1. Filosofo politico
La passione civile non abbandonò mai Antonio Labriola, nutrendone l’insegnamento e accompagnandone lo studio della filosofia. Fu un intellettuale impegnato politicamente come altri prima e dopo di lui: dal suo maestro Bertrando Spaventa a Benedetto Croce, prezioso collaboratore per la pubblicazione dei Saggi intorno alla concezione materialistica della storia, da Giovanni Gentile a Antonio Gramsci, che ne mediteranno, con esiti opposti, il pensiero.
In età giovanile, prima studente e poi giornalista a Napoli negli anni Sessanta dell’Ottocento fu vicino alla Destra storica. Poi, maturata una delusione profonda per la classe dirigente dell’Italia post-unitaria, dapprima si avvicinò a posizioni democratico radicali e, successivamente, scelse il socialismo. Questi cambiamenti politici furono affiancati da una altrettanto profonda e continua rimeditazione delle proprie convinzioni teoriche. Nella città campana si formò alla scuola degli hegeliani, allora guidata da Bertrando Spaventa; docente all’Università di Roma si interessò alla psicologia sociale e alla riflessione di Herbart; infine, la scelta di aderire al Partito socialista scaturì dall’empatia provata nei confronti delle classi socialmente meno abbienti e fu immediatamente seguita da una convinta adesione intellettuale alla prospettiva teorica del materialismo storico.
Articolata e complessa, ma sempre sostanzialmente coerente, fu la sua traiettoria biografica e di pensiero. Sono in particolare due i problemi che conferiscono unitarietà al percorso: l’uno teorico e l’altro politico. Fin dagli studi giovanili, quando aveva «l’animo diviso tra Hegel e Spinoza», come scriverà anni più tardi nel Discorrendo di socialismo e di filosofia (Labriola 1977, p. 205), si impegnò filosoficamente nell’approfondimento dell’idea di libertà: come definirla? Quale rapporto essa intrattiene con la natura? Come prende forma nella storia? Nel corso di tutta la propria produzione teorica, senza mai cadere nel determinismo, Labriola combatté una visione ingenua di questo concetto, sforzandosi di mostrare come esso, al contrario, sia costantemente chiamato a fare i conti con il proprio opposto, la necessità, sia essa psicologica o sociale. Sul versante politico, invece, a motivare pressoché tutte le sue prese di posizione furono la preoccupazione e lo sdegno per la condizione di arretratezza materiale e spirituale, in cui vivevano i ceti meno abbienti nell’Italia post-unitaria. Continua fu la sua lotta per migliorare la vita della popolazione più povera: negli anni Settanta, sotto l’influenza spaventiana e ancora immerso negli entusiasmi risorgimentali, pensò che potesse essere il nuovo stato nazionale il soggetto capace di attuare il processo di modernizzazione. Successivamente, deluso dal trasformismo italiano, maturò la convinzione che l’emancipazione delle classi subalterne si sarebbe verificata solo se queste avessero conquistato autonomamente un’adeguata consapevolezza della propria indispensabilità per la produzione della ricchezza sociale. Fu questa la ragione che lo avvicinò al materialismo storico. A questa scelta Labriola rimarrà fedele fino agli ultimi anni quando, sul crinale tra due secoli, maturò la convinzione che le contraddizioni con le quali il movimento operaio doveva fare i conti erano alquanto complesse e di difficile sovvertimento e, di conseguenza, quella che egli definisce “aspettazione del socialismo”, seppur filosoficamente fondata, avrebbe necessariamente dovuto attendere tempi lunghi per la propria realizzazione.
2. I primi scritti e le esperienze giornalistiche
Come è stato già anticipato, l’incontro fondamentale nella formazione del giovane Labriola fu con Bertrando Spaventa. Avvenne a Napoli, nei primi anni Sessanta, dove l’allora studente di filosofia ne frequentò le lezioni.
