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Una comune felicità. Riflessioni post-freudiane [1]

Sergio Caruso

La felicità, un tema di moda: perché mai?

Da qualche tempo l’idea di felicità trova nuove fortune in ogni campo, dalla filosofia all’economia, dalla psicologia accademica alla psicologia popolare, e sarebbe interessante capire perché. Nel maggio 2004, impressionato da questa specie di mania che da qualche anno prendeva piede, feci una prima ricognizione sul tema. E già allora trovai in amazon.com ben 788 pubblicazioni che recano la parola “felicità” nel titolo. La stragrande maggioranza di queste sono manuali di self-help che alimentano un incredibile business della felicità: un business che inonda il mercato editoriale dall’inizio degli anni ’90, con una ulteriore impennata dal 2002. Si parla – sia chiaro – di milioni di volumi venduti, fra America ed Europa [2]. Per non parlare dei siti internet dedicati a questo argomenti [3] e dei seminari – ben s’intende a pagamento – fioriti nel frattempo [4]. Si trova di tutto: studi serissimi promossi da neurofisiologi, psichiatri, psicologi [5], come pure filosofi ed economisti, egualmente preoccupati di distinguere con accuratezza e definire con precisione ciò di cui stanno parlando (piacere, soddisfazione, gioia, benessere); ma anche «formule della felicità» [6] (di una felicità non meglio definita) all’insegna della positive psychology [7], se non anche del think pink (la vecchia storia del bicchiere mezzo pieno/mezzo vuoto)¸ e un numero crescente di psicologi d’assalto e sedicenti life couches che propongono – anzi vendono – esercizi per ridurre lo stress, istruzioni per incrementare l’ottimismo acquisito, consigli per semplificare la vita e qualche volta per complicarla.
La prima osservazione, abbastanza evidente, è che c’è ormai nelle società ricche dell’Occidente un mercato della felicità o comunque di qualcosa che viene chiamato “felicità”. E ciò pare perfettamente in linea con la tendenza della società post-industriale e post-moderna verso la produzione crescente di merci immateriali e servizi alla persona. Non ce ne scandalizzeremo; anzi, potremmo compiacercene, se questo mercato non segnalasse pure l’esistenza di qualche problema. Infatti (ed è la seconda osservazione), la felicità non è come il pc o l’aria condizionata una invenzione tecnologica che solo oggi si propone come oggetto del desiderio e possibile “mancanza”; se oggi affiora una tale domanda di felicità, pare lecito supporre che vi sia una diffusa infelicità; insomma, un’autentica e diffusa mancanza di qualcosa – qualunque cosa “felicità” e “infelicità” vogliano dire. Infine (ed è la terza osservazione), l’offerta di felicità che le corrisponde consiste principalmente nel proporre tecniche preconfezionate che, se bene applicate da colui che le compra, dovrebbero utilmente contribuire a renderlo “felice”.
Abbastanza inquietante, perché se ammettiamo – e come non ammetterlo? – che la felicità abbia a che fare con la vita e ne rispecchi la varietà di aspetti, dovremo concludere che l’offerta di felicità oggi prevalente sul mercato riduce la vita stessa, la vita intera, a una tecnica e che, dunque, propone di essa una visione puramente “strumentale” nel senso denunciato, per esempio, dai filosofi di Francoforte. Non ho soverchia simpatia per le visioni apocalittiche della Tecnica come destino e rovina dell’umanità, in particolare per quelle diffuse oggi in Italia (mi riferisco in particolare a Umberto Galimberti). Ma, senza nulla concedere all’idea di destino, devo ammettere che la situazione è preoccupante. Per la semplice ragione che la felicità, se dev’essere qualcosa di più di una piacevole eccitazione o di un gradevole relax, non può non avere a che fare con l’esistenza di fini che coinvolgono una o più vite (esattamente ciò che la concezione strumentale della vita mira ad espungere dal nostro orizzonte). Nel quale senso, rispondere alla infelicità con la riduzione della Vita a una serie di “tecniche per vivere”, più che una soluzione, pare essere un aggravamento del problema.
