Università e globalizzazione. La crescita dell’interdipendenza planetaria correlata ai processi di globalizzazione ha provocato una trasformazione, spesso profonda, dei contesti all’interno dei quali si trovano ad operare molte organizzazioni e istituzioni economiche, politiche e culturali. Tale mutamento ha talvolta reso necessario, oltre ad un cambiamento delle strategie volte al perseguimento di finalità tradizionali, anche una radicale ristrutturazione organizzativa e l’individuazione di nuovi obiettivi rispetto al passato. In che misura tali processi hanno investito il sistema universitario?
CIROTTO: Per amore di chiarezza, desidero premettere un avvertimento alle risposte che mi accingo a dare. Essendo frutto di esperienze e considerazioni personali, esse non potranno non riferirsi al mio caso particolare, quello di un biologo che ha dedicato alla ricerca e all’insegnamento la quasi totalità della vita. D’altra parte, questo è l'unico occhio di cui dispongo per guardare ai problemi della nostra Università. Quanto al rapporto sistema universitario-globalizzazione, fino a non molto tempo fa, e comunque prima della riforma universitaria, era diffusa la convinzione che la preparazione dei nostri laureati fosse nettamente superiore a quella dei laureati di altri paesi, Stati Uniti compresi. In effetti, la preparazione data dalle università italiane si basava sul criterio di fornire allo studente un tale patrimonio di strumenti conoscitivi da renderlo capace, una volta terminati gli studi, di svolgere tipi diversi di lavoro semplicemente aggiungendo alla propria preparazione di base un numero limitato di ulteriori conoscenze specialistiche.
Questa impostazione degli studi universitari presentava, ovviamente, sia aspetti positivi che negativi. Tra quelli positivi spiccavano la duttilità mentale, intesa come disponibilità ad adattarsi alle nuove situazioni lavorative e la capacità di affrontare in modo creativo il lavoro stesso grazie all’apertura mentale fornita dalla preparazione di base. Tra gli aspetti negativi c’erano l’elevato numero di coloro che rinunciavano agli studi prima di conseguire la laurea ed i tempi mediamente più lunghi del dovuto impiegati da coloro che arrivavano a laurearsi.
I caratteri negativi si sono poi ingigantiti a seguito della caduta delle barriere nazionali in ambito europeo e, più in generale, del processo di globalizzazione che sta coinvolgendo l’intero pianeta. I tempi lunghi di preparazione e l’elevata percentuale di abbandoni non sono stati più compatibili con le richieste di un mercato del lavoro sempre più nervoso e competitivo che preferisce laureati da inserire immediatamente nel circuito a laureati in possesso di preparazioni più sofisticate ed ampie. A peggiorare la situazione si è aggiunta anche la concorrenza delle università di altri paesi che tradizionalmente preparano gli studenti conformemente alle richieste del mercato. Le università di stampo anglosassone, ad esempio, accanto a laureati con ampia e solida preparazione culturale, licenziano anche laureati capaci di inserirsi subito nel mondo del lavoro dopo una preparazione meno impegnativa. I neo-laureati italiani si sono, quindi, trovati a competere con laureati stranieri più giovani e non bisognosi di ulteriori periodi di apprendimento.
La nostra Università ha fatto fronte a queste difficoltà introducendo nei suoi ordinamenti didattici la cosiddetta formula ‘3+2’.
GENTILI: Nessuna entità né collettiva, né organizzata, né completamente a sé sfugge all’inesorabile processo di globalizzazione, tanto più l’Università che è il luogo ove le future classi dirigenti si formano. Il sistema universitario rappresenta il motore della conoscenza e dovrebbe costituire l’avanguardia dei processi di trasformazione della nostra società proprio perché sede del sapere e della formazione. L’interdipendenza è nel sapere dinamico, correlato alle tendenze che si affermano a livello globale. Questo è dimostrato dai nuovi insegnamenti e dalla necessità più volte espressa di ripensare i corsi di laurea anche secondo le esigenze del mondo produttivo ed industriale, proprio alla luce dei cambiamenti veloci che forse per primo avverte il sistema delle imprese, perché esposto ogni giorno alla concorrenza mondiale.
LENZI: L’Università è storicamente una istituzione globale sia perché cerca di rappresentare tutti i saperi sia perché, fin dalla sua origine nel medioevo, ha sempre avuto carattere transnazionale. Basti ricordare che gli studenti (clerici vagantes) si spostavano tra i vari atenei europei per poter ascoltare le lezioni dei migliori maestri disponibili. Inoltre l’istituzione universitaria rappresenta un modello di organizzazione del sapere e della sua trasmissione affermatosi su scala planetaria. Non esistono paesi con un minimo grado di sviluppo che possono prescindere dall’avere delle università e dal fatto che le loro università siano inserite in un contesto internazionale, indipendentemente dalla ideologia dominante in quel paese in quel determinato momento storico. La stessa globalizzazione del pianeta è stata resa possibile non soltanto dallo sviluppo economico ma, anche e soprattutto, dalla presenza di una élite alla cui formazione, nel volgere del tempo, l’Università ha sempre più e sempre più democraticamente contribuito, rafforzandone o creandone la vocazione transnazionale. Per chi siede su un banco universitario il mondo è già o è sempre stato globale. Per questo non credo che la missione dell’Università sia cambiata radicalmente in questi anni e neanche che sia necessaria alcuna rifondazione del modello universitario che, come ho detto, è storicamente vincente proprio perché globale. Di qui deriva ovviamente, nella società contemporanea e specie a livello italiano, l’inderogabile esigenza, più volte e ad alta voce affermata dal nostro stesso sistema universitario, di improcrastinabili investimenti e di mirate incentivazioni necessarie a riaccendere, dove necessario, e soprattutto a potenziare e a rendere nella prassi efficace e incisiva quella vocazione internazionale senza la quale non ha senso una universitas studiorum. Infine, un contributo all’internazionalizzazione del nostro sistema universitario può essere dato da un utilizzo delle procedure di telematizzazione dell’apprendimento che rappresentano, se utilizzate in modo da integrarsi alla didattica tradizionale, uno strumento che l’Università deve sapere gestire e orientare, accettando la sfida dell’innovazione senza derogare alla qualità della formazione.