Già a Cassino, in una famiglia di modeste condizioni economiche, ma di un certo spessore culturale, Labriola aveva respirato lo spirito risorgimentale grazie al padre, Francesco Saverio, appassionato di archeologia e insegnante di lettere ai Ginnasi, che seguì con passione il farsi del processo unitario. Dopo aver ricevuto una prima formazione impartitagli dallo zio Gaetano, il giovane Antonio compì i propri studi secondari presso l’Abbazia di Montecassino, dove si segnalò per l’intelligenza curiosa e vivace. Trasferitosi a Napoli, nel 1861 si formò sulle pagine di Hegel, cominciando ad interrogarsi su coerenza e razionalità dello sviluppo storico e sull’importanza delle istituzioni politiche per il progresso umano. Problemi questi che ne accompagneranno la riflessione per tutta la vita. Dopo aver cercato un posto da bibliotecario, grazie all’interessamento di Silvio Spaventa, su segnalazione del fratello Bertrando, venne nominato applicato di pubblica sicurezza presso la questura di Napoli. Questo impiego, da Labriola detestato e accettato solo per far fronte alle stringenti necessità economiche, durò dal dicembre 1863 fino al 1865, quando, conseguito il diploma di abilitazione per le materie letterarie nel ginnasio inferiore, insegnò prima al ginnasio dell'ex seminario e poi al Principe Umberto (1866-71); contestualmente impartendo anche lezioni private presso l’istituto di D. Borselli e presso la scuola tedesca di Napoli (per le notizie biografiche e per una ricostruzione complessiva del pensiero si vedano: Miccolis 2004; Burgio 2012).
A questo periodo risalgono i primi scritti, rimasti inediti per lungo tempo: Una risposta alla prolusione di Zeller, datato 3 maggio 1863 (benché per un errore dello stesso Labriola allo scritto è apposta la data 1862) e Della relazione della Chiesa allo Stato, risalente probabilmente agli anni 1864-65. In entrambi appare evidente l’influenza di Bertrando Spaventa. Nella Risposta Labriola critica la proposta filosofica, che veniva avanzata da Eduard Zeller, allora tra i principali esponenti del neokantismo. Dopo Kant e Hegel, Labriola contesta l’idea che si possa fare filosofia, prescindendo dalla connessione tra forme della conoscenza e divenire storico. Leggendo la filosofia di Kant, attraverso la mediazione di Hegel e di Spaventa, le riconosce il merito di aver inteso la conoscenza quale «sintesi originaria» di essere e pensare. Dopo questa svolta, cuore della dialettica, non si può più tornare a Kant, se non attraverso Hegel. Al contrario, Zeller riduce la filosofia a mera teoria della conoscenza e la logica a riflessione metodologica su principi, forme e regole del pensiero, del tutto astratta da ogni riflessione di contenuto. Secondo Labriola, la filosofia non può essere circoscritta allo studio di una gnoseologia individuale, ma deve essere considerata un prodotto dell’intera realtà. Zeller, invece, si fa difensore di una semplice «descrittiva» del processo conoscitivo, uno psicologismo fondato su una base empirica immediata, piuttosto circoscritta. Queste ingenuità nel modo di concepire la teoria della conoscenza dovrebbero impedirgli di definirsi a buon diritto kantiano e a proporsi come restauratore del vero spirito del Criticismo. Per Labriola, la scienza deve invece essere considerata, piuttosto, «un Ideale immanente» «in ogni esplicazione storica». Non un «giuoco soggettivo, ma la consapevole e intima contemplazione della vita reale dell’Universo» (Labriola 2015, p. 28).
Nel secondo scritto di questo primo periodo, Della relazione della Chiesa allo Stato, emerge con chiarezza l’attenzione di Labriola per la questione cattolica, per il ruolo della Chiesa nella politica italiana post-unitaria, così come il suo fermo rifiuto ad ogni possibilità di conciliazione, posizione questa allora comune a tutta la Destra storica. Labriola è convinto che nello Stato moderno si esprima la più compiuta universalità storica. Esso è definito «tutta la sostanza etica di un popolo», rispetto al quale la Chiesa non può che risultare «una forma di società civile» sottomessa non solo giuridicamente, ma anche eticamente. Nonostante la nettezza di questo giudizio, però, Labriola non si abbandona a posizioni meramente liquidatorie come appare dalla distinzione da lui proposta tra religione, intesa come «libera intuizione del destino universale» e Chiesa visibile, definita invece «corporazione, associazione e possesso» (Labriola 2015, p. 129).
Al biennio 1866-67 risale la redazione di un terzo scritto, Origine e natura delle passioni secondo l'Etica di Spinoza destinato, come i precedenti, a rimanere inedito. Letto attraverso la mediazione della filosofia hegeliana, Spinoza è il filosofo dell’immanenza, colui che con la propria teoria della sostanza ha decostruito l’idea di trascendenza e attuato «un progresso immenso sul dualismo cartesiano» (ivi, p. 41). Insieme all’individuazione del carattere monistico e immanentistico della filosofia spinoziana, il tratto peculiare e originale dello scritto di Labriola è l’attenzione agli affetti, alle passioni, alla natura concreta e effettuale dell’uomo che – a giudizio di Labriola – consente a Spinoza di elaborare un’etica anti-soggettivista e anti-volontarista. La filosofia spinoziana sancisce la fine di un modo ingenuo di concepire la libertà come libero arbitrio, riqualificando il volere come ciò che sempre scaturisce da una causa e finisce per produrre un effetto. Per tale ragione, le scelte etiche non devono mai essere dogmatiche, ma vanno prese sempre tenendo in massima considerazione il contesto storico.