A partire da queste osservazioni, ci possiamo fare qualche domanda per cercare di capire che cosa succede nel mondo. Fatto sta che gli autori della domanda, gli infelici, e gli autori dell’offerta, i supposti “tecnici della felicità”, non soltanto respirano la stessa atmosfera culturale (ciò è ovvio), ma ben più nel profondo condividono una stessa struttura di base della personalità. Devo qui rinviare ad alcune nozioni: quella di «basic personality structure», proposta da Abraham Kardiner e Ralph Linton nell’antropologia culturale d’ispirazione psicoanalitica; quella di «orientamento del carattere sociale», che occupa una posizione cruciale nella analytische Sozialpsychologie di Erich Fromm; e quella analogamente proposta nella psico-sociologia di David Riesman. Ambedue riguardano la “personalità modale”, cioè quel tipo di personalità a cui corrisponde la massima frequenza entro una certa cultura o in una certa epoca. Ora, c’è ragione di pensare che, nel passaggio dall’epoca moderna a quella cosiddetta post-moderna, queste strutture tipiche e condivise abbiano subito una mutazione. Sia Fromm che Riesman avevano descritto il passaggio dal mondo proto-moderno a quello moderno-contemporaneo come un passaggio anche psicologico: dal carattere “tesaurizzante” a quello “mercantile” (Fromm), dalla personalità auto-diretta a quella “etero-diretta” (Riesman). Oggi però, con quella che Lasch chiama «cultura del narcisismo», affiorano caratteristiche che neppure le categorie moderno-contemporanee di carattere mercantile e personalità etero-diretta riescono a cogliere [8]. Da ciò l’interesse che assume il lavoro svolto dal principale allievo di Fromm, Rainer Funk: lavoro inteso ad aggiornare la caratterologia frommiana elaborando uno specifico tipo per la personalità post-moderna [9].
Fra le caratteristiche emergenti della personalità post-moderna, voglio sottolineare (indipendentemente da Funk, ma compatibilmente con lui) due semplici tratti: la soglia di stimolazione appare oggi di norma più alta che nel passato; la soglia di frustrazione appare invece di norma più bassa. Una coppia di tratti davvero male assortita, perché da un lato fa dell’uomo post-moderno un sensation-seeker, proteso verso il mondo esterno, mentre – dall’altro – lo rende vulnerabile, nonché vagamente consapevole di essere tale, e lo sospinge a evitare qualunque rischio specialmente di ordine emotivo. Come se uno dicesse: voglio fare tutto, ma non voglio rischiare nulla. Quanto basta per essere infelici! Da ciò la terza caratteristica, che riprendo da Hillman laddove questi parla di una airbag society [10]: la diffusa tendenza verso quelle tecniche di sicurezza che mettono al riparo dal dolore sia fisico che, se possibile, mentale. Le tecniche della “realtà virtuale” sono solo un esempio. Ma anche le merci pubblicizzate sul mercato della felicità rientrano nel medesimo orizzonte e si rivolgono al medesimo pubblico, seppure con accentuazioni diverse. Chi vende esperienze straordinarie, o spacciate per tali, risponde intuitivamente al sensation-seeking; chi vende relax risponde con altrettanto fiuto alla paura del dolore; chi vende formule della felicità (e talvolta molecole della felicità) risponde alla crescente difficoltà di contemperare l’intensità delle esperienze con la calma necessaria per viverle in maniera significativa; ma troppo spesso lo fa in maniera puramente tecnica, come se fosse una difficoltà puramente oggettiva, non anche soggettiva, e come se fosse possibile raggiungere questo equilibrio senza mutare nulla di se stessi né del proprio stile di vita.