MODICA: Vorrei fare solo due semplici osservazioni. Da un lato la globalizzazione ha investito il mondo universitario ben prima di quanto sia accaduto con la società nel suo complesso e con il mondo produttivo in particolare. L’idea che le università facessero parte di un sistema transnazionale, che la ricerca non avesse confini, che il confronto e la competizione tra i risultati della ricerca avvenisse su scala planetaria si è sviluppata da decenni se non da secoli. E’ quasi consustanziata con il concetto stesso di Università come si è formato nel Medioevo europeo. In fondo il movimento dei professori e degli studenti tra le università medievali europee anticipa su scala continentale temi della globalizzazione planetaria a cavallo tra XX e XXI secolo, così come la corrispondenza internazionale su temi di ricerca che caratterizza l’attività degli scienziati e degli umanisti del periodo rinascimentale e, qualche secolo dopo, la nascita e lo sviluppo delle riviste scientifiche aperte ai contributi dei ricercatori su singole discipline indipendentemente dalla loro provenienza geografica e dalla lingua utilizzata. Quindi, da questo punto di vista, l’interdipendenza planetaria correlata agli attuali processi di globalizzazione ha toccato meno profondamente le attività istituzionali delle università, e in particolare la ricerca, di quanto sia successo per le attività economiche delle nazioni. Semmai è il web, la rete ad accesso orizzontale e globale che unisce tra loro milioni di computer e quindi di depositi di conoscenza, ad aver profondamente mutato le forme e le modalità dell’accesso al sapere per miliardi di persone, abbattendo ogni frontiera, non solo quelle tra gli Stati. Poiché l’accesso al sapere, in tutti i suoi significati, è proprio uno dei ruoli cruciali giocati da secoli dalle università, a mio giudizio è questa risorsa tecnologica innovativa l’aspetto dell’interdipendenza planetaria che ha avuto il maggiore impatto sulla vita delle università, dei professori e degli studenti in tutto il mondo. Ma è un discorso diverso dalla globalizzazione intesa nel suo significato più comune.
Da un altro lato una delle caratteristiche più importanti della globalizzazione, cioè la delocalizzazione produttiva, ha effetti molto marginali sulla più tipica delle attività universitarie, cioè l’alta formazione dei giovani. Nel senso che ancora oggi, salvo casi sporadici, tutte le università in tutti i Paesi del mondo si fondano sull’attirare gli studenti a seguire i corsi dei propri professori e non sulla delocalizzazione degli insegnamenti e dei docenti alla ricerca degli studenti, là dove sono più abbondanti e magari più preparati o più motivati. Mi sembra quindi che l’attività didattica universitaria tenda a concentrarsi nei centri del sapere e che siano gli studenti – si pensi al successo straordinario del programma europeo ERASMUS – coloro che si delocalizzano. Se si vuole usare la metafora economica, che però appare particolarmente inadatta e persino scorretta nel descrivere i fenomeni universitari, le attività di produzione della formazione si concentrano nei Paesi più ricchi e di maggior potenza scientifica e richiamo culturale e, in essi, nelle migliori università, mentre il bene “studente”, questa sorta di semi-lavorato che entra nel processo formativo e ne è soggetto/oggetto, viene acquistato, cioè reclutato, su scala globale, almeno in linea di principio. Allo stesso modo il prodotto finito, cioè il laureato, viene reso disponibile al mercato del lavoro su scala globale e deve essere formato per affrontare questo immenso mercato. Ma anche questa non appare una vera novità per le università che, come dicevo prima, hanno sempre impostato i loro percorsi formativi sulla base di esigenze non strettamente territoriali ma almeno nazionali (si pensi al valore legale dei titoli di studio) e quasi sempre anche internazionali, almeno per le discipline che aprono mercati internazionali del lavoro, in virtù dei legami da sempre esistenti con il sistema universitario transnazionale.
In conclusione mi sembra di poter dire che i processi di globalizzazione debbano essere letti in modo molto specifico per il sistema universitario, da un lato comprendendo che non costituiscono una reale novità in tale sistema, dall’altro valutando il loro impatto più sul lato dell’innovazione formativa – necessaria anche se spesso sopravvalutata da questo specifico punto di vista – che su quello della missione degli atenei e della loro ristrutturazione organizzativa.
Competitività del “Sistema Paese” e finalità sociali del sapere. Si parla molto della necessità di realizzare una maggiore integrazione tra Università e impresa. A tale proposito mi pare che si insista, da un lato, sull’esigenza che l’Università si sintonizzi meglio con il mondo del lavoro, rispondendo in maniera più adeguata alla domanda che proviene da esso e, dall’altro, che contribuisca, attraverso l’innovazione tecnologica e la formazione delle “risorse umane”, ad accrescere la competitività del “Sistema Paese”. Se ciò è vero, ho l’impressione che si pongano almeno due problemi. Innanzi tutto, come si coniuga il tentativo di ancorare l’Università al destino dell’“azienda Italia” con il fatto che in molti settori scientifici la ricerca ha sempre di più un’“infrastruttura” transnazionale? Inoltre, spesso sembra che l’ideale a cui si guarda sia quello di un’Università al servizio dell’impresa. Dobbiamo rassegnarci all’imporsi di tale paradigma o è possibile individuare altre finalità sociali del sapere universitario?
