La storia insegna che gli esclusi dalle
diverse forme del potere sono un importante fattore nella nascita di nuove fasi
storiche. Come ricorda Saskia Sassen, professore di sociologia presso
l’università di Chicago, «i grandi sconvolgimenti sociali ci colgono
impreparati, che si tratti della caduta dei regimi poderosi come le dittature
dell’America latina negli anni ‘70 e di Marcos nelle Filippine, o l’estensione
del diritti di voto alle donne e ai neri, o la firma del trattato per la messa
al bando delle mine antiuomo, o la mobilitazione contro la Wto a Seattle. Per quanto la Cia si sforzi di tenere sotto controllo i movimenti sobillatori,
non è mai stato possibile prevedere il sopraggiungere del cambiamento sociale».
Una delle ragioni è che quel che può apparire come un cambiamento improvviso è
il risultato di una lunga storia di pratiche e di lotte organizzate, portate
avanti da attori invisibili ai media. I grandi eventi e cambiamenti sociali
sono spesso costruiti nel corso di decenni dalle esperienze promosse dagli
esclusi. Le donne hanno lavorato per un secolo per ottenere il diritto di voto,
prima che, negli anni ‘50, diventasse una realtà nei paesi ricchi del nord del
mondo.
Così, mentre negli ultimi dieci anni si
è affermata quella che molti definiscono “globalizzazione neoliberista”, è
emersa, in buona parte in reazione al nuovo ordine economico mondiale, una
globalizzazione diversa, creata dalle reti e dalle alleanze transfrontaliere di
movimenti e organizzazioni locali e nazionali che in ogni angolo del mondo si
mobilitano per opporsi all’esclusione sociale, alla diseguale distribuzione
delle ricchezze, all’aumento delle forme di povertà, alla precarizzazione del
lavoro, al declino delle politiche pubbliche, alla distruzione dell’ambiente e
della biodiversità, alle violazioni dei diritti umani.
Appare ormai piuttosto evidente che in
tutti i paesi la globalizzazione ha indebolito il sistema legislativo e ha
rafforzato il potere esecutivo. Il sistema politico economico neoliberista si è
affermato attraverso i mercati elettronici e attraverso una rete di circa
quaranta città globali sparse nel mondo, sfuggendo così alle legislazioni,
sempre più deboli, degli stati-nazione, e spacciando per politiche pubbliche
meri interessi privati. Nel XX secolo i movimenti dei lavoratori avevano
portato all’affermazione di modelli di economia di mercato regolamentata e del
Welfare, come tentativo di tutela dal capitalismo. Ma la controrivoluzione
neoliberista cominciata negli anni Ottanta è sfociata nell’impero
economico/finanziario, ma anche politico e culturale, governato dagli Usa e da
un gruppo di imprese multinazionali: la svolta sono stati gli accordi GATT con i quali l’Organizzazione mondiale del commercio ha stabilito, insieme al
Fondo monetario e alla Banca mondiale, regole chiaramente a vantaggio dei
capitalisti e dei paesi ricchi. In Empire, uno dei testi di riferimento
per molti dei movimenti antiliberisti, Negri e Hardt evidenziano come il
mercato capitalistico è oggi contro qualsiasi divisione tra un dentro e un
fuori il mercato. Tutto è sotto il suo dominio e per questo si può parlare di
sovranità imperiale.
In questo contesto le pratiche dei
movimenti sociali e degli esclusi sono diventate poco a poco più visibili, come
a Seattle nel 1999, a Genova nel 2001, e spesso più influenti di quanto si
pensi, sfruttando le fessure che il liberismo lascia aperte. Lo dimostrano
anche il successo dei Forum sociali mondiali, da Porto Alegre a Bombay, e le
migliaia di lotte locali che coinvolgono organizzazioni sociali e singoli
cittadini in ogni angolo del mondo.
