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La critica alla globalizzazione: l’“altermondialismo”

Gianluca Carmosino

La storia insegna che gli esclusi dalle diverse forme del potere sono un importante fattore nella nascita di nuove fasi storiche. Come ricorda Saskia Sassen, professore di sociologia presso l’università di Chicago, «i grandi sconvolgimenti sociali ci colgono impreparati, che si tratti della caduta dei regimi poderosi come le dittature dell’America latina negli anni ‘70 e di Marcos nelle Filippine, o l’estensione del diritti di voto alle donne e ai neri, o la firma del trattato per la messa al bando delle mine antiuomo, o la mobilitazione contro la Wto a Seattle. Per quanto la Cia si sforzi di tenere sotto controllo i movimenti sobillatori, non è mai stato possibile prevedere il sopraggiungere del cambiamento sociale». Una delle ragioni è che quel che può apparire come un cambiamento improvviso è il risultato di una lunga storia di pratiche e di lotte organizzate, portate avanti da attori invisibili ai media. I grandi eventi e cambiamenti sociali sono spesso costruiti nel corso di decenni dalle esperienze promosse dagli esclusi. Le donne hanno lavorato per un secolo per ottenere il diritto di voto, prima che, negli anni ‘50, diventasse una realtà nei paesi ricchi del nord del mondo.
Così, mentre negli ultimi dieci anni si è affermata quella che molti definiscono “globalizzazione neoliberista”, è emersa, in buona parte in reazione al nuovo ordine economico mondiale, una globalizzazione diversa, creata dalle reti e dalle alleanze transfrontaliere di movimenti e organizzazioni locali e nazionali che in ogni angolo del mondo si mobilitano per opporsi all’esclusione sociale, alla diseguale distribuzione delle ricchezze, all’aumento delle forme di povertà, alla precarizzazione del lavoro, al declino delle politiche pubbliche, alla distruzione dell’ambiente e della biodiversità, alle violazioni dei diritti umani.
Appare ormai piuttosto evidente che in tutti i paesi la globalizzazione ha indebolito il sistema legislativo e ha rafforzato il potere esecutivo. Il sistema politico economico neoliberista si è affermato attraverso i mercati elettronici e attraverso una rete di circa quaranta città globali sparse nel mondo, sfuggendo così alle legislazioni, sempre più deboli, degli stati-nazione, e spacciando per politiche pubbliche meri interessi privati. Nel XX secolo i movimenti dei lavoratori avevano portato all’affermazione di modelli di economia di mercato regolamentata e del Welfare, come tentativo di tutela dal capitalismo. Ma la controrivoluzione neoliberista cominciata negli anni Ottanta è sfociata nell’impero economico/finanziario, ma anche politico e culturale, governato dagli Usa e da un gruppo di imprese multinazionali: la svolta sono stati gli accordi GATT con i quali l’Organizzazione mondiale del commercio ha stabilito, insieme al Fondo monetario e alla Banca mondiale, regole chiaramente a vantaggio dei capitalisti e dei paesi ricchi. In Empire, uno dei testi di riferimento per molti dei movimenti antiliberisti, Negri e Hardt evidenziano come il mercato capitalistico è oggi contro qualsiasi divisione tra un dentro e un fuori il mercato. Tutto è sotto il suo dominio e per questo si può parlare di sovranità imperiale.
In questo contesto le pratiche dei movimenti sociali e degli esclusi sono diventate poco a poco più visibili, come a Seattle nel 1999, a Genova nel 2001, e spesso più influenti di quanto si pensi, sfruttando le fessure che il liberismo lascia aperte. Lo dimostrano anche il successo dei Forum sociali mondiali, da Porto Alegre a Bombay, e le migliaia di lotte locali che coinvolgono organizzazioni sociali e singoli cittadini in ogni angolo del mondo.