C’è dunque – segno dei tempi – una sorta di collusione sul mercato della felicità fra domanda e offerta. Non solo una influenza reciproca, com’è sempre naturale della domanda e dell’offerta, ma una vera e propria “collusione” in senso psicologico. E questo, io credo, ha potentemente contribuito a rimettere in circolazione un tema di per sé fascinoso che, dopo essere stato centrale nella filosofia classica, non veniva quasi più discusso se non nei termini dell’utilitarismo.


La diffidenza degli psicoanalisti

Ciò premesso, quello di Firenze non sarebbe dunque che l’ennesimo convegno sopra un’idea che torna di moda, se OPIFER – un termine latino con cui Lucrezio si riferisce alla divina funzione di Esculapio che, comparendo nei sogni del sofferente, gli “reca soccorso” [11] – non fosse l’acronimo di un’associazione psicoanalitica (Organizzazione di Psicoanalisti Italiani Federazione e Registro) e se non fossero, stavolta, sopra tutto psicoanalisti coloro che, riuniti a Firenze, s’interrogano sulla possibilità di essere felici. Singolare assemblea, perché gli psicoanalisti non hanno su questa tema la tradizione dei filosofi e per di più, si sa, sono diffidenti. Più che mai diffidenti nei confronti di certe idee, come quella di felicità, che, passibili di interpretazioni estreme, facilmente assumono i colori dell’esaltazione maniacale (fra poco vedremo come e perché). Come sarà dunque possibile assumere la felicità come traguardo, senza perdere le tradizionale qualità dell’analista: sobrietà, understatement, un pizzico d’ironia?
A scanso di equivoci, dirò subito che nella formulazione del tema, «una comune felicità», l’aggettivo non è meno importante del sostantivo. Questo titolo nasce infatti, negli intendimenti degli organizzatori, come parafrasi di un’espressione analoga impiegata dal primo Freud, quello degli Studi sull’isteria, laddove prospetta di «trasformare la miseria isterica in una infelicità comune [das hysterische Elend in gemeinsames Unglück verwandeln]». Certo, mettere “felicità” al posto di “infelicità” laddove si parla del buon esito della cura, non è roba da poco; ma l’una e l’altra restano gemeinsam, cioè “ordinarie, diffuse, comuni”. Ci interroghiamo dunque su quel poco di felicità d’ordinario raggiungibile nella vita quotidiana delle personi comuni: per definizione, niente di “straordinario”.
Ora, è fin troppo ovvio, che nella vita quotidiana delle personi comuni, la felicità si mescola con l’infelicità; e che si tratta, dunque, di poter essere anche un po’ felici. Come analisti, sappiamo come volersi felici ad ogni costo, sempre e comunque felici a dispetto delle circostanze, spesso nasconda una patologica incapacità di tollerare che sentimenti depressivi affiorino alla coscienza; e perciò stesso comporta la necessità di mobilitare quelle tipiche difese che Melanie Klein ha ben descritto sul versante maniacale (diniego, svilimento, idealizzazione, controllo). Col che si parla di meccanismi assai primitivi, ben più dei classici meccanismi di difesa dell’Io descritti da Anna Freud: non si tratta, infatti, semplicemente di mettere la coscienza al riparo dal “ritorno del rimosso”, bensì di denegare qualunque dipendenza del soggetto dagli oggetti esterni e di salvaguardare un trionfalistico sentimento di onnipotenza, assolutamente infantile.