I Forum sociali sono uno
strumento formidabile di scienza sociale, dove si rielaborano permanentemente
le teorie delle trasformazioni. Quei cantieri delle idee mettono in contatto
tra loro popoli e “culture” diverse, ma soprattutto movimenti con storie e
pratiche differenti: i marxismi, il pensiero gandhiano, il femminismo, il
cristianesimo della liberazione, solo per citarne alcuni. La nuova cultura
politica praticata nei Forum e nelle esperienze locali dai soggetti sociali
altermondialisti tende a rigettare tutti i tentativi di gerarchizzazione, che
minano l’uguaglianza, o di uniformazione, che violano la diversità. Non
esistono cioè, secondo questi movimenti, soggetti storici e direzioni di
intellettuali capaci più di altri di guidare la trasformazione del mondo e di
creare nuove relazioni umane e sociali. Ma gli spazi di lavoro politico degli
attori informali sono differenti da quelli dei partiti politici e delle
istituzioni a cui siamo abituati: sono, ad esempio, gli spazi delle città e dei
territori e non i sistemi nazionali di voto o quelli giudiziari, ma anche, cosa
inedita e interessante, le nuove reti
informatiche che collegano tra loro punti diversi nel mondo. Questo per i
movimenti non significa rinunciare allo Stato: significa solo che le forze
politiche informali assumono maggior peso, tentando di trasformarlo sia
dall’esterno, attraverso le pratiche di resistenza, sia dall’interno,
attraverso pratiche alternative e nuovi stili di vita. È quello che in Francia
chiamano "movimento altermondialista" (definizione sicuramente più appropriata di
“movimento no global”), un movimento costituito a sua volta da diversi
movimenti sociali che contestano la globalizzazione, cioè l’occidentalizzazione
del mondo, praticando alternative locali per un mondo più equo.
Lo spazio delle città è privilegiato da
questi movimenti perché favoriscono un’ampia gamma di attività politiche
informali: occupazioni, pratiche di consumo critico, lotte per i diritti dei
migranti e dei senza tetto, politiche per l’autoproduzione culturale, attivismo
gay, esperienze di autoeducazione e di formazione alla cittadinanza attiva,
autogoverno di spazi verdi o urbani, occasioni di mutuo aiuto fuori dalle
logiche del profitto e così via.
Ma le città, non a caso, sono lo spazio
preferito anche dagli effetti più devastanti del neoliberismo. Lo sviluppo
tecnologico degli ultimi vent’anni, informatico e dei mezzi di trasporto, ha
favorito nuove ricchezze e l’affermazione di una cultura consumistica, secondo
la quale tutto è merce: i paesi ricchi sono sempre più ricchi, quelli poveri
sempre più poveri; intanto, anche nei paesi ricchi,
crescono le forme di povertà ed emarginazione sociale. La principale
conseguenza di questo nuovo ordine globale è l’affermazione della società
dell’incertezza, della «società liquida», per dirla con le parole di Zygmunt
Bauman, uno dei più attenti studiosi della società contemporanea. Di fronte a
questi scenari il tipo di “sicurezza” offerta nelle città del Nord e del Sud
del mondo da forze di polizia non è in grado di placare, e tanto meno
sradicare, l’insicurezza esistenziale quotidianamente generata dalla fluidità
dei mercati del lavoro, dalla riconosciuta vulnerabilità dei legami umani.
Scrive Bauman: «Le città contemporanee sono discariche dei prodotti difettosi
della società fluido-moderna e contemporaneamente contribuiscono all’accumulo
dei rifiuti. Ma la città, se è vero che è la discarica di ansie da insicurezza
prodotta a livello globale, è anche un fondamentale campo d’addestramento in
cui è possibile ricercare-sperimentare e imparare a adottare mezzi per placare
e dissipare quell’insicurezza. È nella città che gli estranei si incontrano come
singoli essere umani, si osservano, si parlano, negoziano le regole della vita
comune, collaborano, creano movimenti».