CIROTTO: È opportuno ricordare che l’“azienda” Università è in grado di fornire due distinte tipologie di “prodotti”: la conoscenza e le sue applicazioni. Per antica tradizione è l’ampliamento della conoscenza il compito principale dell’istituzione universitaria. Per essa non esistono (o non dovrebbero esistere) problemi di confini nazionali o barriere razziali perché il sapere è, per definizione, una realtà universale e la competizione che si instaura tra singoli ricercatori o gruppi di ricerca non è, di solito, un portato del nazionalismo, è piuttosto uno stimolo all’allargamento della conoscenza. Il contributo degli italiani alla ricerca internazionale non può, allora, assumere le sembianze di un guadagno, magari economico, di cui l’“azienda Italia” possa giovarsi per l'immediato. A ricavarne un qualche vantaggio è, semmai, la sua immagine nel mondo.
Un discorso diverso, a causa dei suoi molteplici risvolti economico-commerciali, va riservato all’aspetto applicativo della conoscenza. Qui è in gioco non solo l’immagine del Paese, ma la capacità delle nostre industrie di avvantaggiarsi sugli altri competitori europei e mondiali. Il mercato, infatti, si conquista non solo con l'eccellenza del prodotto ma anche con proposte sempre nuove e procedimenti all’avanguardia. Per essere in grado di soddisfare questi requisiti è di vitale importanza la ricerca tecnologica che da noi non è pensabile al di fuori dell’Università. È all’Università, quindi, che le aziende devono rivolgersi per divenire – o continuare ad essere – punte di diamante del mercato. E, viceversa, è sulla collaborazione con l'industria che le università devono puntare per conservare i contatti con la realtà sociale e del lavoro. Di fatto, è prassi abbastanza diffusa per le università stipulare contratti con le industrie per lo studio di nuove tecnologie o nuove metodiche. Prassi che sarà da valutare positivamente solo a patto che riesca a promuovere un interscambio tale da non vedere unicamente l'industria nella parte del committente e l’Università in quella dell'esecutore. Infatti, le competenze, il personale e le strutture universitarie non possono essere utilizzate per esclusive finalità applicative senza che l’istituzione stessa corra il rischio di isterilirsi. Lo scopo primario dell’attività universitaria, infatti, resta l'ampliamento della conoscenza che si raggiunge soprattutto con la ricerca di base. Una volta salvaguardate queste esigenze nelle maniere che di volta in volta saranno giudicate più efficaci, la collaborazione Università - industria non potrà che portare buoni frutti non solo ai due diretti interessati ma anche al “Sistema Paese” in termini di lustro alla propria immagine e anche di benefici economici.
Ancora diversi, e in qualche modo più complessi, sono i rapporti tra la nostra Università e le industrie estere o transnazionali. In questi casi il “Sistema Paese” sembra ridotto ad un ruolo marginale sia perché la ricaduta economica interessa altre realtà, sia perché il beneficio di immagine è, di solito, limitato da coperture di brevettazione e da imposizioni di segreti industriali. È questo, evidentemente, uno dei casi in cui appare evidente la difficoltà di valutare secondo parametri tradizionali la nuova realtà globalizzata.
GENTILI: Nessun imprenditore è interessato ad ancorare l’Università al destino dell’azienda Italia, anzi, Confindustria chiede da sempre – e lo ha anche manifestato pubblicamente nel marzo 2006 quando ha presentato insieme ad altre 17 organizzazioni imprenditoriali un documento sull’Università contenente un lungo elenco di proposte – la più ampia e reale internazionalizzazione del sistema universitario italiano tanto per la didattica quanto per la ricerca. Nessuno più delle imprese è aperto al mondo circostante proprio perché – come ho detto prima – esse sono le più esposte al sistema di concorrenza mondiale.
Non mi pare che nessuno affermi la volontà di porre l’Università al servizio dell’impresa. L’Università è al servizio del sapere e della crescita intellettuale e professionale di coloro che la frequentano e del Paese nel suo complesso.
È pur vero che come imprenditori chiediamo con forza di poter collaborare con gli Atenei nella definizione dei percorsi universitari al fine di ottimizzare le risorse pubbliche messe a disposizione proprio perché il sistema universitario non è avulso dal circostante e non può non tener conto delle esigenze degli attori sociali e delle tendenze della società nel suo complesso, rappresentate anche dal mondo produttivo.
LENZI: Come dicevo prima, l’internazionalizzazione dell’Università è nel suo DNA ed è uno dei più importanti binari attraverso i quali non soltanto esportiamo conoscenza verso l’esterno ma anche l’importiamo, insieme a nuovi modi di pensare, di produrre e di commerciare. Per fare un esempio, il fatto che i nostri giovani ricercatori fossero nelle università californiane quando iniziava l’avventura di Internet ha sicuramente permesso di accorciare i tempi di trasferimento culturale e tecnologico per il nostro paese. Oggi il fatto che vi sia uno scambio di ricercatori, docenti e studenti fra noi e paesi come la Cina e l’India, non è solo tramite immediato alla trasmissione della conoscenza della nostra realtà e tradizione socio-culturale a realtà così distanti, ma, contemporaneamente, è il modo più efficace di importare talenti e nuove visioni del mondo da inserire nel nostro sistema produttivo. Per quanto riguarda la seconda questione, mi sembra trattarsi di un falso problema. L’Università ed il sapere che produce non possono essere storicamente costretti o limitati da nessun paradigma imposto dall’esterno. Non credo dunque che la cultura dell’impresa possa determinare quale sapere debba essere trasmesso dall’Università. Ovviamente è non solo auspicabile, ma rientra nell’autoconsapevolezza del proprio ruolo il fatto che l’Università apporti forza propulsiva e innovativa allo sviluppo socio-economico e tecnologico del sistema paese, ma questo è possibile proprio a condizione che non abdichi mai al suo compito storico di trasmissione di saperi criticamente orientati. Ciò che nel presente sembra non rilevante per un uso pratico può diventare indispensabile nel futuro, ragion per cui talora l’apparente scarsa utilità di una ricerca di base si rivela invece fondante nella prospettiva delle stesse ricerche applicate. Quello che io dunque auspico è che l’Università mantenga ininterrotto il necessario colloquio con il mondo produttivo, in un rapporto fecondo di scambio e collaborazione reciproca, ma non certo di sudditanza. Per fare questo è importante che ci sia una migliore conoscenza reciproca tra noi e il mondo delle imprese e tutti i tentativi messi in campo (spin off, reti università-impresa) devono essere visti con favore senza aver paura da parte nostra di perdere qualcosa ma, anzi, con il gusto di accettare una nuova sfida, nella sicura consapevolezza della forza, della resistenza e della stessa rilevanza socio-politica del nostro tessuto culturale e critico.