C’è dunque almeno un tipo di “felicità” – ma sarebbe meglio chiamarla “euforia” – di cui gli psicoanalisti non possono non diffidare. Uno stato di esaltazione patologico ed effimero, che si manifesta al massimo grado nel polo maniacale dei disturbi bipolari come pure nell’euforia artificialmente indotta da sostanze (cocaina in testa), ma che si riscontra egualmente e spontaneamente, seppure con minore intensità, in certe strutture di personalità più o meno normali o apparentemente normali. Persone magari simpatiche, ma inaffidabili, e sopra tutto molto vulnerabili. Infatti, le manifestazioni ipomaniacali della pseudo-felicità, per quanto accompagnate da un vissuto soggettivamente piacevole, non sono compatibili con l’esercizio di quella fondamentale funzione dell’Io che è l’esame di realtà; anzi, vanno di pari passo con la sussistenza di un Sé fragile e di un Io immaturo, incapaci di dialogare fra loro e col mondo esterno. Ciò che è peggio, sotto l’impatto di una realtà sia interna che esterna alla lunga ineludibile, tali situazioni di apparente felicità preludono ben spesso a un break down depressivo oppure, com’è tipico delle personalità borderline, all’erompere del narcissistic rage. Il senso di assoluta onnipotenza si tramuta allora in senso di assoluta impotenza e la pseudo-felicità cede il passo a una terribile, totale, infelicità. Qualcosa di molto simile succede nelle delusioni amorose, quando siamo abbandonati o traditi dalla persona amata; specialmente da ragazzi, quando all’euforia del primo innamoramento, a quel “sentirsi bene” come mai prima, bruscamente succede la disperazione del primo abbandono, quel “sentirsi male” come mai prima. Solo che in questo caso, per quanto immatura possa essere l’adolescenza, per quanto ancora l’oggetto d’amore funga da oggetto-sé, c’è comunque nel mondo reale ed esterno una ragione plausibile e proporzionata per stare così bene o così male, per essere talmente felici o talmente infelici, almeno per un po’. Invece, nelle situazioni patologiche appena descritte, quello che si rompe, quello che non funziona, non è tanto la storia d’amore fra due persone nel mondo reale quanto il rapporto fra due strutture della psiche: un Io e un Sé che, per così dire, non si sopportano e non possono “legare”.


Il Pessimismus freudiano

Del resto, una qualche diffidenza per la felicità risale ai primordi della psicoanalisi. Come dicevamo poc’anzi, al giovane Freud degli Studi sull’isteria, dove ancora si parla di «cura catartica» e non ancora di psicoanalisi. Al di là della famosa citazione, rileggiamo quel brano per intero:
«Mi sono sentito spesso obiettare dai miei pazienti, quando promettevo loro aiuto o sollievo per mezzo di una cura catartica: “Ma se dice Lei stesso che il mio male si collega probabilmente alla mia situazione e al mio destino: a quelli Lei non può certo recare alcun mutamento. In qual maniera mi vuole allora aiutare?” Ho potuto loro rispondere “Non dubito affatto che dovrebbe essere più facile al destino che non a me eliminare la Sua sofferenza: ma Lei si convincerà che molto sarà guadagnato se ci riuscirà di trasformare la Sua miseria isterica in una infelicità comune [das hysterische Elend in gemeinsames Unglück verwandeln]. Contro quest’ultima, Lei potrà difendersi meglio con una vita psichica risanata”» [12].
Queste parole di Freud assumono un’enfasi tutta particolare per essere apposte a conclusione degli Studien (1893-95), nel paragrafo denominato «Psicoterapia dell’isteria». Nel sito dell’American Psychoanalytic Association un anonimo collega commenta, assai giustamente, che, mentre spesso e volentieri, si cita l’evocazione freudiana di una “normale infelicità”, ben di rado si cita la frase che segue: quella veramente conclusiva. Con la quale, in sostanza, Freud dice che, nella vita come a carte, poco o nulla possiamo fare per cambiare le carte assegnateci (quel che Freud chiama «il mio destino»); ma ciò non toglie che, «con una vita psichica risanata», si possa cercare di giocarsi la mano al meglio possibile [13]. Col che già si apre qualche maggiore spiraglio.
