Negli ultimi anni il dato di povertà relativa nel nostro paese – che viene annualmente rilasciato dall’Istituto nazionale di Statistica – è rimasto sostanzialmente stabile nel nostro paese.
Al di là delle apparenze, non è una buona notizia: segnala l’assenza di politiche specifiche di contrasto al fenomeno, l’inefficacia delle politiche sociali del nostro paese, la mancanza di un disegno complessivo di riforme orientate alla promozione dei ceti più fragili.
Ci dice anche del tendenziale fallimento della aspirazione dei nostri padri costituenti di costruire un sistema istituzionale in grado di garantire a «tutti i cittadini [...] pari dignità sociale [...] senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» tale da riuscire a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti [...] all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3). La questione povertà, infatti, non è una pandemia o un disastro naturale, ma è un test per verificare se è in atto una deriva verso un'idea meramente procedurale di democrazia. Per questa ragione la questione povertà è fondamentale per valutare lo stato di salute di un paese democratico: la sua ampiezza è un indicatore della capacità di presa in carico di cittadini senza rappresentanza politica, non in grado di farsi valere sul piano elettorale.
Il nostro paese non ha messo in campo politiche di contrasto alla povertà: in particolare risalta la completa assenza di una misura nazionale di sostegno al reddito delle famiglie in condizioni di povertà, a differenza di quasi tutti i paesi dell’Unione Europea.
La povertà in Italia secondo i dati Istat
Prima di addentrarci sulle ragioni di questa inerzia, tentiamo di capire le dimensioni di questo fenomeno: nel 2008, l'Istat ci ricorda che 2 milioni e 737 mila famiglie sono sotto la soglia della povertà relativa (cioè con una capacità di spesa mensile per 2 persone inferiore a 999,67 euro) pari all'11,3 % delle famiglie residenti.
Inoltre, da quest'anno, l'Istat ha ripreso a fornire il dato di povertà assoluta. La soglia di questo indicatore rappresenta la spesa minima necessaria per acquisire i beni ed i servizi inseriti in un paniere di beni considerati necessari. Questa soglia varia in base non solo alla composizione della famiglia (come nel caso dell'indicatore relativo), ma anche in base alla ripartizione geografica ed alla dimensione del comune di residenza.
Questa costruzione definisce quindi non una soglia unica nazionale, ma tante soglie differenziate per composizione familiare e per collocazione territoriale. Nel 2008 il numero delle famiglie al di sotto di questa soglia ammonta a 1.226.000, vale a dire il 4,9% della popolazione, con un incremento rispetto al 2007 dello 0,8%. Per quanto riguarda le tipologie familiari presenti sono quelle delle famiglie numerose, in particolare quelle con figli minori, nonché quelle con persona di riferimento dotata di un basso livello di istruzione e con il produttore di reddito “operaio o assimilato”. Inutile dire come emerga drammaticamente la condizione delle “famiglie senza occupati né ritirati dal lavoro” che rappresentano quasi il 20% dei soggetti familiari in povertà assoluta, tutto questo prima della crisi economica.
Povertà relativa e disuguaglianza
La povertà relativa ci dà soprattutto il dato del livello di disuguaglianza presente nel nostro paese. Su questo aspetto ci dà indicazioni importanti anche l’indagine biennale di Banca di Italia sulla ricchezza delle famiglie italiane. Il supplemento al Bollettino statistico sulla ricchezza delle famiglie pubblicato nel dicembre 2009 segnala che una minoranza del 10% degli italiani detiene il 44% della ricchezza complessiva. La distribuzione della ricchezza è caratterizzata, quindi, da un elevato grado di concentrazione: molte famiglie detengono livelli modesti o nulli di ricchezza mentre poche dispongono di una ricchezza elevata.