Non c’è dubbio che l’urbanizzazione
della povertà mondiale, corollario del neoliberismo, ha provocato l’incredibile
proliferazione di ghetti. In base alle caute previsioni di ricercatori delle
Nazioni Unite, che ricordano come la popolazione dei ghetti è oggi quasi pari
alla popolazione mondiale del 1850, nel 2030 il mondo sarà abitato da 8
miliardi di essere umani, 5 dei quali vivranno nelle città. Circa 2 miliardi di
lavoratori forniranno la forza lavoro metropolitana all’intera economia, mentre
dai 2 ai 3 miliardi di lavoratori e lavoratrici informali, che vivranno per lo
più in ghetti e baraccopoli periferiche, resteranno fuori dalle relazioni
ufficiali di produzione, sopravvivendo in condizioni di estrema povertà. E
saranno questi ultimi, ovviamente, le principali vittime dei disastri causati
ad esempio dal riscaldamento del pianeta e dall’esaurimento delle risorse
idriche urbane. Conseguenze del modello di sviluppo dei paesi occidentali
(liberista) imposto in tutto il mondo negli ultimi decenni sia da politiche
conservatrici che progressiste. Sviluppo contestato dalla società civile
internazionale. «I nuovi poveri urbani, comunque, non precipiteranno di buon
grado in questa notte oscura» scrive Mike Davis, uno dei più acuti studiosi
californiani di culture urbane «la resistenza dei movimenti che nascono nelle
periferie, in realtà, comincia a rappresentare la principale condizione di sopravvivenza
della razza umana contro l’implicita selezione che viene messa in atto dal
nuovo ordine mondiale. È una resistenza, però, le cui espressioni ideologiche e
politiche non hanno ancora la stella polare storica di una unificazione
globale: non c’è niente che sia neppure lontanamente simile all’Internazionale
comunista». Piuttosto impressionante è che questi movimenti dei ghetti
conservano e trasmettono vecchie solidarietà rurali e nuove forme di mutuo
aiuto, mostrando in alcuni casi capacità formidabili di auto-organizzazione in
contrapposizione agli inefficienti o inesistenti interventi dello stato.
Un’altra caratteristica dei movimenti
altermondialisti, urbani o meno che siano, sta nel fatto che i nuovi aggregati
sociali non “agiscono”, ma sono. Cercano cioè di raccogliere le diversità
sociali e culturali che il liberismo ha prodotto dopo aver frantumato le
antiche classi sociali del fordismo, e provano a mettere in pratica il fare
società al quale ambiscono. Nel caso italiano, ad esempio, quasi l’80% delle
associazioni sono nate dopo gli anni ottanta: l’epoca, cioè, della crisi della
partecipazione politica tradizionale nei partiti o nei movimenti politici post
‘68 e ‘77. Dopo quarant’anni di monopolio dei partiti, dagli anni ottanta i
cittadini hanno dato vita a oltre centoventimila associazioni autonome dal
sistema dei partiti. Un’importante realtà di partecipazione e di democrazia
diretta e intergenerazionale: associazioni di tutela di diritti, di promozione
sociale, di volontariato, di solidarietà internazionale, di tutela
dell’ambiente, senza considerare i numerosi gruppi informali locali. È la
politica in prima persona, contro la delega e il professionismo politico.
Uno dei terreni sul quale si manifesta
la resistenza sociale e si elaborano alternative è infatti quello della
democrazia partecipativa. Gli esperimenti più maturi che combinano democrazia
diretta e rappresentativa sono nati grazie a movimenti del Sud del mondo, in
particolare in Brasile. Il caso della città di Porto Alegre è ora noto in tutto
il mondo. Lo sperimentare una nuova partecipazione includente, e quindi nuove
modalità di democrazia allargata, e il costruire nuovi spazi pubblici di
espressione di soggetti dispersi, ma insorgenti contro il mercato e il pensiero
unico, sono i mutamenti di fondo che Porto Alegre ha espresso prima con le
esperienze di bilancio partecipativo locale, poi ospitando i forum sociali
mondiali. L’essenza degli esperimenti realizzati a Porto Alegre e in altre
città brasiliane ha un nesso con le prime vittorie elettorali alle elezioni
municipali del Partido dos trabalhadores (Pt), che si è impegnato sul
serio e da subito a condividere il potere con i movimenti da cui proveniva (a
differenza di altri partiti dei lavoratori europei). Secondo Hilary Wainwright,
studiosa di esperienze di democrazia partecipativa, due aspetti delle origini
del Pt hanno influenzato quel tipo di democrazia. Primo, il Pt è nato dalla
lotta per i diritti democratici fondamentali contro la dittatura militare,
promossa soprattutto da movimenti popolari di fabbriche, città e campagne.