Un altro commentatore – Stefano Beccastrini – invece scrive: «Purtroppo, la medicina attuale sta promuovendo intenzionalmente il contrario ovverosia la trasformazione delle varie forme di comune infelicità (che spingono l’uomo alla ricerca di una qualche salvezza ovverosia alla ricerca di un senso, non necessariamente religioso, alla propria vita e alla propria morte) in forme di personale isteria (che spingono l’uomo alla spasmodica ricerca di una insensata salute)» [14]. Non direi che ciò sia vero principalmente della medicina, né solo di essa: c’è, come abbiamo visto, tutto un mercato della felicità ad ogni costo (ciò che Beccastrini chiama “spasmodica ricerca di una insensata salute”). La sua osservazione coglie tuttavia nel segno, quando definisce isterico tale mercato e quando solleva la questione del senso. La questione del senso è essenziale per qualunque definizione della “normale felicità” che abbia uno spessore filosofico e psicologico. L’ordinaria felicità delle persone comuni, quella che qui ci interessa, non è affatto “insensata”, cioè “a prescindere”, bensì sensata, cioè collegata con situazioni fornite di senso. La facilitazione delle terminazioni dopaminergiche mesolimbiche provoca euforia qualunque sia la situazione del soggetto; ma, se pure fosse priva di rischi ed effetti collaterali, diremmo forse che l’assunzione di cocaina risolve il problema della felicità?
Proprio sulla cocaina lo stesso Freud, giovane neurologo, aveva preso un discreto abbaglio (il saggio Über Coca è del 1884). Ma, quando scrive con Breuer gli Studien über Hysterie, il suo entusiasmo per le virtù terapeutiche di questa sostanza, se non spento, è già fortemente ridimensionato. Egli non crede più che la nevrastenia possa essere guarita con la coca e già vede le radici dell’isteria affondare nella storia personale. D’altronde, per tornare al brano freudiano del 1895, è ragionevole chiedersi se quanto Freud scrive della «miseria isterica» (hysterische Elend) valga solo per essa o per qualunque forma di «miseria nevrotica» (neurotische Elend). È questa una formulazione di molto successiva, che nelle Lezioni del 1917 viene contrapposta alla «sofferenza reale, irrimediabile» [15] contro cui la nevrosi talora, ma non sempre, difende. Infine, è ragionevole chiedersi se la trasformazione della miseria in infelicità sia concepibile come esito della psicoterapia catartica da lui praticata nel 1895, ma non necessariamente della psicoanalisi cui successivamente perviene. Dalla catarsi ci si aspettava la risoluzione di un sintomo, dalla psicoanalisi ci si aspetta la risoluzione del conflitto edipico e, più che la “guarigione”, una maturazione dell’Io. A maggior ragione ciò vale per la psicoanalisi odierna, ancora più ambiziosa. Possibile che l’analisi sospinta a livelli pre-edipici, la riparazione di strutture lese, la ristrutturazione del mondo interno, non sia in grado di produrre (quando tutto ciò riesca) esiti più cospicui di quelli descritti da Freud nel 1895?
La questione è dunque se sia possibile, cento e undici anni dopo quella pagina, sperare di raggiungere attraverso una cura schiettamente analitica (e non solo “catartica”) qualcosa di più o qualcosa di diverso dalla remissione dei sintomi: qualcosa che, almeno talvolta, abbia a che fare col gusto di vivere e, diremo così, con la salute del Sé oltre che dell’Io. Nella convinzione che l’enfasi freudiana sul fatale persistere di una inguaribile infelicità abbia a che fare più col Pessimismus mitteleuropeo di quegli anni che non col destino dell’uomo.


La felicità come egresso dal narcisismo

Il rischio, ne siamo ben consapevoli, è quello di slittare dal pessimismo al delirio di onnipotenza: quanto di peggio per uno psicoanalista! Allora: parliamo pure di “comune felicità”, ma facciamolo con la stessa sobrietà con cui Freud parlava di «comune infelicità» e, soprattutto, senza pretendere di farci giudici della felicità altrui. Si tratta di una questione delicata. E non solo pratica, ma teorica. Una questione che sospinge la psicoanalisi a interrogare le discipline umanistiche e le scienze umane, in primis filosofia e psicologia, su cosa debba intendersi per “felicità” e per “infelicità”; ed egualmente le discipline umanistiche e le scienze umane a interrogare la psicoanalisi, per vedere che cosa essa stessa abbia da dire in materia.