I Forum sociali sono uno strumento formidabile di scienza sociale, dove si rielaborano permanentemente le teorie delle trasformazioni. Quei cantieri delle idee mettono in contatto tra loro popoli e “culture” diverse, ma soprattutto movimenti con storie e pratiche differenti: i marxismi, il pensiero gandhiano, il femminismo, il cristianesimo della liberazione, solo per citarne alcuni. La nuova cultura politica praticata nei Forum e nelle esperienze locali dai soggetti sociali altermondialisti tende a rigettare tutti i tentativi di gerarchizzazione, che minano l’uguaglianza, o di uniformazione, che violano la diversità. Non esistono cioè, secondo questi movimenti, soggetti storici e direzioni di intellettuali capaci più di altri di guidare la trasformazione del mondo e di creare nuove relazioni umane e sociali. Ma gli spazi di lavoro politico degli attori informali sono differenti da quelli dei partiti politici e delle istituzioni a cui siamo abituati: sono, ad esempio, gli spazi delle città e dei territori e non i sistemi nazionali di voto o quelli giudiziari, ma anche, cosa inedita e interessante, le nuove reti informatiche che collegano tra loro punti diversi nel mondo. Questo per i movimenti non significa rinunciare allo Stato: significa solo che le forze politiche informali assumono maggior peso, tentando di trasformarlo sia dall’esterno, attraverso le pratiche di resistenza, sia dall’interno, attraverso pratiche alternative e nuovi stili di vita. È quello che in Francia chiamano "movimento altermondialista" (definizione sicuramente più appropriata di “movimento no global”), un movimento costituito a sua volta da diversi movimenti sociali che contestano la globalizzazione, cioè l’occidentalizzazione del mondo, praticando alternative locali per un mondo più equo.
Lo spazio delle città è privilegiato da questi movimenti perché favoriscono un’ampia gamma di attività politiche informali: occupazioni, pratiche di consumo critico, lotte per i diritti dei migranti e dei senza tetto, politiche per l’autoproduzione culturale, attivismo gay, esperienze di autoeducazione e di formazione alla cittadinanza attiva, autogoverno di spazi verdi o urbani, occasioni di mutuo aiuto fuori dalle logiche del profitto e così via.
Ma le città, non a caso, sono lo spazio preferito anche dagli effetti più devastanti del neoliberismo. Lo sviluppo tecnologico degli ultimi vent’anni, informatico e dei mezzi di trasporto, ha favorito nuove ricchezze e l’affermazione di una cultura consumistica, secondo la quale tutto è merce: i paesi ricchi sono sempre più ricchi, quelli poveri sempre più poveri; intanto, anche nei paesi ricchi, crescono le forme di povertà ed emarginazione sociale. La principale conseguenza di questo nuovo ordine globale è l’affermazione della società dell’incertezza, della «società liquida», per dirla con le parole di Zygmunt Bauman, uno dei più attenti studiosi della società contemporanea. Di fronte a questi scenari il tipo di “sicurezza” offerta nelle città del Nord e del Sud del mondo da forze di polizia non è in grado di placare, e tanto meno sradicare, l’insicurezza esistenziale quotidianamente generata dalla fluidità dei mercati del lavoro, dalla riconosciuta vulnerabilità dei legami umani. Scrive Bauman: «Le città contemporanee sono discariche dei prodotti difettosi della società fluido-moderna e contemporaneamente contribuiscono all’accumulo dei rifiuti. Ma la città, se è vero che è la discarica di ansie da insicurezza prodotta a livello globale, è anche un fondamentale campo d’addestramento in cui è possibile ricercare-sperimentare e imparare a adottare mezzi per placare e dissipare quell’insicurezza. È nella città che gli estranei si incontrano come singoli essere umani, si osservano, si parlano, negoziano le regole della vita comune, collaborano, creano movimenti».