Secondo, il Pt è stato fortemente influenzato dal movimento della teologia
della liberazione e dalla pratiche di educazione di Paulo Freire, che puntano
alla valorizzazione delle capacità di ogni individuo di soddisfare le proprie
potenzialità, attraverso processi di auto-cambiamento sociale collettivi.
Quindici anni di democrazia
partecipativa promossa da pezzi di movimenti sociali in Brasile e ora anche in
alcune città europee stanno producendo molti risultati locali, non sempre
evidenti: dall’abitudine alla trasparenza delle decisioni pubbliche (con
relativa riduzione dei fenomeni di corruzione) alla graduale e consistente
redistribuzione delle risorse dalle zone più ricche a quelle più povere,
dall’aumento dell’efficienza sociale di alcuni servizi al rafforzamento di una
cultura democratica locale che mette in discussione il ricorso alle
privatizzazioni tramite il concreto coinvolgimento dei cittadini.
D’altronde, il movimento che ha dato
vita alla teologia della liberazione, che in molti pensavano estinto, è in
realtà ancora vivo perché è nato e cresciuto in forme naturali: prima che
esistesse c’erano già comunità impegnate nel sociale, laici cattolici di base
che lavoravano nei processi di formazione, vescovi che denunciavano le
strutture inique della disuguaglianza sociale. La strategia liberatrice
proposta dagli anni ‘70 a oggi dalle comunità di base confida nella forza
trasformatrice degli impoveriti, contando sull’alleanza con altri movimenti
sociali. Secondo Leonardo Boff, professore di teologia in Brasile e grande
sostenitore e teorico di quei movimenti, «siamo di fronte a un tipo di
democrazia nella quale il potere è esercitato in forma più diretta e in
continuo contatto con la fonte di tutto il potere, il popolo. Per questo molte
comunità si pongono in modo molto critico nei confronti dei partiti
tradizionalmente di origine borghese. La fede in quelle comunità incorpora una
visione politica, "fede" significa prassi per la mobilitazione popolare in vista
della liberazione. È quindi una concezione attiva nel mondo, come diceva
Gramsci, e non un ostacolo alla sua trasformazione, come nella visione di
Marx». Le pratiche interne delle comunità ecclesiali di base implicano una
mentalità democratica perché si fondano sulla partecipazione egualitaria di
tutti i membri. La politica appare nel suo significato originario di ricerca
del bene comune, di lotta per la propria emancipazione e per la trasformazione
della società verso forme più partecipative di convivenza.
Per questo, a differenza dei movimenti
di ispirazione marxista, i movimenti antiliberisti oggi non considerano un
obiettivo la presa del potere dello stato. In questo modo non sono più
costruiti come immagine speculare del potere, esercito contro esercito, potere
contro potere. Scrive John Holloway - docente all’università di Puebla
(Messico), tra i principali studiosi di movimenti sociali - in Cambiare il
mondo senza prendere il potere (edito da “Carta” e “Intra moenia”):
«L’anti-potere non è un contro potere ma qualcosa di molto più radicale, è la
dissoluzione del potere. Guardate il mondo al di là dei giornali, dei partiti
politici e delle istituzioni sindacali, potrete vedere un mondo di lotte: i
municipi autonomi del Chiapas, gli studenti universitari, i portuali di
Liverpool, le manifestazioni per la pace, le assemblee di quartiere dei piqueteros in Argentina, i migranti […]. Lotte che mentre dicono ‘no’, sviluppano forme di
autodeterminazione: i mezzi di comunicazione informano su queste lotte solo nella
misura in cui interferiscono con il potere-politico. Il problema
dell’antipotere è la sua invisibilità, per questo, ad esempio, gli zapatisti
usano il passamontagna. Ci copriamo il volto, dicono, affinché ci vedano. In
realtà il passamontagna dice anche che la lotta zapatista è la lotta della
non-identità, è la lotta degli invisibili, la lotta di quelli senza voce e
senza volto». Ma forza dell’anti-potere, aggiunge Holloway, è cercare anche il
superamento della figura del militante diretto e chiedere la forza di tutti
quelli che, in mille modi, rifiutano di sottomettersi, la ribellione delle
persone comuni, «la forza di quelli che rifiutano di trasformarsi in macchine
per il capitalismo».