Le informazioni sulla distribuzione della ricchezza – desunte dall'indagine campionaria sui bilanci delle famiglie italiane – indicano che nel 2008 la metà più povera delle famiglie italiane deteneva il 10 % della ricchezza totale, mentre il 10 % più ricco deteneva il 44 % della ricchezza complessiva. Una situazione della distribuzione dei redditi che ci avvicina più ai paesi in via di sviluppo che alle democrazie occidentali e che, di per sé, dovrebbe porre una questione di una nuova politica dei redditi.
Ma quello che i dati Istat relativi al 2008 – lodevolmente presentati già nel luglio scorso, in anticipo rispetto agli anni precedenti – e Banca di Italia non ci dicono sono gli effetti della crisi economica. Più volte il Governatore di Banca Italia Draghi ha segnalato l’insufficienza del sistema di ammortizzatori sociali italiano, sia per quanto riguarda le tutele dei lavoratori, che le tutele di carattere sociale, a fronte di una fragilità crescente dei redditi delle famiglie italiane poste nelle posizioni più basse della distribuzione della ricchezza.
Ma quello che ancora non ci dicono i dati ufficiali sono le quantità di povertà cosiddette estreme, non solo persone senza dimora o immigrati non regolari, ma anche quelle che hanno trovato una sistemazione nel sistema di assistenza e che non hanno una propria residenza: una parte di nostri concittadini di fatto irrilevanti non solo per le politiche, ma anche per le statistiche ufficiali.
Un welfare categoriale e inefficace
I limiti del nostro sistema di protezione sociale sono noti agli esperti e ad una parte, più avvertita , di decisori politici. Le questioni più rilevanti sono:
- una rete di servizi disuguale territorialmente, con conseguente difformità di entità e di qualità di risposte sociali;
- un impianto categoriale delle tutele esistenti;
- una tendenza a interventi di tipo episodico, da parte dei governi, commisurati alle risorse disponibili e non a una logica progressiva e incrementale di costruzione di un sistema coerente di welfare.
Ma da quanto tempo sono chiare le diagnosi in questo ambito e perché non si è e non si è stati in grado di affrontare con razionalità questo fenomeno?
Non si tratta di un problema di conoscenza
In realtà dal Rapporto della Commissione Vigorelli[1] del 1951 in poi, passando attraverso la Commissione Gorrieri[2] (1985) e i diversi Rapporti della Commissione di Indagine sull’esclusione sociale, nonché le conclusioni della Commissione Onofri[3], le strategie di potenziale contrasto sono sufficientemente chiare.
Si tratta di rimodulare gli interventi economici esistenti e reperire risorse aggiuntive per la spesa non genericamente sociale, ma per l’assistenza, al fine di infrastrutturare soprattutto le regioni del sud di reti di servizi che possano intercettare i bisogni e dotarsi di un reddito minimo per le famiglie senza sufficienti risorse economiche. Per dirlo con le parole del Rapporto Gorrieri vi è la necessità di una «razionalizzazione delle misure di redistribuzione del reddito a fini sociali, da attuarsi […] con l’unificazione di una pluralità di prestazioni in un assegno sociale, avente funzione di integrazione dei redditi minimi»[4].
Tutto questo ha bisogno di una scelta politica decisa e di un consenso sociale da costruire. Per queste ragioni i governi della cosiddetta seconda Repubblica hanno aggirato l’ostacolo portando avanti misure occasionali commisurate alle risorse disponibili: cioè hanno sprecato risorse non costruendo tutele o diritti, ma offrendo piccole somme di denaro una tantum.
La sperimentazione del Reddito minimo di inserimento (R.m.i.)
