1. Due rappresentazioni iconiche del nostro presente sono i muri che separano gli Stati Uniti dal Messico e l’Ungheria dai paesi della penisola balcanica, ed è straniante anche solo pensare che fino a un decennio fa la rappresentazione politica più vivida dello spirito del tempo era segnata dal Muro di Berlino; dalla gioia dei tedeschi dell’Est che letteralmente facevano a pezzi un confine, accompagnati dalle speranze di nuovi attraversamenti. Queste aperture ci hanno accompagnato lungo tutto il successivo ventennio “globalista”; portando a compimento quello shock of the global (cfr. Ferguson et alii 2010) che aveva preso avvio già dagli anni Settanta. In quella che appariva come una nuova era politica, all’immagine di uno Stato in “ritirata” (cfr. Strange 1998) si affiancava quella di uno mondo sconfinato (borderless), reso permeabile dalle interdipendenze economiche e dalla funzione trainante di nuovi mercati; «l’economia globale segue la sua logica e sviluppa la sua rete di interessi, che solo raramente replica i tradizionali confini tra gli Stati» (Ohmae 1990, p.183). Sono peraltro gli anni segnati dall’immagine della fine dello Stato nazione e dei territori (cfr. Ohmae 1995; Badie 1995). A questo immaginario hanno posto fine gli eventi e le crisi economiche e politiche seguite al 2001 (cfr. Colombo 2009), con l’indebolirsi del multilateralismo e il crescente ritorno a protezionismi e “localismi”. Il ritrarsi dello Stato sembra oggi un dato congiunturale più che strutturale. Gli stessi processi della globalizzazione sembrano in gran parte diretti (o prodotti) dagli Stati e appaiono come una mera articolazione globale delle loro relazioni. Questo ritorno dello Stato e dei suoi immaginari sovrani, nel quadro della crisi del cosiddetto capitalismo democratico (cfr. Streeck 2013), si accompagnano, peraltro, all’affermazione di nuovi modelli di “democrazia autoritaria” e di liberismo senza liberalismo (cfr. Palano 2019; Revelli 2019).
In questa riorganizzazione di lungo periodo di spazi e spazialità (cfr. Galli 2001; Sassen 2008), in cui la politica sembra ri-centrarsi e lo Stato tornare “sovrano”, le migrazioni e i migranti costituiscono forse un elemento sfuggente, il “perturbante”. Del resto, il rapporto tra lo Stato e i fenomeni migratori è strettissimo e antico: come ben espresso da Abdelmalek Sayad, riflettere oggi sulle immigrazioni ci obbliga innanzitutto a «interrogare lo Stato», a smascherarlo nel suo pensarsi pensando le immigrazioni (Sayad 1996, p.11). Peraltro, svelando quel rapporto diseguale nella distribuzione di opportunità, ricchezze e sviluppo reso palese dal dato che si migra in grande prevalenza “da Sud a Nord”. Attraversando lo spazio confinato ma poroso dello Stato, i migranti mettono il territorio in una costante tensione con l’istanza di identificazione tra “popolo” e nazione. Allo stesso modo, gli immigrati obbligano le stesse democrazie a ripensarsi perché il loro abitare, oltre il risiedere formale, sfida il fondamento nazionale della cittadinanza. In ultimo, l’immigrato è la rappresentazione dell’altro economico-sociale che mette a nudo le forme più dure dello sfruttamento e l’ineludibile mobilità della forza lavoro. Ancora una volta è Sayad a chiarire il punto: «un migrante è sostanzialmente forza lavoro, e una forza lavoro provvisoria, temporanea, in transito» (Sayad 2007, p. 50). Una forza lavoro che attualizza, quindi, la contrapposizione tra “proletariato nazionale” ed “esercito industriale di riserva” e che svela non solo il permanere dello sfruttamento economico, ma anche il comando sul lavoro nelle forme più drammatiche della coazione, del dominio, talvolta delle nuove schiavitù (cfr. Casadei 2016).
