cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

Per una lettura “laica” di Genesi 3

LUIGI ALFIERI
Articolo pubblicato nella sezione "Chi è senza peccato..."

1. Prima di tutto, un necessario chiarimento metodologico. La lettura di Genesi, 3 che qui si propone non è “laica” nel senso che l’autore è “laico”. Nell’accezione impropria di “non credente” o “agnostico”, sì, l’autore è “laico”, ma questo non ha importanza, qui. È la lettura che è “laica” (metodologicamente). Non nel senso che esprime il punto di vista di un non credente, ma nel senso che conduce una precisa operazione sul testo. Lo interroga come se non fosse ciò che da un punto di vista storico-culturale indubbiamente è: un testo sacro e rivelato che trasmette una nozione fondativa di ciò che l’uomo è e di quale sia il suo destino.
Sacro, rivelato e fondativo il testo lo è del tutto indipendentemente dalle personali opzioni religiose, ideologiche, teologiche, filologiche di chi di volta in volta lo legge. Non nel senso che il lettore possa sapere che il testo ha un’origine soprannaturale ed esprime una verità metafisica ed escatologica, ma nel senso che la natura del testo - il suo genere letterario di appartenenza, per così dire - è quella del testo rivelato che esprime una verità sacra. Non siamo minimamente vincolati a ritenere che questa “verità” sia estrapolabile dal testo e proiettabile al di fuori di esso: nel senso cioè che siano storicamente esistiti un Signor Adamo e una Signora Eva e che in seguito a rapporti discutibili di quest’ultima con un Serpente abbiano avuto dei problemi con l’Onnipotente. “Laico” o no, mi permetterei anzi di dare per scontato che soltanto un’estrema ingenuità o un altrettanto estremo sacrificium intellectus possano indurre a pensare che il testo sia “verità” nel senso di: accurato resoconto storico di fatti realmente accaduti in un certo luogo e in una certa epoca.
La questione è tutta un’altra, e cioè che il testo di cui parliamo appartiene a un documento che civiltà plurimillenarie hanno ritenuto e tuttora ritengono di origine soprannaturale e di portata decisiva per la salvezza dell’umanità, dunque ha agito precisamente in questo senso, come rivelazione divina e come messaggio di ammonimento e salvazione per l’umanità, per molti milioni di persone e appunto per millenni. Se poi lo sia “davvero” è questione oziosa. Se lo potessimo sapere potremmo anche sapere tutto il resto e allora non staremmo qui a parlarne.
Il tentativo che mi propongo è di mettere tutto ciò tra parentesi adoperando una fictio metodologica. Facciamo finta che sia un testo qualsiasi, un mito degli aborigeni australiani o una fiaba popolare. O, meglio ancora, facciamo finta che sia un testo di origine e natura sconosciute, facciamo finta che non sia un testo scritto in ebraico e mille volte tradotto in mille lingue diverse: non intendo infatti affrontare questioni filologiche. Prendiamolo come testo puro, imponendoci un “velo d’ignoranza” su tutto ciò che gli sta intorno. Lasciamolo parlare in quanto testo e vediamo cosa ci dice. Dopo lo farò interagire con altri due testi. Vedremo se ne nasce qualcosa.

2. Facciamo finta che il testo non sia notissimo. Leggiamolo, con pazienza, come se fosse la prima volta. Eccolo dunque:

Ora il serpente era astuto più di tutti gli animali selvatici che il Signore Iddio aveva fatto. Disse dunque alla donna: “Davvero Dio vi ha detto: non mangiate di alcun albero del giardino?”.
Rispose la donna al serpente: “Noi possiamo mangiare del frutto degli alberi del giardino, ma quanto al frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino, Dio ci ha detto: Non mangiatene, anzi neppure toccatelo, altrimenti morrete”.
Allora il serpente disse alla donna: “No, voi non morrete, anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangerete vi si apriranno gli occhi e sarete come Dio: conoscitori del bene e del male”. La donna vide che l’albero era buono a mangiarsi, piacevole agli occhi e desiderabile per avere la conoscenza, colse perciò del suo frutto, ne mangiò e ne diede all’uomo che era con lei, il quale pure ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di ambedue e conobbero di essere nudi; intrecciarono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture.
