Ambiente (Environmental Protection Agency, US-EPA) e firmò la prima legge federale per ridurre l'inquinamento atmosferico, il Clean Air Act. Alcuni giustificano la mancata leadership, sostenendo che, dopo la riforma sanitaria, sarebbe stato incauto per il Presidente esporsi su un altro fronte che contraddice un principio fondante del modus vivendi americano: il consumo senza limiti.
Eppure, dall'esterno, pur riconoscendo i moventi che hanno frenato la politica di transizione verso la Green Economy, il passo per regolare a livello federale quanto già esiste nei singoli stati sembra breve. A livello statale esistono diverse iniziative, che per essere efficaci, dovrebbero essere coordinate da Washington D.C.:
- 46 stati offrono una qualche forma di incentivo sulle tasse per incoraggiare le imprese e i residenti ad utilizzare energia rinnovabile e adottare sistemi ed attrezzature energeticamente efficienti;
- 33 concedono prestiti agevolati per l'acquisto di energia rinnovabile e strumentazioni energeticamente efficienti per il settore residenziale, commerciale e industriale;
- 22 offrono programmi di rimborso per le spese di installazione di pannelli solari e pannelli solari termici;
- 29 hanno già adottato i "Renewable portfolio standards", programmi su base statale che chiedono alle utilities di ottenere una certa percentuale dell'elettricità che vendono dalle energie rinnovabili;
- 29 hanno stabilito standard di efficienza energetica per la produzione, la trasmissione e l'uso di energia elettrica;
- 14 hanno adottato standard di emissioni per i veicoli, che permettono agli stati di richiedere ai produttori di automobili di ridurre l'impatto delle vetture fabbricate[7].
A livello federale, i due principali dibattiti in corso riguardano l'adozione di un "Renewable portfolio standards" su base nazionale e lo sviluppo del cap-and-trade.
L'introduzione di un "Renewable portfolio standards" nazionale richiederebbe ad ogni stato di produrre una percentuale – circa il 25% – dell'energia venduta ai propri cittadini da fonti rinnovabili. Una politica federale di questo tipo incoraggerebbe la competizione tra i produttori di rinnovabili ed incentiverebbe i produttori di elettricità a raggiungere i propri target nel modo più economicamente efficiente. Tuttavia, il maggiore ostacolo è costituito dall'armonizzazione dei diversi standardstatali, poiché ogni stato utilizza diverse definizioni di "rinnovabili", diverse percentuali e diverse regole. Anche se una legge nazionale eliminerebbe le ambiguità e le controversie tra stati e aumenterebbe la prevedibilità del quadro regolatorio, alcuni stati oppongono resistenza, in quanto temono che un mandato federale potrebbe aumentare i prezzi e creare "vincitori e vinti" a causa della diversa distribuzione delle risorse tra regione e regione.
Per quanto riguarda il cap-and-trade, dopo il fallimento dell'American Clean Energy and Security Act l'unica speranza resta la California, dove il Governatore Schwarzenegger ha emanato una legge, il California's Global Warming Solutions Act, che prevede obiettivi di riduzione delle emissioni prodotte dalle centrali elettriche, dalle fabbriche e dai veicoli ai livelli del 1990 entro il 2020. Tuttavia, anche questa unica speranza è stata messa in dubbio dalla Proposition 23 che chiede di sospendere la legge del 2006 fino a quando il tasso di disoccupazione della California non scenderà al 5,5% per un intero anno (attualmente il tasso di disoccupazione è superiore al 12%). Questa proposta è stata formulata da due compagnie petrolifere texane che stanno finanziando una campagna contro l'attuale legge per evitare di installare meccanismi di controllo delle proprie emissioni. In risposta a questa offensiva, il Governatore Schwarzenegger ha ricordato che il tasso di disoccupazione della California raramente è stato sotto il 5.5% negli ultimi quarant'anni per un intero anno e che l'intento dei sostenitori della Proposition 23 è chiaramente quello di boicottare una legge volta a creare nuovi posti di lavoro, al fine di poter continuare ad inquinare[8]. A fine novembre 2010 ci sarà un referendum in California per decidere se accogliere la Proposition 23. Oltre a chiedermi se i Californiani pensano davvero che le compagnie petrolifere siano interessate a creare posti di lavoro, mi chiedo anche se sono consapevoli dell'importanza della loro decisione per l'intero paese (e per il mondo).
I professori della Columbia University pensano che, dopo il fallimento del decreto clima-energia di luglio, gli Stati Uniti abbiano il 50% delle possibilità di avere una legge che limiti le emissioni di gas ad effetto serra. Vista l'importanza della California nelle scelte di politica interna, se il Global Warming Solutions Act viene emendato dalla Proposition 23, questa percentuale scende al 10%. Come già menzionato, senza una legge sui cambiamenti climatici, gli Stati Uniti non potranno convincere le economie emergenti ad adottare misure per ridurre l'inquinamento atmosferico e la Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici continuerà a negoziare mere dichiarazioni di principio.
La transizione alla Green Economy richiede l'impegno dei politici, delle imprese e dei cittadini. Si tratta innanzitutto di cambiare il proprio modo di pensare e di agire. Per affrontarne le sfide e sfruttare le opportunità di questa transizione, mercato e politica si devono incontrare: il mercato, senza il supporto dei governi, non può operare questo cambiamento (come invece alcuni credono).
Analizzando il caso degli Stati Uniti, ho cercato di mettere in luce la complessità di approvare leggi che limitano lo "stile di vita occidentale", basato sull'errato assunto che l'energia sia abbondantemente disponibile a basso prezzo.
Come dice Friedman, si può biasimare il Presidente Obama per aver passato troppo tempo a leggere i sondaggi, invece che occuparsi di cambiarli. Si possono biasimare i Repubblicani, che non si sono nemmeno chiesti se supportare una legge che riguarda anche la salute dei loro nipoti. Si possono biasimare i democratici per essere stati così poco coordinati. Si possono biasimare le lobby petrolifere che hanno speso milioni per sovvertire l'unica legge lungimirante sul clima in atto negli Stati Uniti. La verità è che gli americani hanno un'opinione confusa sui cambiamenti climatici e, per questo, non si mobilitano per difendere le leggi.
Citando l'ambientalista Rob Watson, Friedman scrive: "Madre Natura è solo chimica, biologia e fisica. Nulla di più. Non puoi dirle parole dolci o prenderla in giro. Non puoi dirle che le compagnie petrolifere pensano che i cambiamenti climatici siano una truffa. Madre Natura farà quello che la chimica, la biologia e la fisica le dicono di fare. Ma soprattutto ha sempre l'ultima parola"[9].
Queste parole mi hanno ricordato quelle di Debra White Plume della tribù dei Lakota, durante una lezione di etica ambientale nella mia classe (7 Ottobre 2010). Mentre ci raccontava gli abusi che le multinazionali compiono nelle riserve degli Indiani d'America, che rischiano l'estinzione a causa dei rifiuti delle miniere di uranio, diceva "do not mess with Mother Nature" (non scherzare con Madre Natura).