In questo breve contributo vorrei restituire i nuclei essenziali di ciò che oggi viene comunemente inteso con l’espressione governance delle migrazioni, a partire dalle trasformazioni che dagli anni ’80 del secolo scorso sono intervenute nella rappresentazione del governo e della sicurezza. Per dare maggiore concretezza a questa rapida lettura, intendo discutere il caso Europeo perché credo rappresenti con efficacia le caratteristiche, nonché i limiti e le ambiguità, di una governance dei fenomeni migratori che si realizza, prevalentemente, come forma sovra-statale di governo dei migranti. Un governo articolato intorno alle logiche diverse, ma concorrenti, della mobilità della forza lavoro, della sicurezza, del diritto umanitario. In ultimo, vorrei sostenere che la dimensione profonda del nostro modo di pensare le migrazioni è nel presupposto del “radicamento” ontologico dell’uomo. Definire una diversa governance per le migrazioni implicherebbe, per contro, assumere la possibilità e il desiderio naturale di sradicamento, che è pure parte essenziale dell’uomo.
2. In uno spazio comune sempre più globale, il migrare è “un fatto sociale totale”. Del resto, da sempre il globo è attraversato da migranti e migrazioni, tanto diverse nelle caratteristiche quanto accomunate dalla storicità e porosità dei confini. Eppure, a fare oggi i conti con i dati, ci rendiamo conto di come le trasformazioni socio-tecnologiche e culturali - non solo le crisi - rendono la nostra un’epoca migratoria. Secondo l’UNHCR oggi ci sono quasi 71 milioni di persone “costrette a fuggire nel mondo”; numeri enormi ma parziali, perché si limitano a censire il corpo ristretto dei migranti forzati per ragioni politiche ed umanitarie su un totale certamente più ampio fatto di migranti economici e ambientali. Proprio questa condizione inedita nelle proporzioni, e nella visibilità, ha fatto emergere l’esigenza di una più complessiva governance globale delle migrazioni che vada oltre la gestione umanitaria delle crisi. Il principio che ne sintetizza la logica è che «Multilateral approaches are essential for promoting orderly and predictable movements of people. Needed is an international migration framework of norms, processes and institutional arrangements to ensure such order and predictability» (CHS 2013, p. 52).
Interrogare i confini e la natura di una possibile governance del fatto migratorio ci obbliga però a fare i conti con alcune questioni teoriche. La prima concerne le profonde trasformazioni nel nostro modo di intendere, oltre che di praticare, i confini. A partire dall’osservazione che, nella cosiddetta globalizzazione, i confini non scompaiono affatto, semmai si moltiplicano per apparire come processi più che cose. Indicazioni importanti arrivano dai border studies, che mostrano la parzialità dell’immagine dal confine (boundary) che definisce la spazialità lineare chiusa e esclusiva dello Stato moderno. Infatti, il confine deve essere distinto dalla frontiera (frontier), rappresentazione di una spazialità politica aperta e duplice: da un lato, uno spazio politico in cui si intrecciano territorialità multiple, concorrenti e un insieme di autorità/competenze parzialmente sovrapposte; dall’altro lato, la rappresentazione tutta simbolica degli spazi (ad esempio, l’“Europa dei diritti” sognata da tanti migranti in fuga). In ultimo, ai tradizionali confini e agli spazi di frontiera si affiancano i borders, intesi come quelle “prestazioni confinarie” che, prescindendo da una specifica configurazione geografica, agiscono come strumenti di segmentazione e stratificazione sociale. Al border come processualità (e quindi dalle politiche di bordering) si accompagnano sempre anche rappresentazioni sociali, visioni, vissuti che possono essere descritti come borderscapes (cfr. Perera 2007; Mezzadra, Neilson 2014; Brambilla 2015).