Udirono poi la voce del Signore Iddio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno; allora l’uomo e la sua donna si nascosero dalla vista del Signore Iddio tra gli alberi del giardino.
Ma il Signore Iddio chiamò l’uomo: “Dove sei?”. Questi rispose: “Ho inteso la tua voce nel giardino, ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto”. Ed egli replicò: “Chi ti ha fatto sapere di essere nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui io ti avevo proibito di mangiare?”. Rispose l’uomo: “La donna che mi hai messo a fianco, lei mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”. Il Signore Iddio chiese alla donna: “perché hai fatto questo?”. E la donna rispose: “Il serpente mi ha ingannato e io ho mangiato”.
Allora il Signore Iddio disse al serpente:
Poiché tu hai fatto questo,
sii maledetto fra tutti gli animali domestici
e fra tutti gli animali selvatici.
Tu striscerai sul tuo ventre e mangerai polvere
tutti i giorni della tua vita.
Porrò ostilità fra te e la donna,
fra il tuo seme e il seme di lei.
Esso ti schiaccerà la testa
e tu insidierai il suo tallone.”
Disse poi alla donna:
“Moltiplicherò i tuoi travagli
e le doglie delle tue gravidanze,
nella sofferenza partorirai figliuoli;
verso tuo marito ti spingerà il tuo desiderio
ed egli dominerà su di te.”
E all’uomo disse:
“Poiché hai ascoltato la voce della tua donna
e hai mangiato dell’albero
di cui io ti avevo detto: Non mangiarne,
maledetta sia la terra per causa tua.
Con fatica ne trarrai il nutrimento
tutti i giorni della tua vita.
Spine e cardi ti germoglierà
e tu mangerai l’erba dei campi.
Con il sudore del tuo volto
mangerai il pane,
finché tornerai alla terra,
perché da essa sei stato tratto:
infatti sei polvere e in polvere
ritornerai.
L’uomo quindi diede alla sua donna il nome di Eva, perché madre di tutti i viventi. E il Signore Iddio fece all’uomo e alla sua donna delle tuniche di pelle e ne li rivestì. Poi il Signore Iddio disse: “Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi nella conoscenza del bene e del male. Ora dunque, che egli non stenda la mano e non colga anche dell’albero della vita e ne mangi e viva in eterno”. E il Signore Iddio cacciò l’uomo dal giardino di Eden, affinché coltivasse la terra dalla quale era stato tratto.
Cacciò dunque l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante per custodire l’accesso all’albero della vita.
(Cito dalla Bibbia concordata, a cura della Società Biblica di Ravenna, Mondadori, Milano 1982, vol. I, pp. 38-41).

Cosa leggiamo effettivamente nel testo, dunque, tenendoci ben stretto il nostro velo di ignoranza? Nel testo, il serpente è precisamente il serpente, «astuto più di tutti gli animali». Non è Satana, non è un essere soprannaturale. È un animale parlante. Nulla di strano: in tutti i miti e in tutte le favole gli animali parlano. Siamo all’origine, e così sempre e dovunque è rappresentata l’origine. Del serpente non si dice che è malvagio, si dice che è astuto. Ma in che senso esattamente lo è? È astuto perché scopre una verità nascosta o perché sa mentire con abilità? Eva (che non si chiama ancora Eva, avrà questo nome solo dopo, quando avrà la possibilità e la condanna di diventare madre) lo accusa di averla ingannata. Ma Dio stesso smentisce che si tratti di un inganno. «Il giorno in cui voi ne mangerete vi si apriranno gli occhi e sarete come Dio: conoscitori del bene e del male», dice il serpente a Eva, e Dio conferma: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi nella conoscenza del bene e del male». Il serpente ha promesso a Eva l’acquisizione di prerogative divine, e così davvero è. Non c’è motivo di attribuire a questo strano Dio, che del tutto evidentemente è “pagano”, politeista, non unico ma parte di un “noi” in cui è entrato anche l’uomo, alcun intento ironico. La situazione si è fatta pericolosa riguardo al dominio degli dèi sull’uomo: il privilegio esclusivo della conoscenza del bene e del male non esiste più, ora bisogna difendere il privilegio dell’immortalità: che l’uomo non tocchi l’albero della vita. Dunque il serpente non ha mentito. Se ha ingannato, lo ha fatto in un altro senso. Perché ha rivelato a Eva il segreto dell’albero? Gliene veniva qualcosa?