Ma perché mai la psicoanalisi dovrebbe essere in grado di dire qualcosa in materia? E perché mai dovrebbe essere, in quanto sondaggio di una felicità possibile, più affidabile di altre forme di psicoterapia, per non parlare delle varie tecniche per essere felici in vendita sul mercato? Non sarà che ognuno tira l’acqua al suo mulino? Certo, ma resta una grande differenza: la psicoanalisi non vuole essere direttiva. Non che sempre ci riesca, ma almeno ci prova; anzi, precisamente consiste e trova il suo specifico nella sistematica restituzione all’analizzante del potere che questi non cessa di offrire all’analista su un piatto d’argento. In questo senso la psicoanalisi è una delle poche forme di educazione alla libertà che abbiamo a disposizione.
Di più: nonché direttiva, essa rifiuta perfino di essere didascalica. Lo psicoanalista non ha niente da insegnare e l’analizzante non ha niente da apprendere; non ci sono contenuti e tecniche che trapassano dall’uno all’altro, se non forse un metodo di esplorazione. L’unica cosa che si apprende in analisi è il gusto di apprendere: di «apprendere dall’esperienza», di apprendere a pensare senza paura, cioè a pensare tout court. È ben vero che la psicoanalisi è anche una tecnica, ma colui che è chiamato ad applicarla è solo l’analista. L’analizzante dirà quel che gli pare e farà, nella vita, quel che vuole: non c’è nessun pacchetto d’istruzioni che sia chiamato ad applicare. Quanto basta, quando la faccenda riesce, per smettere finalmente di cercare la felicità (quasi fosse un oggetto) e per poterla finalmente riconoscere nelle circostanze, nelle relazioni, nei progetti.
Ecco: se c’è un contributo della psicoanalisi alla normale, comune felicità, esso consiste proprio nella paradossale acquisizione che una qualche felicità si può trovare e/o realizzare solo quando si smette di cercarla; cioè quando si smette di concepirla come un oggetto, un po’ idealizzato, un po’ persecutorio. Ciò passa per un disinvestimento dell’Ideale a vantaggio degli oggetti veri, passibili di esperienza, ma fino a quel momento ritenuti non abbastanza significativi o comunque da evitare (perché non suscettibili di totale controllo). Non che sia facile. Tale disinvestimento/reinvestimento esige – sia chiaro – un processo lungo e spesso doloroso, perché comporta una ferita narcisistica: una rinuncia alle pretese narcisistiche di attingere l’Assoluto.
Come si dice: ci si affeziona alle proprie nevrosi; ed è naturale che sia così, perché esse hanno a che fare con la rappresentazione del Sé contenuta nell’Io. E il narcisismo è una brutta bestia, che non si arrende tanto facilmente. Talune depressioni nevrotiche e molte depressioni schizoidi nascono da una decisione inconscia di questo tipo: “visto che non riesco ad essere assolutamente e grandiosamente felice, l’ideale essendo irraggiungibile, allora sarò assolutamente e grandiosamente infelice”. Ciò che resta completamente immutata in questa trasformazione è l’immagine grandiosa di sé. Ma c’è, con questo tipo di pazienti, un tipico momento di svolta: quando essi confessano di avere una vaga sensazione di falsità non solo nei momenti che dovrebbero essere felici, ma anche in quelli che dichiarano infelici. Quando ammettono a denti stretti di stare un po’ meglio e quasi te ne fanno una colpa, come se tu avessi tolto loro qualcosa; ma nello stesso tempo, si rendono conto dell’incongruità di questo sentire. Quando ciò succede, l’analisi non è finita, tutt’altro, ma procede sulla strada giusta. In casi di questo genere, guarigione e normale felicità possono coincidere.