Vi è stato un tentativo di introdurre il R.m.i. nel nostro paese: questo è stato introdotto in forma sperimentale nella legge finanziaria del 1998. Si voleva verificare le condizioni di fattibilità finanziaria ed organizzativa di tale istituto in una realtà caratterizzata da forti differenze territoriali e significative concentrazioni territoriali della povertà. La sperimentazione venne avviata in 39 Comuni (6 del nord, 11 nel centro e 22 nel sud), individuati sulla base di un'indicazione dell’ISTAT, coerente con gli indicatori generali di disagio e povertà. Fu previsto un termine biennale e fissato un budget di 500 miliardi di vecchie lire. I destinatari sono stati quindi soggetti residenti nei comuni interessati da almeno 12 mesi, con reddito non superiore alla soglia di povertà individuata in £ 500.000 mensili per una persona sola (con una maggiorazione per nuclei plurimi in base a una “scala di equivalenza”). L’opzione prioritaria era data per i nuclei con figli minori o handicappati, con una previsione di estensione a cittadini extracomunitari o apolidi residenti da almeno 3 anni. Per quanto riguarda i non occupati vi era l’obbligo di frequentare corsi di formazione professionale, all’interno di percorsi di reinserimento concordati con gli operatori sociali degli enti locali. Era prevista la possibilità di autocertificazione sul possesso dei requisiti soggettivi e di rinnovo dell’erogazione ove permanevano le condizioni di assistibilità.
La sperimentazione è stata valutata, per la prima volta nel nostro Paese, da un istituto indipendente, che ha lavorato a stretto contatto con il Dipartimento Affari Sociali e con la Commissione di indagine sull’esclusione sociale. Il Rapporto di valutazione è stato consegnato al Governo nel giugno 2001. Tale Rapporto avrebbe dovuto essere trasmesso – secondo la previsione legislativa – dal Governo alla Commissione parlamentare competente. Ma il Ministero del Welfare – guidato allora da Roberto Maroni – non ha ritenuto di adempiere a questo obbligo di legge. Si è determinato così l’ennesimo paradosso italiano, per cui un documento scientificamente elaborato con una valutazione sull’attuazione di un nuovo istituto è rimasto inutilizzato, sia a livello nazionale, sia a livello locale.
La seconda sperimentazione e l’abbandono della sperimentazione
La seconda fase di sperimentazione, che ha riguardato ben 396 comuni e 200 mila persone, si è svolta in un contesto irrazionale: le amministrazioni comunali hanno dovuto ricominciare da capo senza potersi giovare di quanto già acquisito nell’esperienza precedente. Il Rapporto conteneva una dettagliata sezione dedicata all’organizzazione tecnico-amministrativa dell’istituto: nessuno se ne è potuto avvalere. La fine dell’impresa è stata decretata, con la legge finanziaria 2003, che ha decretato la fine della sperimentazione.
Le motivazioni formali dell’interruzione, invero confuse, vanno integrate con altre ragioni, che non hanno avuto rilievo pubblico e che tuttavia conviene considerare perché probabilmente costituiscono il vero nodo del problema. Sopratutto da diverse prese di posizione di esponenti del governo emergono le ragioni per cui si dubita dello strumento del Reddito minino. Se ne può fare un elenco:
- i richiedenti impropri e l’utilizzo clientelare dello strumento da parte degli amministratori locali;
- i rischi di trappole di povertà che invischiano i percettori in meccanismi assistenzialistici, deresponsabilizzanti e cronicizzanti la loro condizione di bisogno;
- l’inefficacia nel reinserire i percettori, anche per la debolezza dei sistemi locali di assistenza sociale e – soprattutto – dei mercati del lavoro.
Se si considerano questi fattori ne deriva l’esigenza di un lavoro di medio periodo di rafforzamento strutturale della rete pubblica dei servizi sociali, di maggiore capacità professionale degli operatori in senso progettuale e non di mera erogazione, di promozione di politiche attive del lavoro.
In molte regioni italiane, specie al centro sud e nei piccoli comuni, non esiste o è debolissima la rete pubblica di servizi sociali di base: anche questo ha fatto emergere la sperimentazione. La consapevolezza dell’esistenza di cattive pratiche amministrative, di un’Italia della legalità ancora da costruire, non giustifica la conclusione che non si possa o si debba lavorare per la legalità, anche attraverso uno strumento che dà cittadinanza sociale.