C’è una specie di “sottotesto” nascosto, che qua e là si può leggere, frammentariamente, in trasparenza. Non perdiamo di vista che gli alberi sono due e che il vero frutto proibito è quello dell’albero della vita. Il frutto dell’albero della conoscenza è proibito come di riflesso. È come se il frutto dell’albero della conoscenza fosse condizione preliminare per l’accesso all’albero della vita: è a questo frutto che il serpente mira, si direbbe. Per qualche motivo (forse semplicemente perché non ha le mani) non può cogliere direttamente i frutti, ma se Adamo ed Eva arrivassero al frutto dell’albero della vita lui potrebbe rubarglielo (esattamente come fa in un testo che appartiene evidentemente allo stesso contesto culturale, l’Epopea di Gilgamesh, dove il serpente ruba all’eroe l’erba della vita). Il serpente vuole rendersi immortale a spese degli uomini: è questo il suo inganno, si direbbe.
Ma se il serpente mente e non mente, Dio mente? Non sopravvalutiamo il Signore Iddio del testo. Non è puro spirito, non è onnisciente, onnipotente, infinitamente buono ecc. È un Baal o uno Enlil qualsiasi. È antropomorfo, passeggia nel giardino per godersi la brezza, fa parte di un noi che è interdetto all’uomo, ma che è evidentemente condiviso con altri. Il suo comportamento non è dei più simpatici e potrebbe benissimo mentire. Ma lo ha davvero fatto, quando ha detto: «Non mangiatene, altrimenti morrete»? Apparentemente sì: Adamo ed Eva non muoiono per nulla, mangiando il frutto proibito. Ma forse no, non ha mentito, perché avendo mangiato il frutto Adamo ed Eva diventano mortali. Il testo ci costringe a interpretazioni contraddittorie perché è esso stesso contraddittorio: rimanda a molti sottotesti diversi che qua e là traspaiono, quasi frammenti di racconti diversi mescolati insieme (come verosimilmente davvero è).
Vediamo che cosa esattamente succede ad Adamo ed Eva per aver mangiato il frutto. Acquisiscono davvero la conoscenza del bene e del male, su questo non c’è dubbio. Ma praticamente cosa significa? Sicuramente significa che diventano esseri sessuati, quindi prima non lo erano. Non sapevano di essere nudi, non perché immaginassero di avere dei vestiti, ma perché non avevano consapevolezza dei propri organi genitali: è ciò che del loro corpo coprono con cinture di foglie di fico, mentre non sentono la necessità di coprire altro. Il bene e il male hanno a che fare con la sessualità. Dobbiamo immaginare che il “peccato originale” sia precisamente la sessualità? Sì, quest’idea è potentemente entrata nel nostro immaginario e non c’è dubbio che millenni di sessuofobia abbiano radice qui. Ma nel testo non compare nessuna espressione che richiami l’idea di peccato e da nessuna parte si dice che il sesso sia male. Ciò che si dice è: prima del frutto, gli esseri umani sono asessuati; dopo, diventano sessuati. In questo c’è contrasto con l’altra versione della creazione dell’uomo in Genesi 2: sappiamo bene che sono due racconti diversi, e in Genesi 2 gli esseri umani sono sessuati da subito (e di “peccato originale” proprio non c’è traccia). Ma lo spazio ci costringe a rinunciare a questo confronto, visto che ci proponiamo di farne altri. Va considerato invece che con la sessualità l’uomo acquisisce una prerogativa divina, diventa “uno di noi”. In che senso? È evidente che il Signore Iddio del testo è concepito come corporeo e sessuato, ma non è questo il punto. Ascoltiamo ciò che il testo ci dice. Non ci dice che il sesso è peccato, ci dice che è conseguenza della conoscenza del bene e del male e che grazie a questa conoscenza gli esseri umani coprono i propri genitali, li rendono interdetti. Non nel senso che non dovranno essere usati, visto che Eva dovrà partorire, ma nel senso che il loro uso non è automatico, pulsionale, naturale, ma subordinato a un atto di volontà e perciò a un atto di libertà. Possiamo leggere nel testo cose diverse. Forse, prima del frutto, Adamo ed Eva erano come bambini. Ma forse, prima del frutto, Adamo ed Eva erano come animali. Forse prima del frutto Adamo ed Eva non facevano sesso, ma forse prima del frutto Adamo ed Eva facevano sesso solo pulsionale. Sicuramente ciò che acquisiscono è la capacità di scegliere, di decidere, di dire di sì e di no. Forse anche la capacità di amarsi. Prima erano esseri naturali, non distinti dal complesso degli animali, con cui infatti potevano comunicare; dopo diventano esseri culturali, storici, dotati di libero arbitrio, chiamati a distinguere tra bene e male. La gestione culturale della sessualità, che porta da un corpo naturale, nudo, a un corpo storico-sociale, vestito, è segno dell’acquisizione del libero arbitrio, che è prerogativa divina, che fa dell’uomo “uno di noi”.