Non c’è dubbio che l’urbanizzazione della povertà mondiale, corollario del neoliberismo, ha provocato l’incredibile proliferazione di ghetti. In base alle caute previsioni di ricercatori delle Nazioni Unite, che ricordano come la popolazione dei ghetti è oggi quasi pari alla popolazione mondiale del 1850, nel 2030 il mondo sarà abitato da 8 miliardi di essere umani, 5 dei quali vivranno nelle città. Circa 2 miliardi di lavoratori forniranno la forza lavoro metropolitana all’intera economia, mentre dai 2 ai 3 miliardi di lavoratori e lavoratrici informali, che vivranno per lo più in ghetti e baraccopoli periferiche, resteranno fuori dalle relazioni ufficiali di produzione, sopravvivendo in condizioni di estrema povertà. E saranno questi ultimi, ovviamente, le principali vittime dei disastri causati ad esempio dal riscaldamento del pianeta e dall’esaurimento delle risorse idriche urbane. Conseguenze del modello di sviluppo dei paesi occidentali (liberista) imposto in tutto il mondo negli ultimi decenni sia da politiche conservatrici che progressiste. Sviluppo contestato dalla società civile internazionale. «I nuovi poveri urbani, comunque, non precipiteranno di buon grado in questa notte oscura» scrive Mike Davis, uno dei più acuti studiosi californiani di culture urbane «la resistenza dei movimenti che nascono nelle periferie, in realtà, comincia a rappresentare la principale condizione di sopravvivenza della razza umana contro l’implicita selezione che viene messa in atto dal nuovo ordine mondiale. È una resistenza, però, le cui espressioni ideologiche e politiche non hanno ancora la stella polare storica di una unificazione globale: non c’è niente che sia neppure lontanamente simile all’Internazionale comunista». Piuttosto impressionante è che questi movimenti dei ghetti conservano e trasmettono vecchie solidarietà rurali e nuove forme di mutuo aiuto, mostrando in alcuni casi capacità formidabili di auto-organizzazione in contrapposizione agli inefficienti o inesistenti interventi dello stato.
Un’altra caratteristica dei movimenti altermondialisti, urbani o meno che siano, sta nel fatto che i nuovi aggregati sociali non “agiscono”, ma sono. Cercano cioè di raccogliere le diversità sociali e culturali che il liberismo ha prodotto dopo aver frantumato le antiche classi sociali del fordismo, e provano a mettere in pratica il fare società al quale ambiscono. Nel caso italiano, ad esempio, quasi l’80% delle associazioni sono nate dopo gli anni ottanta: l’epoca, cioè, della crisi della partecipazione politica tradizionale nei partiti o nei movimenti politici post ‘68 e ‘77. Dopo quarant’anni di monopolio dei partiti, dagli anni ottanta i cittadini hanno dato vita a oltre centoventimila associazioni autonome dal sistema dei partiti. Un’importante realtà di partecipazione e di democrazia diretta e intergenerazionale: associazioni di tutela di diritti, di promozione sociale, di volontariato, di solidarietà internazionale, di tutela dell’ambiente, senza considerare i numerosi gruppi informali locali. È la politica in prima persona, contro la delega e il professionismo politico.
Uno dei terreni sul quale si manifesta la resistenza sociale e si elaborano alternative è infatti quello della democrazia partecipativa. Gli esperimenti più maturi che combinano democrazia diretta e rappresentativa sono nati grazie a movimenti del Sud del mondo, in particolare in Brasile. Il caso della città di Porto Alegre è ora noto in tutto il mondo. Lo sperimentare una nuova partecipazione includente, e quindi nuove modalità di democrazia allargata, e il costruire nuovi spazi pubblici di espressione di soggetti dispersi, ma insorgenti contro il mercato e il pensiero unico, sono i mutamenti di fondo che Porto Alegre ha espresso prima con le esperienze di bilancio partecipativo locale, poi ospitando i forum sociali mondiali. L’essenza degli esperimenti realizzati a Porto Alegre e in altre città brasiliane ha un nesso con le prime vittorie elettorali alle elezioni municipali del Partido dos trabalhadores (Pt), che si è impegnato sul serio e da subito a condividere il potere con i movimenti da cui proveniva (a differenza di altri partiti dei lavoratori europei). Secondo Hilary Wainwright, studiosa di esperienze di democrazia partecipativa, due aspetti delle origini del Pt hanno influenzato quel tipo di democrazia. Primo, il Pt è nato dalla lotta per i diritti democratici fondamentali contro la dittatura militare, promossa soprattutto da movimenti popolari di fabbriche, città e campagne. Secondo, il Pt è stato fortemente influenzato dal movimento della teologia della liberazione e dalla pratiche di educazione di Paulo Freire, che puntano alla valorizzazione delle capacità di ogni individuo di soddisfare le proprie potenzialità, attraverso processi di auto-cambiamento sociale collettivi.