Agli studi, negli anni Settanta, Labriola, probabilmente spinto dal bisogno economico, affiancò l’attività di giornalista. Dopo aver conseguito nel 1871 la libera docenza in filosofia della storia nell'ateneo napoletano, dal settembre del medesimo anno al dicembre 1872, collaborò come corrispondente dall’Italia per il giornale svizzero «Blaser Nachrichten». Nell’estate del 1872 pubblicò sulla «Nazione» di Firenze le Lettere napoletane, nelle quali lamentava la condizione di degrado sociale e culturale della popolazione napoletana e la corruzione della classe dirigente italiana. Inoltre, nello stesso periodo scrisse per «Il Piccolo» e la «Gazzetta di Napoli», quotidiani vicini al raggruppamento moderato dell’Unione Liberale, organizzazione politica che si batteva per un superamento della contrapposizione tra Partito d’Azione e Destra storica con l’intento di favorire la costituzione di un nuovo partito di centro (Miccolis 2010, p. 76-77). A partire dal febbraio 1872, entrò nella redazione dell’«Unità nazionale», diretta da Francesco Fiorentino, giornale del quale rimarrà collaboratore fino ad agosto. Infine, dal 1874 sarà al «Monitore di Bologna» come editorialista, trasferendosi anche nella città felsinea dalla quale, però, non cesserà di seguire con preoccupazione, quasi disperazione, le vicende napoletane. Dagli articoli di questo periodo emerge con chiarezza l’attenzione di Labriola per la storia intesa come lo spazio nel quale la libertà passa da una condizione di mera astrazione a forme determinate e necessarie. Questa visione, accompagnandosi alla costatazione dell’arretratezza culturale e politica della società meridionale e, segnatamente, napoletana, lo spinge a considerare l’educazione delle masse popolari un passaggio indispensabile per la piena realizzazione dello Stato unitario (convinzione che rimarrà costante anche quando militerà nelle file socialiste).
3. Herbart e l’ingresso nell’università
Alla fine degli anni Sessanta maturò una prima torsione nella riflessione labrioliana. Egli sembrò infatti prendere le distanze dall’hegelismo degli anni giovanili, avvicinandosi allo studio di Herbart, dell'herbartiano Ludwig Strümpell e della Völkerpsychologie di Moritz Lazarus e Heymann Steinthal. Trattasi delle nuove scienze dello spirito (come la psicologia dei popoli), nelle quali si punta al superamento della soggettività delle forme dell'esperienza al fine di mostrarne il carattere dato (si veda Centi 1984). In realtà, l’interesse di fondo continua ad essere il medesimo degli anni giovanili: l’attenzione per la storia e per le forme di condizionamento sociale della prassi umana. A queste filosofie Labriola si avvicina perché interessato alla messa in connessione di scienza e storia. Di Herbart, in particolare, lo appassiona il tentativo di elaborare una scienza della storia, finalizzata a produrre uno sguardo volto alla spiegazione genetica dei fatti. Sono gli anni dello scritto Dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, pubblicato nel 1871 e fortemente influenzato dal nuovo orientamento teorico. Come già nel lavoro dedicato all’Etica spinoziana, centrale ancora una volta è il problema della libertà. Se, in precedenza, la critica del libero arbitrio era elaborata, facendo riferimento alla ripresa del tema spinoziano della necessità naturale, ora ciò che viene evocato per scongiurare una visione ingenua della libertà è l’attenzione al dato positivo e alle circostanze. Al fine di maturare uno sguardo realmente critico sul reale, l’insegnamento socratico rappresenta ancora un prezioso esempio cui guardare. Esso si pone infatti come un’attività chiarificatoria, che attraverso l’elaborazione di concetti sempre circostanziati, punta a mettere ordine nei criteri e nelle scelte morali, mostrandone l’origine causale, al fine di comprenderne le finalità e le intenzioni.
La vera svolta nella vita di Labriola si verifica, però, qualche anno dopo, nel 1874, quando all’età di trentun anni vince il concorso di Psicologia dell’Educazione presso l’Università di Roma. Rimarrà ad insegnare in questo ateneo fino alla morte, passando all’insegnamento di filosofia teoretica nel 1902.