Dunque il libero arbitrio è peccato? Ma dove sta scritto che qui si tratta di un peccato? Si tratta di un atto pericoloso, che mette in discussione la distinzione tra umano e divino e la supremazia del divino e richiede dunque un distanziamento. L’uomo deve essere allontanato dall’Albero della Vita: il succo del discorso è questo.
Dobbiamo tornare all’intreccio di sottotesti, con le inevitabili contraddizioni. Dopo il frutto, l’Albero della Vita è sicuramente interdetto. L’uomo è cacciato dal giardino di Eden e a guardia del giardino sono posti dei cherubini (che non sono paffuti angioletti, ma mostri terribili, tori alati con volto d’uomo) e una spada fiammeggiante. Ma prima?
In realtà, il testo non dice che l’Albero della Vita fosse interdetto anche prima. Alcuni aspetti lo suggerirebbero, per esempio l’astuzia del serpente, come si è detto. Ma esplicitamente il testo, prima del frutto proibito, ci parla solo dell’interdizione dell’Albero della conoscenza. Dobbiamo pensare che l’Albero della Vita, prima, non fosse interdetto? In questo caso, il testo ci direbbe: prima di mangiare il frutto proibito, Adamo ed Eva erano asessuati, privi di libero arbitrio e immortali, parte di una natura perfetta senza tempo e senza storia, ma inconsapevole, animalesca, bambina. Dopo, entrano nella sessualità, nel tempo, nella storia e nella libertà, e se insieme a tutto ciò fossero ancora immortali sarebbero dèi (in un’accezione ovviamente “pagana”, ma pagano il testo lo è, c’è poco da fare). Dunque diventano mortali. Non è tanto una punizione quanto una misura difensiva. Il Signore Iddio prende una serie di provvedimenti di polizia. Il serpente, troppo pericolosamente astuto, viene costretto a strisciare: prima, evidentemente, non lo faceva, camminava come gli altri animali (altra differenza con Genesi 2, dove i rettili sono creati striscianti); per evitare pericolose combutte con gli esseri umani, gli uomini odieranno i serpenti, cercheranno di schiacciargli la testa e i serpenti cercheranno di morderli. Eva, asessuata e immortale, ma sterile, diventerà madre, ma conoscerà il vincolo del desiderio che la spingerà a sottomettersi all’uomo. L’uomo sarà consegnato alla necessità del lavoro. Non più una natura edenica che offre spontaneamente i suoi frutti, ma una terra dura e arida da cui estrarre a forza il pane con il sudore. Di peccato non si parla mai. Tanto meno di un peccato che da Adamo ed Eva si trasmetterebbe all’umanità intera. Questo nel testo non c’è, non traspare neppure dai molteplici sottotesti nascosti. Viene da fuori, è tutto un altro racconto.
C’è uno scenario che il racconto evoca come propria possibile origine. Non un Dio tonante che rivela a venerandi profeti verità eterne, ma un vecchio stanco, seduto al margine di un campo mesopotamico, in un’epoca più o meno neolitica, dopo lunghe ore di sudore della fronte sui solchi della terra. Intorno dei ragazzini curiosi, anche piuttosto spaventati dalla fatica di vivere di cui cominciano a rendersi conto. E chiedono, i ragazzini. “Nonno, perché i serpenti strisciano?”, “nonno, perché il babbo picchia sempre la mamma?”, “nonno, perché dobbiamo lavorare sempre?”, “nonno, perché dobbiamo morire?”. E il nonno, con un sorriso tenero e un po’ colpevole, racconta, cucendo alla meglio frammenti di racconti di molti altri nonni, in un tempo vertiginosamente lungo, che è il tempo del dolore umano.