Uno degli effetti ottenuti al sud è stato quello di famiglie, beneficiate dal R.m.i. di inserimento, che hanno cominciato – fosse anche per mera contropartita richiesta dagli operatori sociali, all’erogazione dell’assegno – a prendersi a cuore l’istruzione dei propri figli, riducendo l’evasione scolastica. In generale il vedersi riconosciuti come cittadini ha innescato piccoli percorsi di promozione, di fuoriuscita dalla marginalità, di consapevolezza dell’esistenza di un potere, quello statale, rispetto alla presenza invasiva – in particolare al sud – del potere criminale.
Ora, se il R.m.i. non è inteso come parte di un processo di lotta alla povertà, di costruzione della cittadinanza, di presenza di legalità nel territorio, sul piano simbolico e concreto, non se ne capisce il senso. Ma la ragione più forte (ed inconfessata, che attraversa tutte le forze politiche) di perplessità verso la generalizzazione dell’istituto del R.m.i. a livello nazionale, è quella del rischio dell’esplosione della spesa pubblica.
La realtà di regioni meridionali nelle quali gli aventi diritto potenziali raggiungono proporzioni inquietanti, tali da impensierire qualsiasi ministro dell’economia, rappresenta un freno alla sua realizzazione, quale che sia l’orientamento politico dei governi. La stima minima, operata al tempo dagli istituti di valutazione, ha calcolato in 4.300 miliardi di lire, il fabbisogno economico per la generalizzazione del provvedimento: la finanziaria 2002 ha stanziato la stessa cifra per l’adeguamento ad un milione di lire delle pensioni minime. C’è materia per evocare la traccia di un possibile conflitto tra generazioni, ma qui basta sottolineare soltanto che si tratta di individuare soprattutto le priorità di politica sociale.
Federalismo e povertà
In questo senso è ancora più chiara la volontà di impedire processi di costruzione di diritti a livello nazionale, scegliendo una interpretazione della Riforma costituzionale del Titolo V, che dà la piena potestà legislativa alle regioni, in materia di assistenza sociale, tale da considerare incostituzionale forme di tutele sovraregionali. Non si tratta di un genuino regionalismo, ma di una scelta consapevole di costituzionalizzare le disuguaglianze: le regioni che potranno permettersi forme di sistemi avanzati di tutela sociale le garantiranno ai propri cittadini, le altre dovranno limitarsi nella spesa: tutt'altro rispetto alla rimozione degli ostacoli prevista dall’art. 3.
L’immagine dei poveri: la pietà o la forca
D’altro canto vecchi stereotipi si sono riaffacciati sulla ribalta dell’informazione. Semplificando si assiste ad una narrazione della povertà o pietistica e decontestualizzata, che non evoca le responsabilità pubbliche e collettive, o stigmatizzante tale da descrivere i poveri come immeritevoli, violenti e insolenti, migranti, senza dimora, zingari o prostitute che siano.
Il binomio povertà e sicurezza ha ripreso vigore tale da rappresentare uno degli obiettivi più frequenti della normazione comunale sul decoro e della legislazione nazionale, attraverso ad esempio la stigmatizzazione legislativa del cosiddetto clandestino. Il dibattito sul pacchetto sicurezza, termine coniato dal Ministro dell’Interno Giuliano Amato e realizzato dal Ministro Roberto Maroni, è un catalogo significativo per comprendere lo stato della questione, trasversale alle forze politiche di maggioranza e di minoranza.
Il magistero della paura o la pietà a basso costo, incapace di mostrare i processi che rendono marginali persone che sono – in base al nostro ordinamento e a quello internazionale, comunque portatori di diritti e di tutele – certo non creano le precondizioni per un discorso pubblico sulla povertà capace di innescare processi di cambiamento.