In un’intervista a “Carta Etc” (3/2006),
Tomás Rodríguez Villasante, docente di Scienza politica all’Università di
Madrid, spiega come «oggi assistiamo ad alcuni cambiamenti sociali storici,
come ad esempio il movimento femminista, che non prende il potere però ha
creato una trasformazione culturale tale da generare cambiamenti nelle
abitudini, a partire dalla vita familiare e quotidiana, o il movimento verde o
del consumo critico, che offre forme di consumo diverse, di denuncia, di
produzione alternativa». Ma per generare nuovi spazi di democrazia, dicono i
movimenti, c’è bisogno di un’economia solidale, alternativa e in parte ancora
connivente con l’economia tradizionale.
Merita infine una segnalazione uno degli
obiettivi più originali dei movimenti sociali altermondialisti, cioè l’invito,
tramite produzioni culturali, esperienze di formazione e di informazione, a
scoprire una storia “altra” spesso assente dai testi scolastici e dai media, e
quindi impossibilitata a incidere nella memoria collettiva. È una storia che si
mette in moto quando un gruppo sociale prende coscienza di se stesso e della
forza che rappresenta. L’intento di una parte di questi movimenti è stimolare
il desiderio di conoscere e sperimentare modalità di azione nonviolenta sia a
livello interpersonale, che macrosociale. Ciò significa, tra l’altro, rendere
omaggio a coloro che hanno “scritto” questa storia “altra” spesso a prezzo
della propria vita. Perché, ad esempio, si chiedono alcuni movimenti in Europa,
celebrare soltanto il coraggio del “resistente armato” al nazi-fascismo e mai
quello del “resistente nonviolento”? Nel 1943, in Italia, era forse più degno e valoroso uccidere un tedesco che salvare un ebreo senza l’uso
delle armi, come hanno fatto migliaia di donne? Dalla resistenza contro
l’occupazione tedesca in Danimarca a quella delle donne contro le mafie, dalla
rivolta nonviolenta che ha coinvolto con successo milioni di persone nelle
Filippine contro un dittatore come Marcos alle opposizioni contro l’Apartheid
in Sud Africa, sono centinaia le esperienze concrete ed efficaci praticate dal
basso. Se la società civile, dicono in sostanza quei movimenti, sarà capace di
accogliere dalla storia le numerose tracce di un altro tipo di difesa, ossia
non di tipo militare, allora l’idea attuale di difesa subirà profonde
trasformazioni. I movimenti indigeni dell’America latina hanno una lunga
esperienza in questo senso, sia nelle loro pratiche antiliberiste che nel loro
modo di fare memoria. Cinque secoli di lotta e di altre resistenze, senza mai
creare macchine da guerra. Gli indigeni lottano per difendere il loro mondo, le
loro “culture”, la loro economia, ma non hanno mai pensato di distruggere
l’altro; vogliono convivere nelle differenze. Ha ragione Raul Zibechi,
giornalista latinoamericano: la chiave del mutamento sociale è la fraternità,
non la guerra, neanche quella di classe. «La fraternità, sorella povera del
moto trinitario della rivoluzione francese è quella che apre la via
all’uguaglianza e alla libertà», come dimostra anche la storia non scritta di
alcuni movimenti che hanno contaminato la società civile internazionale, nel
loro essere reti sociali orizzontali che cercano di estendere all’esterno
gratuità, cooperazione, reciprocità, accoglienza: dalle madres de plaza de Majo ai piqueteros argentini oggi, dai Sem terra alle comunità
ecclesiali di base brasiliane, dalle comunità indigene ecuadoriane, boliviane a
quelle zapatiste del Chiapas, fino agli slum di El Cairo. Ecco perché i
movimenti sociali antiliberisti sono riusciti a sorprendere tutti e a
promuovere nel 2003 la più grande mobilitazione contro la guerra della storia
dell’umanità, coinvolgendo 110 milioni di persone di ogni angolo del mondo.
carmosino@carta.org