Per partecipare al concorso, l’anno precedente aveva redatto due scritti un po’ di occasione, sempre di impronta herbartiana: Della libertà morale e Morale e religione. Qui l’analisi psicologica viene individuata quale fondamento per lo studio della morale, poiché essa può fare luce sulla «molteplicità di stati» e di «esperienze interiori» che «formano l’io» e individuano la «reale attività dell’anima» (Labriola 1962, p. 79).
Dal punto di vista politico, invece, Labriola, ancora per tutti gli anni Settanta, rimase nelle file della destra storica, critico della Sinistra, responsabile ai suoi occhi di una degenerazione faziosa e clientelare dello stato. Sempre a questi anni risale l’incontro con Benedetto Croce, avvenuto nel salotto di Silvio Spaventa (che di Croce era lo zio), con il quale strinse un rapporto importante dal punto di vista umano, che si rivelerà anche decisivo per la produzione teorica degli anni a venire.
4. Labriola socialista
L’orientamento politico di Labriola muta ulteriormente nel corso degli anni Ottanta: prima con l’avvicinamento alle posizioni democratiche radicali e poi con l’adesione al socialismo. Tre interventi pubblici, risalenti al triennio 1888-90, ben illustrano l’evoluzione di questo periodo.
In Della scuola popolare ritorna il problema dell’arretratezza culturale italiana. Viene denunciato l’analfabetismo di massa e si afferma che solo il conflitto sociale e di classe può consentire una significativa e necessaria accelerazione del processo di modernizzazione del paese. Appare evidente dalla lettura di queste pagine che è ormai svanita del tutto la speranza, viva ai tempi della destra storica, in un riformismo guidato dall’alto.
La necessità della lotta di classe contro la borghesia, quale unico strumento capace di consentire al proletariato di emanciparsi dalla propria condizione di povertà e sfruttamento, è ribadita anche nelle successive conferenze Del socialismo e Proletariato e radicali. In esse, Labriola denuncia il fatale decadimento di tutta la borghesia, la cesura profonda, ormai pienamente compiuta tra rivoluzione sociale e stato, il necessario distacco che il socialismo deve consumare dalla politica borghese. L’unica speranza di riuscita per il proletariato consiste nella conquista di una piena autonomia culturale e politica, attuabile solo mediante la costituzione di un forte e organizzato partito dei lavoratori.
All’elaborazione di contenuti così radicali Labriola accompagnò un impegno politico che si fece via via sempre più militante. Partecipò al dibattito interno dell’allora nascente Partito socialista. In lui è ormai chiaro che la costruzione di un nuovo partito operaio rappresenti un passaggio indispensabile per poter preparare l’avvento della democrazia sociale del futuro. A partire dal 1890 iniziò la corrispondenza con Engels che Labriola periodicamente informa sulla situazione politica italiana e sul dibattitto ad essa legato. Diverso e più complicato, invece, fu il rapporto con Turati, del quale contestò la linea politica, giudicandola troppo ecumenica e prudente. Nonostante questo i due collaborarono attivamente alla stesura dell’indirizzo di saluto dei socialisti italiani al congresso di Halle (ottobre 1890) della socialdemocrazia tedesca.
E, tuttavia, fin da subito a Labriola furono chiari i problemi con i quali era chiamato a cimentarsi il movimento operaio. Labriola fu sempre critico nei confronti dei gruppi dirigenti socialisti, «una consorteria di politicanti», di cui denunciò l’immaturità culturale e l’impreparazione alla durezza della lotta politica. Contestò la linea politica turatiana, giudicata eccessivamente eclettica, perché favorevole ad un dialogo con la borghesia e con le classi dirigenti. La nettezza di questi giudizi finì per marginalizzarlo all’interno del partito, impedendogli di ottenere quel seggio in parlamento già vanamente desiderato ai tempi della vicinanza alla Destra storica. Questa divaricazione aumentò ulteriormente dopo il congresso di fondazione del Partito dei lavoratori italiani, che si tenne a Genova nel 1892. Seppur di fatto la linea di Labriola, favorevole alla separazione dei socialisti da anarchici e radicali, si rivelò in quella sede vincente, tuttavia, dopo questo evento sempre meno frequente fu la sua partecipazione alla vita del Partito. Nondimeno, continuò a seguire con attenzione la politica italiana: nel 1893 contribuì a far scoppiare lo scandalo della Banca romana e nell’agosto dello stesso anno prese posizione contro le manifestazioni sciovinistiche francesi scoppiate in seguito all’eccidio degli operai italiani ad Aigues-Mortes.