3. Guardiamo adesso un altro testo che ripete lo stesso racconto, in un modo molto differente. È il Corano, sura II, al-Baqara, ayat 30-39:

E quando il tuo Signore disse agli Angeli: “Ecco, io porrò sulla terra un Mio Vicario (khalifa)”, essi risposero: “Vuoi metter sulla terra chi vi porterà la corruzione e spargerà il sangue, mentre noi cantiamo le Tue lodi ed esaltiamo la Tua santità?” Ma Egli disse: “Io so ciò che voi non sapete”. Ed insegnò ad Adamo i nomi di tutte le cose, poi le presentò agli Angeli dicendo loro: “Or ditemi dunque i loro nomi, se siete sinceri”. Ed essi risposero: “Sia gloria a Te! Noi non sappiamo altro che quel che Tu ci hai insegnato, poiché tu sei il Saggio Sapiente”. Ed Egli disse: “O Adamo, dì loro dunque i nomi di tutte queste cose!” E quando Adamo li ebbe edotti dei nomi, Iddio disse agli Angeli: “Non vi dissi che io conosco l’arcano dei cieli e della terra e so ciò che voi manifestate e ciò che celate in voi?” E quando dicemmo agli Angeli “Prostratevi avanti ad Adamo!”, tutti si prosternarono tranne Iblis, che rifiutò superbo e fu dei Negatori. - E dicemmo: “O Adamo, abita, tu e la tua compagna, questo giardino, e mangiatene abbondantemente e dove volete, ma non vi avvicinate a quest’albero, che non abbiate a divenir degli iniqui”. Ma Satana li fece scivolar di lì e dalla lor condizione li tolse. Così dicemmo loro; “Andatevene a odiarvi l’un l’altro come nemici; sulla terra avrete una sede e un godimento di un’ora”. E Adamo ricevette Parole dal Signore, il quale lo perdonò, poiché Egli è il Perdonatore, il Misericordioso. - Dicemmo dunque loro: “Via tutti dal giardino, e quando riceverete da me una Guida, coloro che seguiranno la Mia Guida non avranno timore né tristezza. - Ma coloro che non crederanno e i Miei Segni smentiranno, ebbene sono del Fuoco, nel quale rimarranno in eterno” (cito da Il Corano, introd. trad. e commento di A. Bausani, Rizzoli, Milano 2016, pp. 6-7).

Un bel testo, molto mosso, polifonico. Si percepisce nettamente il cambio di voce da un versetto all’altro. Ora a parlare è Dio stesso, ora altri parlano di lui, forse Muhammad, forse l’arcangelo Gavril, il rivelatore del Libro. La storia è frammentaria come quasi tutte le narrazioni coraniche e viene ripresa più volte in diverse sure (otto complessivamente), mantenendo la stessa fisionomia di fondo. Non c’è spazio per analizzare le varianti.