MODICA: Non condivido l’affermazione che l’Università italiana debba essere “al servizio dell’impresa” e penso peraltro che non lo sia nei fatti. Né deve essere al servizio di nessun altro sottosistema nazionale, nemmeno di quello universitario. Non è un’affermazione paradossale, anzi, perché l’autoreferenzialità è proprio uno dei rischi maggiori del sistema universitario, uno dei suoi possibili mali più sottili ed endemici. Le università sono invece al servizio del Paese perché la formazione e la ricerca sono beni pubblici e contribuiscono in modo fondamentale alla sua competitività, in tutti i suoi significati. Trasmettere sapere, stimolare la creatività intellettuale, guidare nell’alta formazione alla ricerca e tramite la ricerca, incentivare e premiare il talento, sostenere l’innovazione in qualunque campo sono tutte azioni che, senza distinzioni o gerarchie, aumentano la competitività dell’Italia, se vogliamo, come vogliamo, che la nostra debba essere, come quella europea tratteggiata nel 2000 a Lisbona da tutti i capi di Stato, una società (non solo un’economia) basata sulla conoscenza. Più sapere vuol dire certamente più innovazione e più sviluppo sostenibile, nelle imprese come nella pubblica amministrazione. Più sapere vuol dire certamente nuovi e migliori posti di lavoro. Più sapere vuol dire certamente una democrazia più matura e maggiore coesione sociale. Ho volutamente usato parole della dichiarazione di Lisbona per chiarire proprio le finalità sociali delle attività universitarie, che non sono solo un programma di governo ma un impegno sottoscritto da tutti i Paesi dell’Unione Europea.
Ciò non vuol dire, però, che le università non debbano sentire più fortemente la loro responsabilità verso tutto il Paese e quindi anche verso il settore della produzione di beni e servizi, verso il mondo delle imprese. Devono assolutamente aprirsi maggiormente alla domanda di lavoro e di sapere che viene dalle imprese, senza chiudersi, come purtroppo si è verificato spesso nel passato e talora anche oggi, nelle problematiche della loro offerta di formazione e di ricerca. Come sempre, non si tratta di ribaltare una leva sbilanciata ma di spostarne leggermente il fulcro, in modo che trovino concertazione ed equilibrio i due punti di vista, la domanda e l’offerta. Per troppi anni, ad esempio, si è sottovalutato il contributo della formazione universitaria a quelle abilità trasversali necessarie per tutto il lavoro di oggi (basti pensare al ruolo dell’informatica e della telematica, alla capacità di lavorare in gruppo, alla cultura dell’organizzazione e degli obiettivi, al ruolo dei saperi interdisciplinari e multidisciplinari) privilegiando invece, in modo quasi esclusivo, l’apprendimento – ma spesso solo l’insegnamento … – dei temi più strettamente disciplinari. Oppure ci si è adagiati sulla tradizione mancando di tempestività nel rendere più articolata e flessibile – nei tempi, nei modi e nei contenuti – l’offerta didattica universitaria quando invece si ampliava enormemente la presenza studentesca e dunque variavano profondamente aspirazioni e capacità dei singoli studenti.
Un’ultima osservazione sul rapporto tra ricerca transnazionale e competitività nazionale. A me non sembra che vi sia contraddizione, anzi gli esempi degli ultimi cinquant’anni mostrano il contrario. Le grandi infrastrutture internazionali di ricerca (si pensi ai grandi acceleratori di particelle elementari, alle imprese spaziali, ai grandi telescopi, ai super-calcolatori, alle migliaia di laboratori in rete per l’analisi del genoma) non hanno affatto spento ma acceso le capacità innovative nazionali. Infatti le grandi infrastrutture utilizzano e indirizzano lo sviluppo tecnologico delle imprese chiamate a realizzarle e a mantenerle, imprese spesso di piccole o medie dimensioni, quindi di natura nazionale e non multinazionale. Queste imprese sviluppano enormemente le loro capacità tecnologiche a contatto con ambienti scientifici ad esasperato tasso di nuova conoscenza e di competizione a tutto campo, riversandole poi sulle produzioni di più ampio mercato e a più alto valore aggiunto e quindi contribuendo alla competitività del loro Paese. Non voglio però sottovalutare altri aspetti contrastanti, primo fra tutti quello della concentrazione dello sviluppo tecnologico nelle grandi imprese multinazionali, come nei casi della farmaceutica o delle apparecchiature sanitarie avanzate, che trova origine in entrambi i casi in tecnologie messe a punto nelle grandi infrastrutture internazionali della ricerca. Spesso queste multinazionali tendono a fagocitare, per ragioni economiche di mercato, le piccole e medie imprese nazionali altamente tecnologiche, col possibile risultato di deprimere la competitività del Paese interessato. Ma qui si entra nel tema della regolazione dei mercati internazionali, che è fuori delle mie competenze ma che è attualmente uno dei temi cruciali della globalizzazione e delle politiche economiche.
Lo stato dell’Università italiana. Qual è il suo giudizio sull’impianto di fondo e sui risultati della riforma universitaria? E più in generale, anche considerando quanto accade all’estero, in particolare nel contesto europeo, quali sono gli aspetti da valorizzare e i principali difetti dell’attuale sistema universitario italiano?