Ritenendo indispensabile per la crescita delle lotte sociali in Italia il raggiungimento di uno sviluppo economico maggiormente avanzato, scrisse alcuni interventi in difesa dell’espansione coloniale in Libia. Nell’ articolo Per Candia (27 febbr. 1897) sostenne la necessità di intraprendere un’azione di conquista della Tripolitania, argomentando che l’Italia aveva bisogno di «terreno coloniale» e ricordando ai socialisti che «non ci può essere progresso nel proletariato, là dove la borghesia è incapace di progredire» (Labriola 1970, p. 433). Al novembre del 1896 risale il discorso inaugurale all’Università di Roma, intitolato L'università e la libertà della scienza, nel quale affermò «l’insopprimibile libertà di insegnamento». Muovendo ampie critiche nei confronti del disinteresse e dell’irresponsabilità mostrate dai colleghi, finì per suscitare così forti polemiche che l’intervento fu rifiutato dall’Annuario dell’Università e venne pubblicato, per iniziativa di Benedetto Croce, in altra sede e solo in un secondo momento.
5. I Saggi sul Materialismo storico
Alla fine degli anni Novanta risale la scrittura dei Saggi intorno alla concezione materialistica della storia.
Il fine di queste opere è la «popolarizzazione» del pensiero di Marx ed Engels. Sono scritti anfibi, in cui il commento alle opere marx-engelsiane è fuso con equilibrio allo sviluppo di un punto di vista autonomo. Come scrisse in una lettera a Engels nel marzo 1893, la difficoltà consisteva nella «mancanza di precedenti letterarii nazionali cui riferirsi» (Labriola 2003, p. 291).
Ancora ritroviamo il medesimo interesse che aveva contrassegnato il suo impegno negli anni napoletani: favorire la formazione culturale e politica del popolo italiano, sottrarlo all’ignoranza per renderlo effettivamente protagonista della propria storia. Per questo motivo si trattava con urgenza di «preparare la educazione democratica del popolo minuto».
La rimeditazione del materialismo storico che Labriola si propose di condurre nei Saggi non deve, però, essere intesa come un mero atto di semplificazione, quanto piuttosto di trasformazione filosofica, che si intende contrapposta alle letture deterministe e economiciste di Marx e di Engels, allora egemoni in Italia, per opera di autori come Maffeo Pantaleoni e Enrico Ferri. Solo cogliendo il significato filosofico della proposta marx-engelsiana, il proletariato potrà conquistare uno sguardo autonomo sul processo di produzione e sulla gerarchia sociale, riuscendo in questo modo a tutelare i propri interessi.
L’obiettivo del primo saggio (In memoria del Manifesto dei comunisti, 1895) è ricordato nel Secondo (Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, 1896):
Mostrare come la concezione materialistica della storia fosse nata precisamente in date condizioni e cioè non come personale e discutibile opinione di due scrittori, ma come una nuova conquista del pensiero per la inevitabile suggestione di un nuovo mondo che si sta generando già (Labriola 2021b, p. 52).
Il materialismo storico viene inteso essenzialmente come una filosofia della storia, ovvero come la comprensione della razionalità intrinseca al divenire sociale. Ciò è possibile in ragione del fatto che la logica storica ha un andamento dialettico, procede attraverso il conflitto di classe, esprimendo il punto di vista di chi quel conflitto continuamente agita: il proletariato. Per questo Labriola può scrivere: «Nella dottrina del comunismo critico, è la società tutta intera, che in un momento del suo processo generale scopre la causa del suo fatale andare, e, in un punto saliente della sua curva, fa luce a se stessa per dichiarare la legge del suo movimento» (Labriola 2021a, p. 33). Per questo, il materialismo storico è in grado di porre mano a previsioni che non devono essere intese come profezie, vale a dire auspici o maledizioni, ma come enunciazioni di ciò che rimane intrinseco alla dinamica storica. «La previsione, che il Manifesto per la prima volta accennava, era, non cronologica, di preannunzio o di promessa; ma era, per dirla in una parola, che a mio avviso esprime tutto in breve, morfologica» (ivi, p. 33). Proprio questa adesione al divenire del reale giustificava la profonda fiducia mostrata da Labriola nella capacità del proletariato di liberarsi dalla condizione di sfruttamento e realizzare una nuova e più giusta società. La «nuova èra [...] sboccia e sorge [...] in modo necessario e ineluttabile» da «leggi immanenti» al divenire storico poiché il «proletariato moderno» è la «forza positiva, dalla cui azione, inevitabilmente rivoluzionaria, il comunismo dovrà necessariamente resultare» (ivi, p.13).