È evidente che il secondo testo “conosce” il primo. Lo ha “letto”. Ce l’ha alle spalle e lo reinterpreta, assumendo come punti fermi molte interpretazioni precedenti. Per esempio, il serpente non c’è più, c’è direttamente Satana, che forse è Iblis (altrove sono personaggi diversi). Non si sente neppure il bisogno di dire che ha assunto forma di serpente, sebbene sia probabilmente questo che si immagina. Ma tutta la questione è completamente dislocata rispetto alla lettura che ci è solita. Il punto non è che Adamo è peccatore, ma che Satana è invidioso e ribelle. Tutto nasce dal fatto che Dio vuole un vicario (un Califfo) sulla terra. Qualcuno che la domini e signoreggi in nome suo. Per questo Dio crea l’uomo, non accontentandosi degli angeli. Gli angeli ne sono stupiti, anche offesi. Loro sanno che l’uomo porterà corruzione e violenza sulla terra. Fino a quel momento la creazione è stata perfetta, l’uomo la rovinerà. Per gli angeli è inconcepibile che Dio stesso voglia danneggiare ciò che ha creato. Ma naturalmente Dio sa quello che fa e perché vuole ciò che vuole. Per ragioni che gli angeli non possono capire (e nemmeno gli uomini stessi) l’imperfezione umana e il male portato dall’uomo sono necessari. Dio crea Adamo (l’atto creativo è descritto in altri testi), e gli insegna i Nomi, che gli Angeli non conoscono. In proposito abbondano le interpretazioni esoteriche. Non si tratta solo di dare nomi alle cose, un tratto in comune con Genesi. Per molti commentatori si tratta dei Nomi stessi di Dio, i Nomi Bellissimi. È comunque una sapienza elevatissima che Dio concede ad Adamo: questi conosce i disegni di Dio meglio degli angeli stessi e, a differenza degli angeli, nel progetto divino ha una sua autonomia. Per questo Dio si spinge oltre: ordina agli angeli, creature immortali di luce e fuoco, di sottomettersi a un mortale fatto di terra, di prostrarsi davanti a lui, un gesto che si compie soltanto nella preghiera. Iblis si ribella: secondo i commentatori non è un angelo ma un jinn, creatura immortale ma corporea, intermedia tra gli angeli e l’uomo. A questo punto ci troviamo di fronte all’Albero. Il testo non dice che albero è; in ogni caso, ce n’è uno solo. L’albero della Vita sarebbe da escludere: Adamo ne mangia ma non diventa immortale (anche se Satana glielo fa credere). Dunque è per forza l’albero della conoscenza del Bene e del Male. Ma Adamo conosce già i Nomi, ne sa più degli angeli: di che conoscenza ancora ha bisogno? Questo testo glissa, altri ripetono nella sostanza Genesi; la consapevolezza della nudità, che però viene descritta come un denudamento (sura VII, al-‘Araf, ayat 19-25): prima Adamo ed Eva non percepivano i propri genitali, dopo ne diventano coscienti e se ne vergognano. La conoscenza di cui Adamo ed Eva hanno bisogno è quella del proprio corpo. Sembrerebbe che l’intento di Iblis (in questo caso è lui) sia di umiliare l’uomo che avrebbe dovuto adorare e che gli è costato l’esclusione dalla presenza divina. Quindi il nesso del peccato con la sessualità è accentuato, ma nel senso che la sessualità è conseguenza del peccato, non peccato di per sé. E conseguenza non in sé deteriore, perché apre la possibilità di far durare la vita attraverso la generazione, e dunque introduce nella vita la storia, che in questo caso è storia di salvezza. Il peccato è la disobbedienza, ma non è poi così grave, di certo non è irrimediabile (alcuni commentatori negano addirittura che ci sia peccato, perché quello di Dio era un consiglio, non un ordine: Adamo è stato semplicemente imprudente). L’uomo, che era già mortale, dovrà lasciare le comodità dell’Eden per scendere sulla terra (cui era comunque destinato come khalifa di Dio), dove avrà inimicizia e breve godimento. Ma Dio gli dà Parole, cioè ne fa il primo portatore della sua rivelazione sulla terra. Adamo è il primo profeta, anzi il primo rasul, Inviato: come ogni Inviato, deve rivelare il Qitab, il Libro di Dio, che è tanto Torah quanto Vangelo quanto Corano. Ed esplicitamente Dio lo perdona, subito. Il peccato originale non c’è: c’è una disubbidienza da cui però nasce un cammino di salvezza attraverso la storia, essendo la storia “luogo” della manifestazione di Dio e dimora dei suoi Messaggeri, di cui Adamo è il primo. Non c’è nessuna “caduta” dell’umanità: salvi sono (sin dall’inizio) tutti coloro che non rifiuteranno la salvezza. Verso la salvezza, Adamo è la prima guida.
Il testo, nonostante la sua frammentarietà, è più coerente, vi si percepisce una consapevolezza autoriale, non ha tutti i sottotesti o pre-testi che Genesi ha alle spalle. Il primo testo è ingenuo, il secondo è colto. Il primo testo ha aspetti risibili se presi alla lettera, il secondo si presta a sapienti elucubrazioni esoteriche. Il primo è mitico, il secondo è mistico. Ma il secondo non ci sarebbe senza il primo, che contiene in sé quasi per intero. In fondo non sono due testi diversi, ma lo stesso testo in due fasi del suo sviluppo storico, della sua vita. Perché i testi vivono come gli uomini, ma molto più di loro. In Genesi abbiamo un testo bambino, nel Corano è diventato adulto. Ma c’è un'altra forma adulta del testo, che adesso proviamo a rileggere.