Costruire consapevolezza e consenso per politiche sociali adeguate
Realizzare un nuovo modello di welfare non si è una scelta indolore sul piano delle finanze pubbliche. Indicherebbe una priorità di politica economica, che orienterebbe in senso fortemente redistributivo le risorse prelevate attraverso la fiscalità generale. Tutto questo dopo anni di mitizzazione della necessità di ridurre il prelievo fiscale, ignorando che nel nostro paese si preleva sul lavoro dipendente e – come ci dicono i dati di Banca di Italia – si ridistribuisce verso il lavoro autonomo, in maniera diretta e indiretta. Chiaramente – soprattutto in fasi recessive – tutto questo lascia aperta la domanda se il sistema sia in grado di reggere in presenza di un aumento degli aventi diritto.
Insomma si avrebbe bisogno di una classe politica lungimirante e di un paese in grado di comprendere che la partita in gioco è quella della democrazia effettiva del paese.
Si deve, quindi, ripartire da un assunto di fondo: narrare le povertà è, innanzitutto, rendere possibile un discorso pubblico su di esse. Non solo per fornire risposte, ma per interrogarci collettivamente sui processi che le generano, sulle cause che dovrebbero essere rimosse – secondo la previsione costituzionale – sulla responsabilità e capacità dei diversi attori sociali e istituzionali, così come sono, a sviluppare pratiche di contrasto.
Le povertà rese osservabili dovrebbero essere assunte come un test impegnativo a cui sottoporre ogni comunità, a tutti i livelli territoriali, per verificarne l'effettiva democraticità, vale a dire la capacità non solo nominale di riconoscere i diritti individuali e sociali dei suoi membri, ma di garantirli anche ponendo in essere politiche di inclusione.
Le conseguenti scelte di costruzione di interventi e di politiche dovrebbero, quindi, vedere una duplice cornice: una comunità locale attenta e responsabile, nonché una modalità di applicazione capace di valutare gli esiti degli interventi, per riprogrammarli in maniera sempre più efficace in un circuito virtuoso, capace non solo di migliorare la qualità degli interventi, ma di costruire progressivamente responsabilità condivise.
Quale società vogliamo
Quindi, cosa dovrebbero misurare gli indicatori statistici, dovremmo chiedercelo una volta stabilito quale società vorremmo avere.
A volte si ha la sensazione che oltre all'incomprensione dei metodi, vi sia stato uno slittamento dal tema di fondo di cosa sia in concreto una società giusta, sana, desiderabile dal fronte della riflessione socio-politica, a quello della valutazione riguardo all'adeguatezza dei metodi di costruzione degli indici di povertà. Come se l'afasia in termini di elaborazioni politiche, dopo il tramonto delle grandi ideologie del '900 cercasse una compensazione dialettica nella discussione sulle metodiche. Riaprire un discorso pubblico sui temi della disuguaglianza e delle povertà – e la drammatica contingenza della crisi economica può rendere opportuno questo tempo, sull'idea di società giusta che vorremmo realizzare – è la questione effettiva dalla quale ripartire. Le scienze sociali possono accompagnare simili questioni, non risolverle. Se una società per essere giusta deve essere meno diseguale, non sarà l'indice di povertà relativa a suggerircene la misura. Il sogno di una società accogliente, necessita, per realizzarsi non solo di un adeguato impianto legislativo, ma di comunità territoriali che si assumono l'impegno – ogni giorno, in ogni luogo, in ogni comportamento – di inverare l'accoglienza, in un processo che non trova mai il suo termine; grazie a motivazioni, competenze, stili e modelli organizzativi credibili e diffusi. Questa è la sfida che sta racchiusa in un'idea non procedurale di democrazia e che il teologo liberale statunitense Reinhold Niebuhr (1892-1971) riassumeva affermando «La democrazia è necessaria perché l'uomo è capace di male, è possibile perché l'uomo è capace di bene».