A un anno di distanza dal primo, nel 1896, Labriola pubblicò il secondo saggio: Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare. Già le possibilità di trasformazione politica della società borghese appaiono complicarsi e in una lettera a Karl Kautsky del 23 marzo 1896, Labriola affermava che: «Io per ora sento innanzi tutto il dovere di mettere gli Italiani in grado di conoscere in che consiste il socialismo scientifico. [...] ci vuole l’assimilazione secondo l’angolo visuale del cervello nazionale» (Labriola 2004, p. 31).
Anche in quest’opera, come nel primo saggio, Labriola ritorna sull’identificazione del lavoro quale tratto essenziale dell’esperienza umana, da cui consegue la qualificazione del marxismo come filosofia della storia. Come dirà nel Discorrendo, il saggio si propone di affrontare: «i problemi generali del marxismo» incentrati «per un verso su i limiti e su le forme del conoscere, e, per un’altra parte, su le attinenze del mondo umano col resto del conoscibile e del conosciuto» (Labriola 1977, p. 217). Per raggiungere questo obiettivo occorre respingere ogni interpretazione “verbalistica” del materialismo storico, ovvero evitare l’economicismo nella lettura delle opere di Marx e di Engels. Il materialismo storico non deve essere inteso come una filosofia della storia «schematica, ossia a tendenza e a disegno» (Labriola 2021b, p. 34), ma piuttosto «soltanto come un metodo di ricerca e di concezione» (ivi, p. 38).
Si afferma in questa fase la convinzione che l’avvento del socialismo non si verificherà certamente nell’arco di un tempo breve e che pertanto occorre rimeditare le dottrine marxiste per adeguarle a tempi diversi rispetto a quelli che avevano osservato i due fondatori. La condizione umana viene concepita dal materialismo storico come essenzialmente artificiale e questo determina l’importanza storica delle forme di società che si susseguono e la cui struttura viene plasmata sulla base della divisione sociale del lavoro. Se esiste un minimo comunicatore - l’organizzazione economica appunto . che governa lo sviluppo unitario, Labriola nel secondo saggio pone l’attenzione sulla specificità di ciascuna epoca storica, prendendosela, di contro, con quelle che egli definisce come «filosofie della storia a disegno». Si pensi al pensiero di Spencer accusato di considerare costante, immutabile, non soggetta a variazioni, la legge che governa le relazioni inter-umane: «Il darwinismo politico e sociale ha invaso, a guisa di epidemia, per non breve corso di anni, le menti di parecchi ricercatori» (Labriola 2021b, p. 27). Labriola critica anche quella che definisce come la «teoria dei fattori», consistente in una comprensione dei fenomeni sociali circoscritta, avulsa da una visione complessiva e di fondo. Altrettanto astratto è per lui questo modo di procedere poiché la comprensione dei «fatti complessi», propria della storiografia specialistica, può essere indubbiamente utile a patto che essa non venga scambiata per conoscenza del tutto. Diversamente il materialismo storico, pur non rifiutando di riconoscere la specificità di ciascun ambito non rinuncia, ma anzi pone al centro, l’ambizione di cogliere la totalità del quadro.
Proprio questa attenzione alla complessità delle forme specifiche dell’organizzazione sociale consente a L. di inquadrare in termini altrettanto articolati la relazione tra le forme ideologiche (giuridiche, politiche o culturali) e l’ordine economico ad esse sovraordinato. A questo proposito, Labriola pone l’accento sulla complessità della relazione tra struttura e sovrastruttura.
Dicevo qui poco innanzi, nell’enunciar delle formule, che la struttura economica determina in secondo luogo l’indirizzo, e in buona parte e per indiretto gli obietti della fantasia e del pensiero, nella produzione dell’arte, della religione e della scienza. A dire altrimenti di così, ed oltre di così, sarebbe come mettersi volontariamente su la via dell’assurdo (ivi, p. 77).
Se dico in secondo luogo, gli è per distinguere questi prodotti dai fatti di ordinamento giuridico-politico, che sono vera e propria obiettivazione dei rapporti economici. E se dico in buona parte e per indiretto degli obietti di tali attività, gli è per indicare due cose: e cioè, che nella produzione artistica e religiosa la mediazione dalle condizioni ai prodotti è assai complicata, e poi che gli uomini, pur vivendo in società, non cessano per ciò solo di vivere anche nella natura, e di ricevere da questa occasione e materia alla curiosità ed al fantasticare (ibidem).