4. Inevitabilmente, si tratta proprio del testo che più di ogni altro ha contribuito al sorgere stesso dell’idea di peccato originale (che è solo cristiana: è assente nell’Islam come pure nell’ebraismo), idea che nasce dal collegamento che viene stabilito tra Adamo e Cristo per rispondere non a una domanda che riguarda Adamo, ma alla domanda per eccellenza che riguarda Cristo: qual è il senso della Croce, perché ce n’è stato bisogno? Si tratta naturalmente di Paolo, Romani 5, 12-21:

Perciò, siccome per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e per mezzo del peccato la morte, e la morte s’è prorogata a tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato... Poiché fino all’avvento della legge il peccato era nel mondo, ma il peccato non è addebitato finché non vi è legge. Eppure la morte regnò da Adamo fino a Mosè, anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. Però la grazia non è come l’errore perché, se per l’errore di quell’uno molti sono morti, quanto maggiormente la grazia di Dio e il dono della grazia in quell’unico uomo Gesù Cristo, hanno abbondato verso molti. E non avviene per il dono come per il peccato di uno solo, poiché mentre il giudizio da un unico errore ha fatto capo alla condanna, la grazia da molti errori ha fatto capo alla giustificazione. Perché, se per l’errore di quell’uno la morte ha regnato mediante quell’uno, tanto più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia, regneranno nella vita per mezzo di quell’uno che è Gesù Cristo. Come dunque per un solo errore la condanna si è estesa a tutti gli uomini così, per un solo atto di giustizia, la giustificazione che dà vita si è estesa a tutti gli uomini. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo molti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo molti saranno costituiti giusti. La legge è intervenuta affinché l’errore abbondasse, ma dove abbondò l’errore sovrabbondò la grazia, affinché, come il peccato regnò nella morte, così anche la grazia regni mediante la giustizia a vita eterna per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore (cito ancora dalla Bibbia concordata, vol. III, pp. 385-386).

Inutile negare che qui il velo di ignoranza sarebbe un’inutile finzione. Non possiamo leggere questo testo come se fosse un testo qualsiasi: è troppo caratterizzato, troppo radicato, troppo datato, troppo storico. Siamo nella prima comunità cristiana, che si chiede come mai Cristo Gesù ha dovuto morire. E quel che viene in mente a molti (non a Paolo, lui è più sottile) è: è tutta colpa di Adamo. A causa del suo peccato, l’umanità è caduta, colpevole e incapace di espiare. Tutti gli uomini sarebbero dannati, ma Dio si fa uomo e lui sì nella sua onnipotenza può espiare. Dunque Dio prende su di sé la pena e perciò anche la colpa. Il sangue di Cristo lava il peccato di Adamo. Per questo nelle leggende e nei dipinti medievali Gesù è crocifisso sulla tomba di Adamo, di Adamo è il teschio che dà il nome al Golgota e su quel teschio cola, salvifico, il sangue di Cristo.
È diventato senso comune, per secoli. L’umanità è caduta, non ci meritiamo niente, Gesù è morto per colpa nostra, la condizione che ci è propria è il male, il luogo che ci è proprio è l’Inferno. Ma non nascondiamoci che la teodicea, già delicata di suo, scricchiola paurosamente. Come? Noi siamo colpevoli agli occhi di Dio di una colpa commessa da un altro millennio prima che noi esistessimo? E l’Innocente, l’Agnello, deve espiare una colpa non commessa da lui e peraltro neanche da noi? E per di più, per credere questo, per credere cioè che Dio è infinitamente buono e giusto anche se si comporta peggio di un Moloch o di un Cronos divoratore dei suoi figli, dovremmo anche credere che tutta questa roba discende per necessità dalla realtà storica di un Signor Adamo e di una Signora Eva che mangiarono una mela (o un fico che fosse) anziché un’albicocca o delle ciliegie? Certo, possiamo tentare ardite e maestose costruzioni teologico-filosofiche sulla colpa insita nell’essere o sulla concupiscenza propria della natura umana, ma le fondamenta su cui costruiamo sono miti o favole o allegorie. E scritti dove? Scritti da chi?