Quindici anni di democrazia partecipativa promossa da pezzi di movimenti sociali in Brasile e ora anche in alcune città europee stanno producendo molti risultati locali, non sempre evidenti: dall’abitudine alla trasparenza delle decisioni pubbliche (con relativa riduzione dei fenomeni di corruzione) alla graduale e consistente redistribuzione delle risorse dalle zone più ricche a quelle più povere, dall’aumento dell’efficienza sociale di alcuni servizi al rafforzamento di una cultura democratica locale che mette in discussione il ricorso alle privatizzazioni tramite il concreto coinvolgimento dei cittadini.
D’altronde, il movimento che ha dato vita alla teologia della liberazione, che in molti pensavano estinto, è in realtà ancora vivo perché è nato e cresciuto in forme naturali: prima che esistesse c’erano già comunità impegnate nel sociale, laici cattolici di base che lavoravano nei processi di formazione, vescovi che denunciavano le strutture inique della disuguaglianza sociale. La strategia liberatrice proposta dagli anni ‘70 a oggi dalle comunità di base confida nella forza trasformatrice degli impoveriti, contando sull’alleanza con altri movimenti sociali. Secondo Leonardo Boff, professore di teologia in Brasile e grande sostenitore e teorico di quei movimenti, «siamo di fronte a un tipo di democrazia nella quale il potere è esercitato in forma più diretta e in continuo contatto con la fonte di tutto il potere, il popolo. Per questo molte comunità si pongono in modo molto critico nei confronti dei partiti tradizionalmente di origine borghese. La fede in quelle comunità incorpora una visione politica, "fede" significa prassi per la mobilitazione popolare in vista della liberazione. È quindi una concezione attiva nel mondo, come diceva Gramsci, e non un ostacolo alla sua trasformazione, come nella visione di Marx». Le pratiche interne delle comunità ecclesiali di base implicano una mentalità democratica perché si fondano sulla partecipazione egualitaria di tutti i membri. La politica appare nel suo significato originario di ricerca del bene comune, di lotta per la propria emancipazione e per la trasformazione della società verso forme più partecipative di convivenza.
Per questo, a differenza dei movimenti di ispirazione marxista, i movimenti antiliberisti oggi non considerano un obiettivo la presa del potere dello stato. In questo modo non sono più costruiti come immagine speculare del potere, esercito contro esercito, potere contro potere. Scrive John Holloway - docente all’università di Puebla (Messico), tra i principali studiosi di movimenti sociali - in Cambiare il mondo senza prendere il potere (edito da “Carta” e “Intra moenia”): «L’anti-potere non è un contro potere ma qualcosa di molto più radicale, è la dissoluzione del potere. Guardate il mondo al di là dei giornali, dei partiti politici e delle istituzioni sindacali, potrete vedere un mondo di lotte: i municipi autonomi del Chiapas, gli studenti universitari, i portuali di Liverpool, le manifestazioni per la pace, le assemblee di quartiere dei piqueteros in Argentina, i migranti […]. Lotte che mentre dicono ‘no’, sviluppano forme di autodeterminazione: i mezzi di comunicazione informano su queste lotte solo nella misura in cui interferiscono con il potere-politico. Il problema dell’antipotere è la sua invisibilità, per questo, ad esempio, gli zapatisti usano il passamontagna. Ci copriamo il volto, dicono, affinché ci vedano. In realtà il passamontagna dice anche che la lotta zapatista è la lotta della non-identità, è la lotta degli invisibili, la lotta di quelli senza voce e senza volto». Ma forza dell’anti-potere, aggiunge Holloway, è cercare anche il superamento della figura del militante diretto e chiedere la forza di tutti quelli che, in mille modi, rifiutano di sottomettersi, la ribellione delle persone comuni, «la forza di quelli che rifiutano di trasformarsi in macchine per il capitalismo».