Labriola sviluppa in questo modo il tema della scientificità del marxismo già posto nel primo saggio. Data la complessità della relazione tra riproduzione economica e sovrastrutture ideologiche, quale rapporto deve sussistere tra filosofia e scienza? L’opportuno riconoscimento della specificità di ciascun fenomeno empirico, senza compromettere la possibilità di cogliere la logica d’insieme, è ciò che contraddistingue il metodo dialettico - che Labriola preferisce definire genetico. Seppure la storia si muova in un procedere ricco di contrasti e conflitti, i tempi storici, propri di ciascun ambito sovrastrutturale, sono diversi.
Al tema della ridefinizione complessiva del materialismo storico e ai tempi necessari per l’avvento del socialismo, è dedicato anche il terzo saggio Discorrendo di socialismo e di filosofia (1897). Trattasi di una raccolta di lettere indirizzate a Georges Sorel, che era stato l’autore della prefazione all’edizione francese dei primi due saggi. In apertura del volume, l’autore pare schermirsi quando scrive: «Queste pagine recano un qualche complemento, e aggiungono una certa chiarezza ai miei due saggi precedenti» (Labriola 1977, p. 175). Ciò solo in parte è vero. In realtà, abbiamo a che fare con uno scritto complesso, nel quale vengono discussi una pluralità di argomenti già trattati in precedenza. Problema centrale è, ancora una volta, la scientificità del marxismo, sulla quale Labriola riflette a valle dell’apertura di quel dibattitto europeo, a lui coevo, che prende il nome di «crisi del marxismo», secondo la definizione che ne aveva dato Tomáš Masaryk. Nuovamente, viene rivendicata la posizione anti-positivistica già ampiamente sostenuta in precedenza. Alla filosofia è assegnato il compito di indagare criticamente il metodo e la logica assunti dalle scienze applicate, unitamente ai dati da queste rilevati in ambiti circoscritti. Essa viene definita «istrumento critico», a cui compete fornire alle scienze, che in quanto tali si esercitano sempre «sopra un campo circoscritto della realtà», la «chiaroveggenza dei metodi formali e dei procedimenti logici» (ivi, p. 227). Il materialismo storico viene definito una «filosofia immanente alle cose su cui filosofeggia». Esso deve essere inteso come una «filosofia scientifica», dotata di «un metodo genetico inerente alle cose» (ibidem).
Queste posizioni sono ulteriormente precisate grazie alla qualificazione del concetto di prassi, vero e proprio sbocco filosofico della comprensione labrioliana del materialismo storico. Prassi è sintesi fra filosofia e scienza; identità di teoria e pratica. È la realizzazione della prospettiva dialettica, in quanto - e qui Labriola cita quasi testualmente le tesi su Feuerbach - osmosi perfetta tra il momento soggettivo del pensiero e l’oggettività in cui questo si traduce operativamente. Proprio grazie al riconoscimento dell’identità tra soggetto e oggetto, la filosofia della prassi fonda un nuovo empirismo.
Sperimentando, noi diventiamo collaboratori della natura; - noi produciamo ad arte ciò che la natura da per sé produce. Esperimentando ad arte, le cose cessan dall’esser per noi dei meri obietti rigidi della visione perché si vanno, anzi, generando sotto la nostra guida; e il pensiero cessa dall’essere un presupposto, o un’anticipazione paradigmatica delle cose, anzi diventa concreto, perché cresce con le cose, a intelligenza delle quali viene progressivamente concrescendo. (Ivi, p. 210)
La scissione tra soggetto e oggetto può essere così ricomposta in virtù del nostro operare che ci consente di divenire «collaboratori della natura» (onde «le cose cessan dall’esser per noi dei meri obietti rigidi della visione perché si vanno, anzi, generando sotto la nostra guida»). Questa essenzialità del fare per la conoscenza, si accompagna nella filosofia della prassi, al riconoscimento della centralità del lavoro per comprendere storicamente e socialmente l’uomo, il pensare umano e la sua relazione all’insegna della trasformazione della natura. L’uomo vive e pensa per modificare la natura, lo fa sempre in modo determinato e parziale nella forma dell’oggetto che si trova davanti e che concepisce in vista di questa trasformazione. Secondariamente, modificando l’oggetto mediante il lavoro l’uomo perfeziona se stesso e il proprio modo di pensare.
Dicendo praxis, sotto questo aspetto di totalità, s’intende di eliminare la volgare opposizione tra pratica e teoria: - perché, in altri termini, la storia è la storia del lavoro, e come, da una parte, nel lavoro così integralmente inteso è implicito lo sviluppo rispettivamente proporzionato e proporzionale delle attitudini mentali e delle attitudini operative, così, da un’altra parte, nel concetto della storia del lavoro è implicita la forma sempre sociale del lavoro stesso, e il variare di tale forma: - l’uomo storico è sempre l’uomo sociale, e il presunto uomo presociale, o supersociale, è un parto della fantasia: - e così via (ivi, p. 196).