CIROTTO: La struttura attuale dei corsi universitari rispetta la cosiddetta regola del ‘3+2’, dove il 3 indica il primo ciclo di studi, che è triennale, e il 2 il biennio successivo di specializzazione. Il triennio è dedicato all'acquisizione delle conoscenze di base necessarie all'inserimento nel mondo del lavoro, porta alla laurea e al diritto di fregiarsi del titolo di “Dottore”. Il successivo biennio è per quei laureati dei corsi triennali che intendono approfondire ulteriormente la materia. Per ottenere il titolo finale di “Dottore magistrale” è necessario che il percorso triennale e quello biennale si integrino, siano cioè compatibili e costituiscano un tutto organico. Un’influenza negativa sull’organicità della preparazione alla laurea quinquennale è esercitata dal fatto che le due offerte didattiche sono poste in serie. Avviene in effetti che, per evidenti motivi, l’insegnamento delle materie di base debba essere impartito nei primi anni del percorso di apprendimento, cioè durante il primo triennio. Al tempo stesso, però, il triennio è finalizzato ad introdurre lo studente nel mondo del lavoro e per questo gli si devono fornire anche conoscenze applicative. Il risultato complessivo è un abbassamento della qualità contenutistica.
I punti persi nel triennio vanno riguadagnati nel biennio successivo approfondendo adeguatamente quanto meno gli aspetti teorici indispensabili alla specializzazione. L’esperienza ha mostrato che proprio questo è l’aspetto della riforma didatticamente più difficile da attuare a causa della debolezza complessiva della preparazione di base del triennio. A sanare questo inconveniente sono finalizzati gli ulteriori interventi riformatori che saranno operativi entro il prossimo anno.
Non vi è dubbio che la formula del 3+2 abbia costituito un avvicinamento all’Europa. Manca però un altro passo da fare: una nuova valutazione del Dottorato di ricerca. Attualmente il titolo di Dottore di ricerca non è spendibile al di fuori delle strutture universitarie o degli Enti di ricerca. Sarebbe invece auspicabile una sua valorizzazione anche a livello di realtà lavorative che non hanno diretta attinenza con la ricerca. Si completerebbe così, con un elemento di primo piano, la gamma di preparazioni al lavoro offerta dall’Università.
GENTILI: Il sistema universitario italiano si trova ad affrontare compiti nuovi ed inediti, tipici dell’economia della conoscenza, in un momento difficile caratterizzato dalla transizione tra il precedente sistema di governance centralizzato e una nuova configurazione fondata sulla capacità di competere liberamente per la qualità. Diviene, perciò, urgente accompagnare questo processo e rafforzarlo sia mediante un affinamento del sistema di governo dell’Università fondato sulla valutazione di qualità che attraverso l’eliminazione di norme e vincoli troppo restrittivi per rendere possibile alle università che lo vorranno maggiore autonomia e maggiore responsabilità.
La nostra Università è purtroppo ancora afflitta da corporativismo e da uno scarso processo di internazionalizzazione.
Le nostre università devono essere aperte al cambiamento e all’internazionalizzazione. Diviene indispensabile che superino le logiche corporative e che vengano previste nuove forme di governance di Ateneo. È, altresì, fondamentale – come richiesto da più tempo da Confindustria e come affermato nel Documento sull’Università del 21 marzo 2006 – che il sistema di finanziamento dell’Università sia erogato per una parte su base competitiva e cioè in relazione ai meriti espressi dell’Ateneo per ricerca e per didattica.
LENZI: La riforma universitaria è stata, specialmente all’inizio, un grande successo che ha permesso di sanare delle contraddizioni storiche dell’Università italiana (il gran numero di studenti fuoricorso, l’elevato livello di abbandono eccetera) ma, soprattutto, ha liberato delle energie creative in grado di ridisegnare i corsi universitari in funzione dei molti e forti cambiamenti avvenuti nella società italiana degli ultimi decenni. Ora vediamo segni di rallentamento e riscontriamo, sulla base di quanto finora sperimentato, alcuni punti di debolezza di questo processo di riforma. L’attenta valutazione critica operata da vari organismi che controllano il sistema ha portato il Ministero ad emanare recentemente il DM 270/04. In tal modo è stato possibile avviare la manutenzione del sistema per una fisiologica esigenza di aggiustare il tiro, sopperire alle carenze o correggere quanto nella prassi ha dimostrato di non funzionare. Per questo sono fiducioso che la riforma contribuirà a ottimizzare e modernizzare il nostro sistema universitario. In questa prospettiva, vorrei inoltre sottolineare il contributo straordinario (e spesso non abbastanza evidenziato) che stanno dando i docenti al successo dei nuovi ordinamenti dei corsi di studio che, ricordiamo, sono stati avviati senza aggiungere risorse al sistema. La scommessa che abbiamo davanti è il miglioramento del livello qualitativo sia del nostro sistema sia dei nostri studenti, in un contesto generale di riferimento basato, molto più che nell’immediato passato, su una intelligentemente feconda competizione e su una radicata e condivisa cultura meritocratica.