Alle trasformazioni nel modo di pensare e praticare il confine, si affiancano anche i mutamenti nelle modalità di pensare e rappresentare il governo e la sicurezza. In effetti, a partire dagli anni ’80 del Novecento ci si è convinti che al posto degli Stati potesse emergere una «governance without government» (cfr. Rosenau, Czempiel 1992) dell’ordine globale (cfr. Arienzo 2013 e 2018). Allo stesso modo, il decentramento del ruolo dello Stato fatto emergere dalla governance si è rappresentato nei mutamenti intervenuti nella concezione e negli usi del termine sicurezza nei documenti delle principali organizzazioni internazionali - a partire dalle Nazioni Unite - dai primi anni ‘90. Da categoria articolata intorno alle necessità di auto-conservazione dello Stato, essa è oggi interpretata in un più ampio orizzonte semantico. Del resto, benché il post-’89 non sia stata affatto un’epoca di pace e di ordine, i conflitti emersi sul piano globale hanno raramente assunto la forma della tradizionale guerra tra Stati: dallo scontro “a bassa intensità” tra USA e Libia, al crollo della ex-Jugoslavia con le successive guerre Balcaniche, quindi la Somalia, la Serbia, l’Iraq e la serie delle operazioni di “polizia internazionale”. Il moltiplicarsi di “quasi guerre”, di guerre civili e di interventi umanitari richiedeva un modo nuovo di pensare la security che da un modello diplomatico-militare la riconducesse a un diverso modello “democratico-umanitario”. Con la New Security Agenda dell’ONU (cfr. lo Human Development Report del 1994) verrà quindi sviluppandosi il tema della Human Security articolato nel documento Human Security Now del 2003 (CHS 2003; Scuccimarra 2016). In esso troviamo rappresentate due diverse visioni della sicurezza: la prima, la declina come “conservazione” e difesa dello Stato (safety). La seconda la mette invece in rapporto al tema dello sviluppo (security), e concerne la gestione delle popolazioni col fine di garantire non solo assistenza, ma anche opportunità di crescita socio-economica e di relativo benessere nel medio-lungo politico. In questa nuova visione, l’esistenza di un rapporto inscindibile tra Stato e territorio non è più intesa come la condizione essenziale di sussistenza di un ordine politico-sociale che può reggersi sulla coesistenza di spazialità multiple e di attori molteplici. Allo stesso modo, lo Stato è solo un attore tra altri; si vedano agenzie come l’UNHCR, l’International Organization for Migration (IOM), o l’International Centre for Migration Policy Development (ICMPD), per citare solo alcune delle più rilevanti, nate con il preciso compito di sviluppare competenze, offrire consulenze e di coordinare i processi di migration management sul piano globale. A queste si affiancano ONG e organizzazioni governative o anche aziende. Tanto che per la prima volta nel 2004 l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, nel suo Hague Program del 2004, registrava la «crescente esternalizzazione degli strumenti e delle misure di controllo delle migrazioni, anche di quelle volte a rendere più efficaci le politiche dei rimpatri» (UNHCR 2004, p. 11).
Tutto ciò non significa affatto che l’attuale governance delle migrazioni costituisca un blocco monolitico e integrato di politiche che vanno “oltre gli Stati” e a dispetto di questi, e che quindi sia oggi in campo una qualche struttura globale o addirittura cosmopolitica uniforme e coerente. Questo quadro va invece inteso come l’emergere di istituzioni e processi, ancora frammentari, che operano talvolta a sostegno e in accordo, talaltra in contrasto, con le scelte dei governi nazionali.
3. Se si vuole intendere la complessità e i limiti di questo confuso quadro globale, l’Europa è uno straordinario punto di osservazione per la sua configurazione assolutamente specifica e inedita. Innanzitutto quella europea è una dimensione politica e socio-economica che raccoglie e intreccia spazialità politiche plurali, parzialmente integrate; in secondo luogo, essa ha dato vita a uno specifico modello istituzionale che possiamo definire post-westfaliano, anche se non propriamente ancora sovranazionale. In terzo luogo, perché l’Europa, forse più di altre regioni del mondo, sente il peso di una crisi migratoria che ha visto evaporare in maniera drammatica l’auto-rappresentazione di un continente aperto, inclusivo, solidale e dei diritti. Benché, se si guardano i numeri, appare evidente che non vi sia stata né vi sia affatto una “crisi dei migranti” (se non, forse, limitatamente agli anni dal 2015 al 2017).