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[1] Dal 10 al 12 novembre 2006 si è tenuto a Firenze il III Congresso Nazionale di OPIFER (a dieci anni dalla fondazione, nel 150° anniversario della nascita di Freud) dedicato alla nozione di «comune felicità». Il presente scritto corrisponde all’incirca alla prima parte della relazione di apertura.
[2] Cfr. A. SOMASCHINI, La felicità? Cercatela nei libri, “La Repubblica”, 10 maggio 2004, p. 27; C. BORTOLATO, La felicità? È scienza, “La Repubblica”, supplem. Salute, 21 ottobre 2004, pp. 28-31.
[3] Fra gli altri: www.benessere.com/psicologia/feli.htm, www.davidmyers.org/happiness, www.drkenner.com, www.newdream.org (ma si veda anche la nota seguente). Per una visione d’insieme c’è il world data-base of happiness, raccolta internazionale delle ricerche sulla felicità: www2.eur.nl/fsw/research/happiness.
[4] Per es. «L’arte di essere felice», organizzato da Riza Psicomatica: Hotel Executive, Milano 26-28 dicembre 2004. Cfr. L. LAURENZI, Felicità: un’arte da imparare, “La Repubblica”, 22 novembre 2004, p. 25. Più approfonditi e meglio concepito in prospettiva interdisciplinare, i due convegni internazionali rispettivamente organizzati nel nostro Paese dalla Fondazione S. Carlo di Modena, «Felicità» (Modena-Carpi-Sassuolo 21-23 settembre 2001), e dalla Fondazione Carnevale di Viareggio insieme col Centro studi ricerche e formazione “Change”, «Felicità: quale?» (Hotel Esplanade, Viareggio 6-8 febbraio 1997). Prima ancora, una quindicina d’anni fa, il convegno sulla felicità organizzato dalla Federazione Italiana Psicologi (Milano 18 maggio 1991).
[5] Per una prima sintesi di questi studi, cfr. P. LEGRENZI, La felicità, Il Mulino, Bologna 1998.
[6] S. KLEIN, La formula della felicità, Longanesi, Milano 2003.
[7] M. SELIGMAN, Authentic Happiness, Free Press, trad.it. La costruzione della felicità, Sperling & Kupfer, 2003. Sul web: www.authentichappiness.org, www.psych.upenn.edu/~seligman, www.positivepsychology.net.
[8] Su tali caratteristiche e sulle dinamiche relative, mi permetto di rinviare a S. CARUSO, Personalità narcisistica e società dell’informazione, in F. MAISETTI MAZZEI (a cura di), Psicoanalisi Arte Persona, Angeli, Milano 1987, pp. 297-347 (con ricca bibliografia).
[9] Cfr. R. FUNK, Ich und Wir. Psychoanalyse des postmodernen Menschen, Deutscher Taschenbuch Verlag, Munich 2005.
[10] Cfr. J. HILLMAN, The Soul’s Code: in Search of Character and Calling, Random House, New York 1996 (tr.it. Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino, Adelphi, Milano 1997).
[11] «Cum deus in somnis opifer consistere visus» (Metamorphoseon L. xv: 653).
[12] S. FREUD - J. BREUER, Studien über Hysterie (1893-95); tr. it. Studi sull’isteria, in Opere, I, p. 439.
[13] Cfr. http://www.apsa.org/ctf/pubinfo/ask/archive/askarchiveG.html.
[14] S. BECCASTRINI, Dalla salvezza come salute alla salute come salvezza, http://www.matson.it/sonora/html/unlibro.asp?id=1.
[15] S. FREUD, Einleitung zur Psychoanalyse (1915-17), tr.it. Introduzione alla psicoanalisi, in Opere, VIII: Lez. 24.
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