MODICA: Se per riforma universitaria si intende quella dell’autonomia didattica del 1999 (dei ministri Berlinguer e Zecchino), sono tra coloro che ne condividono profondamente l’impianto e sono abbastanza soddisfatti dei risultati che via via trovano analisi seria da parte dei professionisti dei sistemi educativi. La riforma è stata un sasso nello stagno quanto mai necessario, che ha messo in moto il sistema universitario italiano – pur con molti limiti normativi ed errori applicativi –, avviando una fase di trasformazione. Fase che però, come spesso succede in Italia, è divenuta quella di un’eterna transizione. Il dato più positivo e convincente della riforma è quello della segmentazione dell’offerta formativa in tre diversi livelli di laurea (laurea, laurea magistrale/specialistica, laurea di ricerca cioè il dottorato di ricerca), ormai necessaria per un corpo studentesco e per un mondo del lavoro sempre più articolati. Una novità compresa e già accettata più dagli studenti e dalla società che dal mondo universitario. Altrettanto convincente mi sembra l’autonomia didattica, cioè la rinuncia a modelli formativi nazionali che deprimono l’innovazione didattica e impediscono la competizione formativa, anche se ragioni che sarebbe qui troppo lungo analizzare hanno limitato e stanno limitando molto il dispiegarsi di tale autonomia. Non ultime ragioni accademiche dovute alle forti corporazioni disciplinari che uniscono tra loro i professori in modo trasversale agli atenei di appartenenza e ragioni sociologiche dovute alla persistente richiesta di uniformità nazionale come garanzia di qualità del servizio pubblico per i cittadini. Infine si è finalmente dato spazio al concetto di “occupabilità” del laureato (a tutti e tre i livelli), invitando le università a proporre agli studenti mosaici formativi in cui formazione di base, approfondimento critico e strumenti di professionalizzazione dovessero convivere in proporzioni opportune, da verificare e aggiornare nel continuo confronto con la domanda esterna. Tra l’altro tutti e tre i concetti (tre livelli dei titoli, autonomia dei curricula, occupabilità) sono totalmente allineati con le scelte europee e fanno dell’Italia uno dei laboratori più importanti e interessanti dell’armonizzazione decisa nel 1999, che prende il nome di “Processo di Bologna”. Mi sembra addirittura paradossale e quasi autolesionistico che nel nostro Paese si sottovaluti l’importanza e si dedichino poca attenzione e molte critiche al versante italiano di un impegno europeo per la costituzione di un’Area Europea dell’Educazione Superiore, che ha tratto le mosse da un’iniziativa italiana e prende nome dalla nostra più antica università.
Sui punti di forza e di debolezza del nostro sistema universitario ci sarebbe molto da dire. Mi limito qui ad osservare che i punti di forza più evidenti mi sembrano una buona qualità media dei professori (testimoniata da tutti gli indicatori internazionali di produttività nella ricerca in non poche aree disciplinari, sia umanistiche che scientifiche) e un sistema territoriale molto articolato e capillare (forse fin troppo) che assicura una presenza diffusa nel territorio di didattica e di ricerca universitaria con non poche punte di eccellenza, spesso nelle città universitarie storiche che caratterizzano il nostro Paese. I punti di debolezza più evidenti sono il deciso sottofinanziamento sia statale che privato (l’Italia occupa l’ultimo posto tra i venti Paesi europei dell’OCSE per le spese destinate all’istruzione post-secondaria, sia in rapporto al PIL che in rapporto alla spesa pubblica totale) che si associa a pesanti carenze infrastrutturali di difficile recupero nei tempi brevi, una diffusa tendenza a difendere lo status quo da parte di un corpo docente di età media straordinariamente alta che limita il contributo fondamentale di freschezza e fantasia innovativa tipico dei giovani ricercatori, una pratica abbastanza diffusa di meccanismi di selezione del personale localistici e anche nepotistici che deludono e allontanano dalla ricerca e spesso anche dall’Italia le persone di maggior talento e indipendenza intellettuale e comportamentale. Penso comunque che il sistema universitario italiano, a fronte delle risorse di cui dispone, ha molti più meriti che demeriti, anche se, sul fronte dei demeriti, gli interventi dovrebbero essere molto più rapidi e incisivi. Sono convinto che l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, recentemente istituita dalla legge e chiamata a valutare i risultati delle attività didattiche e di ricerca, darà un contributo fondamentale e ci allineerà alle migliori esperienze europee.
La sfida della qualità. La qualità dell’attività svolta da un organismo mi pare che dipenda almeno da tre ordini di fattori: il grado di competenza del personale, l’efficienza dell’organizzazione e la disponibilità di strutture adeguate. L’Università italiana mostra delle carenze, talvolta croniche, su tutti e tre questi livelli: quali sono le misure che andrebbero e che potrebbero essere adottate?
CIROTTO: Credo che non possano esservi dubbi sul fatto che la caratura del personale docente e ricercatore sia determinante per la qualità dell’offerta formativa universitaria e che vada ulteriormente migliorata con interventi adeguati. Sulla tipologia di tali interventi si può discutere. Siamo, ad esempio, sicuri che il criterio della meritocrazia, così come è auspicata dal mercato, sia l’unico valido per il reclutamento di docenti e ricercatori? Per convincersi della fondatezza di tale dubbio sono sufficienti due considerazioni, la prima riguarda la ricerca, la seconda riguarda la didattica. E’ fuor di dubbio che oggi la ricerca, per essere significativa, deve essere condotta in equipe. Sotto questo profilo, un concorso per professore universitario com’è fatto ora, basato unicamente sui meriti di conoscenza e produzione scientifica, sembra insufficiente. Forse andrebbe affiancato da una sorta di cooptazione ad opera del nucleo stesso di ricerca... So che non è una cosa facile, ma la ritengo necessaria. Si deve poi considerare l’aspetto didattico, che nell’Università non è secondario. Gli studenti, oggi più che mai, hanno bisogno di docenti capaci di suggerire metodi efficaci di studio e di fare da guida nei percorsi intricati dei saperi. Le capacità didattiche di coloro che aspirano a divenire professori di Università meriterebbero maggiore considerazione e dovrebbero venire più attentamente vagliate anche nei procedimenti concorsuali.
La qualità nella didattica e nella ricerca non può, evidentemente, essere disgiunta dall’efficienza della struttura universitaria. Molte sono le difficoltà che l’impianto organizzativo ha dovuto superare da quando l’Università è divenuta una struttura di massa. Fra tutte, ce n’è una che si ripresenta in maniera ricorrente e subdola: la tendenza alla burocratizzazione. Il grande sviluppo dei nuclei universitari, ormai largamente distribuiti sul territorio, e le loro crescenti esigenze legate alla competizione con analoghe istituzioni richiedono una sempre maggiore complessità organizzativa. Si sono venuti moltiplicando uffici e centri tecnici che acquisiscono importanza sempre crescente e monta di conseguenza la tendenza a considerarli il centro propulsore dell’Università stessa. La didattica e la ricerca diverrebbero, così, funzionali al mantenimento del loro assetto sempre più ipertrofico e distaccato dalle finalità accademiche. La soluzione al problema potrebbe far leva sulle strutture dipartimentali perché è lì che si attua concretamente l'interscambio tra il ricercatore, il didatta e l’amministratore.