I testi fondativi di questa lettura non sono quelli invocati come tali. In Genesi nessuno ha mai visto un “peccato originale” prima di Ireneo. Mai di peccato originale ha parlato l’ebraismo, mai ne ha parlato l’islam. E Paolo? Paolo ne parla (cioè, è stato storicamente obbligatorio affermare che ne parli) a partire dal Concilio di Trento (e dalla Riforma protestante, ma in un altro modo e il discorso sarebbe troppo lungo). È una lettura che nello scritto di Paolo si è insinuata dall’esterno. Ma in Romani Paolo dice un’altra cosa. Dice che, come per colpa di un altro (e non per colpa nostra) dobbiamo morire, così per merito di un altro (e non per merito nostro) risorgeremo. “Per l’errore di quell’uno la morte ha regnato”, “per mezzo di quell’uno regneranno nella vita”. È il peccato che introduce nel mondo la morte, ma è la morte che si trasmette, non il peccato. Certo, anche la possibilità di peccare è entrata nel mondo, per il fatto stesso che un uomo ha potuto peccare, ma l’attualità del peccato, cioè il fatto che esso sia imputabile come colpa, non dipende dall’atto in se stesso, ma dalla Legge che come colpa lo qualifica e gli irroga una pena, e la Legge è nata con Mosè. La morte regnò da Adamo fino a Mosè, ma non il peccato.
C’è una sorta di positivismo giuridico, nel testo paolino. Non c’è trasgressione se non c’è legge, quindi è la legge a creare il peccato. E la legge è legata a una comunità storica, Israele, ha un inizio nel tempo e ha un limite di validità. Non c’è legge per chi non è ebreo (ma solo diritto naturale), o per chi, diventando cristiano, è entrato nel regno della grazia. E la legge non può essere adempiuta, Israele non c’è mai riuscito. Nella legge non c’è salvezza, ma non si è obbligati a restare sotto la legge, se ne può uscire se a ciò si è chiamati dalla grazia divina.
È logicamente impossibile leggere in Paolo il “peccato originale”, perché esso presupporrebbe che ci sia una sola Legge, eterna e valida per tutti gli uomini, e questo il testo esplicitamente lo nega. C’è un atto singolare e unico di disubbidienza, che Adamo ha compiuto quando ancora non era stata rivelata la Legge e non era ancora stato istituito un popolo di Dio che ne fosse vincolato. In conseguenza di quest’atto è entrata nel mondo la morte, ed è questa che si è propagata a tutti gli uomini, mentre è la Legge che successivamente propaga il peccato (cioè, rende imputabile all’uomo l’imperfezione umana che è conseguenza della morte stessa), ed essendo causa del peccato la Legge non ne è rimedio. Ma solo la Grazia, che chiama a una salvezza eterna che ha come condizione preliminare la vittoria sulla morte. Cristo non è morto per espiare, ma è morto per risorgere. Come chi crede in lui risorgerà. Non c’è più morte, non c’è più legge, non c’è più peccato. L’“umanità caduta” non è cosa di Paolo.
Naturalmente lo si può leggere diversamente, come per secoli si è fatto. Solo che questo non è possibile senza introdurre una frattura nella vita del testo che qui sommariamente cerchiamo di tratteggiare attraverso tre momenti epocali. È evidente l’assenza del peccato in Genesi. È dichiarata la presenza del perdono nel Corano. E proprio nel testo più audace e battagliero, in Paolo che dichiara guerra alla morte e sulla morte proclama vittoria, dovremmo percepire un’antropologia della caduta e della nullità umana?
Smettiamola di leggere una storia di peccato. Abbiamo a che fare con una storia di emancipazione dalla morte. Non importa se non è “vera”. Neanche l’altra lo è e nessuna storia trae senso da una verità esterna, che “non è nel testo”. Si tratta solo (come ben sapevano quei ragazzini del Neolitico...) di essere buoni ascoltatori e di lasciar dire al racconto ciò che dice.



E-mail:



torna su