In un’intervista a “Carta Etc” (3/2006), Tomás Rodríguez Villasante, docente di Scienza politica all’Università di Madrid, spiega come «oggi assistiamo ad alcuni cambiamenti sociali storici, come ad esempio il movimento femminista, che non prende il potere però ha creato una trasformazione culturale tale da generare cambiamenti nelle abitudini, a partire dalla vita familiare e quotidiana, o il movimento verde o del consumo critico, che offre forme di consumo diverse, di denuncia, di produzione alternativa». Ma per generare nuovi spazi di democrazia, dicono i movimenti, c’è bisogno di un’economia solidale, alternativa e in parte ancora connivente con l’economia tradizionale.
Merita infine una segnalazione uno degli obiettivi più originali dei movimenti sociali altermondialisti, cioè l’invito, tramite produzioni culturali, esperienze di formazione e di informazione, a scoprire una storia “altra” spesso assente dai testi scolastici e dai media, e quindi impossibilitata a incidere nella memoria collettiva. È una storia che si mette in moto quando un gruppo sociale prende coscienza di se stesso e della forza che rappresenta. L’intento di una parte di questi movimenti è stimolare il desiderio di conoscere e sperimentare modalità di azione nonviolenta sia a livello interpersonale, che macrosociale. Ciò significa, tra l’altro, rendere omaggio a coloro che hanno “scritto” questa storia “altra” spesso a prezzo della propria vita. Perché, ad esempio, si chiedono alcuni movimenti in Europa, celebrare soltanto il coraggio del “resistente armato” al nazi-fascismo e mai quello del “resistente nonviolento”? Nel 1943, in Italia, era forse più degno e valoroso uccidere un tedesco che salvare un ebreo senza l’uso delle armi, come hanno fatto migliaia di donne? Dalla resistenza contro l’occupazione tedesca in Danimarca a quella delle donne contro le mafie, dalla rivolta nonviolenta che ha coinvolto con successo milioni di persone nelle Filippine contro un dittatore come Marcos alle opposizioni contro l’Apartheid in Sud Africa, sono centinaia le esperienze concrete ed efficaci praticate dal basso. Se la società civile, dicono in sostanza quei movimenti, sarà capace di accogliere dalla storia le numerose tracce di un altro tipo di difesa, ossia non di tipo militare, allora l’idea attuale di difesa subirà profonde trasformazioni. I movimenti indigeni dell’America latina hanno una lunga esperienza in questo senso, sia nelle loro pratiche antiliberiste che nel loro modo di fare memoria. Cinque secoli di lotta e di altre resistenze, senza mai creare macchine da guerra. Gli indigeni lottano per difendere il loro mondo, le loro “culture”, la loro economia, ma non hanno mai pensato di distruggere l’altro; vogliono convivere nelle differenze. Ha ragione Raul Zibechi, giornalista latinoamericano: la chiave del mutamento sociale è la fraternità, non la guerra, neanche quella di classe. «La fraternità, sorella povera del moto trinitario della rivoluzione francese è quella che apre la via all’uguaglianza e alla libertà», come dimostra anche la storia non scritta di alcuni movimenti che hanno contaminato la società civile internazionale, nel loro essere reti sociali orizzontali che cercano di estendere all’esterno gratuità, cooperazione, reciprocità, accoglienza: dalle madres de plaza de Majo ai piqueteros argentini oggi, dai Sem terra alle comunità ecclesiali di base brasiliane, dalle comunità indigene ecuadoriane, boliviane a quelle zapatiste del Chiapas, fino agli slum di El Cairo. Ecco perché i movimenti sociali antiliberisti sono riusciti a sorprendere tutti e a promuovere nel 2003 la più grande mobilitazione contro la guerra della storia dell’umanità, coinvolgendo 110 milioni di persone di ogni angolo del mondo.

carmosino@carta.org
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