GENTILI: L’Università italiana dovrebbe poter lavorare in un ambiente aperto e competitivo anche mediante una innovata governance di sistema, indirizzata allo sviluppo di incentivi e disincentivi trasparenti, in grado di orientare le università verso la progettazione del proprio sviluppo sulla base di priorità rese note pubblicamente e con anticipo appropriato dalle autorità di governo.
LENZI: Ricette sicure non ne esistono perché i singoli ritardi del paese non sono che i suoi ritardi storici. L’Italia è una nazione complessa dal punto di vista culturale, storico, geografico, socio-economico ed il sistema universitario riflette, nel bene e nel male, le realtà nelle quali è chiamato ad operare. Io sono contrario ad importare acriticamente modelli esteri (che spesso suscitano polemiche già nei loro paesi di origine) e che sicuramente non si possono adattare al variegato panorama delle università italiane che, diverse per dimensione e vocazione, sono espressioni e parti integranti appunto di un contesto molto eterogeneo. Sicuramente la forte spinta in atto a lasciare gli atenei agire in forte autonomia non può che aiutare il loro miglioramento, a patto che, come previsto, vi si uniscano misure premianti le migliori performance dei diversi atenei incentivando la managerialità e ponendo fine ai fenomeni di autoreferenzialità di talune realtà. È dunque fortemente auspicabile una efficace politica di responsabilizzazione ed incentivazione dell’eccellenza, basata su una migliore ripartizione dei finanziamenti e coniugata ad una politica di rilancio dell’Università. Ma non dimentichiamo che, comunque, l’Università è ancora, e nonostante i suoi difetti, la piattaforma più solida per traghettare i giovani delle varie realtà locali verso il futuro. Proprio per questo bisogna riflettere se non sia il caso di proporre una politica di creazione di reti che permettano agli atenei medio-piccoli di mettere in comune risorse e competenze ed incentivino la mobilità studentesca. Al contrario per i mega atenei si può pensare all’incentivazione del modello dell’ateneo federato che porti dal centro verso la periferia le potenzialità del sistema, contribuendo allo sviluppo delle realtà locali spesso in sofferenza rispetto ai grandi nuclei centrali. Per quanto riguarda le difficoltà storiche del nostro sistema universitario sul versante organizzativo-strutturale sono prevalentemente legate alla carenza di risorse, mentre mi sembra di poter affermare che non emergono, almeno nella grande maggioranza dei casi, né particolari né allarmanti carenze quanto a professionalità e competenze sia nell’ambito del personale docente che tecnico amministrativo.
MODICA: Ho già detto che ritengo buona (in media) la competenza del personale e che invece ritengo molto carenti le infrastrutture a disposizione degli studenti e dei professori e ricercatori. Molto deludente è invece l’efficienza organizzativa delle università, ancorata a modelli antiquati di governance che offuscano o addirittura impediscono l’assunzione di responsabilità da parte di chi effettivamente deve decidere. Queste modalità di gestione rendono quasi ogni decisione universitaria, anche le più semplici, un vero calvario procedurale di passaggi quasi sempre formali attraverso infiniti organi collegiali tutti simili tra loro e obbedienti ferreamente al principio di rappresentanza più che a quello di efficienza.
A proposito degli interventi, ritengo che un sistema di premi e sanzioni in base ai risultati, unito ad una più ampia autonomia, dovrebbe migliorare la qualità delle università. Certo non è mai facile autoriformarsi, meno che mai per le università. Alcune leggi semplici e cogenti su una nuova governance universitaria, sulla selezione del personale, sulle regole di finanziamento, sui diritti degli studenti sarebbero necessarie e spero che Governo e Parlamento, anche con uno spirito bipartisan che dovrebbe sempre esserci su questi temi di interesse generale e strategico, ci si dedichino al più presto.
Tra flessibilità e sapere critico. Quello della capacità dell’Università di contribuire a formare un atteggiamento critico nei confronti dei saperi dominanti appare oggi una questione un po’ fuori moda. Sembra sia scontato, anche se non sempre viene dichiarato esplicitamente, che l’Università debba limitarsi a fornire competenze meramente conoscitive e non anche riflessive. L’“elasticità” mentale che viene eventualmente considerata un obiettivo da perseguire è pensata prevalentemente nei termini della flessibilità rispetto alle conoscenze date: si tratta di formare lavoratori e dirigenti in grado di adattarsi all’innovazione permanente. Ho l’impressione che spesso venga prestata scarsa attenzione alla problematizzazione dei presupposti epistemologici e storici delle discipline studiate. In che misura la formazione di questa distanza critica nei confronti del sapere acquisito, che a sua volta è una condizione fondamentale della capacità di immaginare trasformazioni possibili del mondo in cui viviamo, deve rientrare tra le finalità dell’insegnamento universitario?