Come già anticipato, un ulteriore tema di riflessione del secondo saggio sono i tempi di realizzazione del socialismo. Labriola sembra più sfiduciato che in precedenza. Il mondo attuale è alquanto complicato e questo non può che determinare un incremento della resistenza al cambiamento. Ciò non significa però che Labriola abbia smarrito la propria fiducia nel socialismo. Seppur i tempi di realizzazione del socialismo sembrano allungarsi, l’organizzazione del sistema economico continua a favorire la tendenza del proletariato «a concentrarsi in partito di classe», aspetto che sul lungo periodo consente ancora di sperare che esso diventi «prevalente, e poscia predominante politicamente nello stato» (ivi, p. 272).
Il problema dei tempi lunghi del socialismo è affrontato anche nello scritto Da un secolo all’altro (solitamente definito in sede storiografica quarto saggio), a cui Labriola lavorerà a partire dal 1901, ma destinato a rimanere incompiuto, a causa della morte dell’autore, dopo lunga malattia, il 2 febbraio 1904.
Prendendo come modello le opere storiche di Marx, Labriola si prefigge di riflettere sulla natura progressiva della storia. La rivoluzione francese (Labriola aveva dedicato a questo evento anche un corso nell’a.a. 1897-1898) è definita come «vertiginoso erompere dell’era liberale» e viene valutata come l’evento che segna l’inizio della modernità. Per questa ragione, deve esserne interrogato il significato rispetto ai conflitti che segnano il mondo contemporaneo. Ancora una volta Labriola istruisce una riflessione di filosofia della storia che mira a individuare i «principi direttivi» di un’epoca (Labriola 2012, p. 107). Come nei saggi precedenti l’epoca attuale è caratterizzata da conflitti, il cui esito appare incerto. L’assenza di una cultura popolare, tema avvertito nuovamente come centrale, rischia di rappresentare un irrimediabile pericolo per la realizzazione di una democrazia pienamente compiuta. Il risorgere del misticismo, la ripresa del cattolicesimo, il proliferare nella società di «caste», «ceti», «consorterie», «combriccole» e «camorre» sono tutti segnali della crisi profonda che per Labriola scaturisce dalla crisi delle organizzazioni politiche del movimento operaio, oltre che dall’assenza di una cultura critica adeguata alla comprensione del presente. Sul piamo internazionale l’espandersi del mercato globale produce sempre più diseguaglianza, favorendo i Paesi «attivi» e «direttivi»; i popoli «neo-germani» e «neo-latini» a svantaggio di tutti i rimanenti (ivi, p. 104). Nonostante questi segnali negativi, Labriola si sforza di individuare anche gli elementi positivi. Proprio a partire dalla Rivoluzione francese, l’idea di progresso si è ormai completamente secolarizzata e, seppur tra grandi difficoltà, la classe operaia non cessa di rivendicare la propria centralità storica, maturando quella che viene definita come l’«etica del socialismo», fondata sul «postulato della solidarietà» (ivi, p. 107). Quella proposta, seppure in forma di frammento, è dunque una lettura ancora una volta capace di evidenziare le contraddizioni del reale. Una volta di più, Labriola si mostra come un autore capace di cogliere la complessità del mondo contemporaneo e della storia che vi sta alle spalle, sempre convinto che il materialismo dialettico rappresenti l’unico strumento mediante il quale riconoscere le contraddizioni del reale e, di conseguenza, lottare per il socialismo.
Riferimenti bibliografici
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- (1977), Discorrendo di socialismo e di filosofia in Saggi sul materialismo storico, a cura di Valentino Gerratana e Augusto Guerra, Editori Riuniti, Roma (p.e.1964).
- (1970), Scritti politici, Laterza, Bari.
- (1962), Ricerche sul problema della libertà e altri scritti di filosofia e di pedagogia (1870-1883), a cura di L. Dal Pane, Opere, vol. III, Feltrinelli, Milano.
- (1959), Scritti e appunti su Zeller e su Spinoza (1862-1868), a cura di L. Dal Pane, in Opere, vol. I, Feltrinelli, Milano.
Miccolis S. (2010), Antonio Labriola, Saggi per una biografia politica, Edizioni Unicopli, Milano.
- (2004), Antonio Labriola, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 62, in parte ripubblicato in «Belfagor», LX, 2005, pp. 55-71.
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