CIROTTO: Un aspetto ahimè consolidato della nostra tradizione culturale è la separazione tra la cultura scientifica e quella umanistica. A tal proposito tornano alla mente le parole di Snow che constatava con rammarico l’impermeabilità reciproca dei due blocchi «dovuta al fatto che i membri delle due culture non riescono a parlarsi». Quando Snow scriveva le sue considerazioni erano i primi anni Sessanta del secolo scorso e oggi, dopo quasi mezzo secolo, le cose non sembrano migliorate, anzi sono forse ulteriormente peggiorate. E così, gli scienziati, tuttora incapaci di uno sguardo distaccato su se stessi e la loro attività, continuano a ritenersi padreterni mentre gli umanisti continuano a rifiutare contatti con le scienze empiriche preferendo rimanere nel loro mondo di idee. Eppure un incontro deve essere possibile. Quanto meno in campo epistemologico. Sono convinto che ciò sarebbe di grande aiuto agli scienziati, che smetterebbero di assolutizzare il proprio sapere e agli umanisti che avrebbero così gli strumenti per aprire il dialogo. L’esperienza mi dice che gli studenti sentono questo problema molto più di quanto si potrebbe immaginare. Sono convinto che l’introduzione nelle offerte didattiche di materie che facilitino l'approfondimento critico sarebbe ben accolta e porterebbe ottimi frutti.
GENTILI: L’Università è il luogo del sapere che si rinnova e si diffonde in quanto metodo e strumento utile alla creazione di nuove conoscenze. L’Università è lo spazio dell’innovazione dei saperi e come tale è inimmaginabile pensare che essa possa o debba divenire un luogo di non sviluppo del sapere critico. Conoscere di più e meglio significa poter interagire con la realtà e dotare le persone degli strumenti necessari per realizzare a pieno la propria cittadinanza. Tuttavia, va salvaguardato un giusto equilibrio fra sapere critico e sapere professionalizzante perché non coniugare il primo col secondo aspetto della conoscenza significa non aver preso coscienza dell’esistente e della necessità che i nostri giovani più proficuamente e più facilmente possano inserirsi nel mondo in un mondo del lavoro sempre più competitivo.
LENZI: Là dove la formazione si coniuga con la cultura, là deve esserci sapere critico. Il sapere critico nasce dalla conoscenza e non e’ forse tanto astratto compito dell’Università quale istituzione perseguirlo, quanto umile ed alta pratica quotidiana esercitata dai Maestri e Tutor che ognuno si sceglie liberamente in ambito universitario. Il punto fondamentale è che nell’Università abbiano sempre diritto di parola mille voci sia pure contrastanti, che i punti di vista siano diversi, che non vi siano culture dominanti in una epoca, come questa, in cui la facilità all’accesso informativo via web parrebbe rendere obsolete le modalità di una costante discussione critica fra docente e studente. Credo che l’Università italiana con la sua vitalità, il suo intrinseco disordine, la sua peculiare tendenza alla discussione e, diciamolo pure, la sua straordinaria tradizione storica (mantenuta sia pur con i così scarsi finanziamenti) instilli e radichi nei ragazzi il gusto e il valore della criticità. Questa è la vera qualità degli studenti che mandiamo all’estero e che permette loro di competere ad armi pari e spesso di prevalere nei confronti dei loro colleghi di altri paesi forti di sistemi universitari molto più finanziati del nostro. Mi rendo tuttavia ben conto che questo patrimonio non potrà certamente perdurare inalterato in eterno nei suoi effetti benefici se non sarà sostenuto da meccanismi che favoriscano la contaminazione tra saperi diversi e l’assunzione di punti di vista multipli sui medesimi problemi. Ritengo che sempre più dobbiamo vedere lo studente come punto centrale della complessa scacchiera universitaria, passandolo dal ruolo di “pedone” a quello di “re o regina”. Per questo, nell’applicazione del DM 270/04, come presidente del CUN, cercherò di favorire al massimo la flessibilità del sistema, il diritto allo studio e la mobilità degli studenti all’interno delle varie aree culturali, persuaso come sono della rilevanza di tale processo nel generare un nuovo habitus creativo che apra ulteriori orizzonti ai nostri migliori studenti.
MODICA: Nella sostanza credo di aver già risposto. Sono comunque convinto che non c’è vera formazione universitaria senza educazione allo spirito critico. In questo senso, se lo spirito critico è il fondamento stesso della ricerca, e della libera ricerca guidata dalla curiosità in particolare, il modello humboldtiano per le università, mi sembra, è valido ancora oggi, sia pure rivisto per una Università che è e deve essere di massa e per una società globale in perenne, rapidissima trasformazione. Sembra addirittura che ciò sia ancora più necessario per acquisire una vera cittadinanza e per dar vita ad una vera democrazia nel momento attuale, in cui i saperi codificati e le idee scientifiche vengono messe continuamente a confronto e in pubblica discussione, anche da parte degli stessi addetti ai lavori e non solo nella loro ristretta cerchia, e le grandi scelte politiche riguardano sempre più il destino stesso delle nostre società e del nostro pianeta.
Trovo peraltro curioso che spesso siano gli stessi docenti universitari, nonostante gli spazi di autonomia didattica sempre più ampi di cui giustamente godono, a lamentare l’indebolimento dell’insegnamento critico o dei presupposti epistemologici e storici, come se i corsi non fossero programmati e tenuti da loro stessi. Né mi sembra che esistano, al di là della vulgata, norme o anche solo indirizzi che spingano in questa direzione. Il problema è piuttosto un altro. Occorre fare i conti sempre più con una società e con degli studenti che hanno profondamente modificato il tradizionale paradigma dell’accesso e dell’uso del sapere. Spostando il baricentro sullo studente più che sul professore, sull’apprendimento più che sull’insegnamento, sulla domanda più che sull’offerta, questo problema emerge con forza e destabilizza i tradizionali modelli formativi universitari. Ne vanno pensati e realizzati di nuovi, che contemperino la necessità di competenze riflessive, non meramente conoscitive, di elasticità mentale, di aggressività critica nelle analisi intellettuali con tempi di formazione e obiettivi di professionalizzazione. Modelli formativi certamente differenziati, ma tutti adattati a studenti che costituiscono non più una minoranza destinata a divenire l’élite dirigente e caratterizzata da aspirazioni e capacità molto simili, ma una vastissima maggioranza dei cittadini caratterizzata da una grande articolazione di differenti aspirazioni e capacità. È la vera sfida, in Italia come dovunque, che l’Università si trova ad affrontare in questi anni.