La sperimentazione politica europea prende avvio con la costruzione del mercato unico dai Trattati di Roma del 1956 fino al Trattato sull'Unione europea (TUE). Essa si realizza però anche attraverso un percorso politico differente, benché parallelo al primo, che già nei Trattati di Roma trova gli elementi genetici di costruzione di un più ampio spazio di “libertà, sicurezza e giustizia”, così come definito nel Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea, entrato definitivamente in vigore nel dicembre del 2009. Nella strutturazione istituzionale offerta dall’Unione Europea, il nostro continente vive di un peculiare incrocio tra integrazione intergovernativa e prospettiva sovranazionale, realizzando un modello democratico che aspira, in nuce, ad assumere una dimensione non nazionale, anche quando si presenta come l’Europa delle Nazioni. Una delle specificità del continente europeo è anche data alla pluralità dei suoi confini: si pensi alla coesistenza di una zona “di piena integrazione” (i 28 membri dell’UE) cui si affiancano le cosiddette “aree a cooperazione rafforzata” (di cui Schengen è stata per lungo tempo un modello esemplare). Quindi le aree comunemente rappresentate come facenti parte di una impropria “sovranità allargata” (ad es., quei paesi terzi che tuttavia partecipano allo spazio Schengen, peraltro composto da soli 26 stati membri). A queste aree, si sommano quelle di vicinato (più o meno “egemonico”) dell’Unione, nonché quelle che potremmo chiamare “di scopo” (ad esempio, la Higher Education and Research Area) che sono aree a cooperazione rafforzata, ma con confini ben più ampi di quelli europei e in genere basate su politiche multilaterali. Non ultima, l’Euro-zona, a oggi rappresentata da 19 paesi, cui si aggiungono altri 2 stati “in deroga” e altri 7 che intendono adottare l’Euro.
La complessità politico-istituzionale europea è ben rappresentata proprio dalle politiche di governo delle migrazioni e di contrasto all’immigrazione illegale (cfr. Ambrosini 2018; Zanfrini 2019). Si pensi agli strumenti di cui l’Europa si è dotata nel pieno della crisi dei migranti nel Mediterraneo: alla missione “Mare Nostrum” voluta dal governo italiano e che è durata da ottobre 2013 all’ottobre del 2014 con compiti di Search and Rescue (S&R), è seguita la missione "Triton" (novembre 2014) basata sul contributo volontario di 15 dei 28 paesi dell’Unione (una vera e propria area di cooperazione rafforzata). A differenza di "Mare Nostrum", questa operazione aveva come obiettivi il contrasto all’immigrazione clandestina, il controllo dei confini esterni e, solo in subordine, lo svolgimento di attività di S&R. Questa missione è divenuta Themis l'1 febbraio 2018, nei fatti quasi abbandonando del tutto ogni attività di S&R, anche in relazione con gli accordi fatti con le “autorità” libiche. In ultimo, dal giugno 2015 è in atto una diversa missione, chiamata Sophia, che ha una vocazione di controllo dei confini e contrasto al traffico di migranti in particolare dalla Libia, e che si è andata lentamente ridimensionando a causa dei contrasti tra il governo italiano e gli altri paesi europei che vi partecipano, in particolare la Germania. Pur nelle ambiguità e contraddizioni delle risposte date alla cosiddetta crisi dei migranti (tra aperture e improvvise chiusure), l’Europa ha cercato di elaborare una politica migratoria propria, la cui base giuridica è negli articoli 79 e 80 del Trattato sul Funzionamento dell’UE (Trattato di Lisbona del 2008 e sue modifiche successive, fino alla a versione consolidata del 2012). Il Trattato stabilisce la piena competenza dell’Unione sulle politiche di governo delle migrazioni regolari, fatta eccezione per la definizione di flussi nei singoli paesi che resta di competenza delle autorità nazionali. All’Unione compete anche la definizione di strumenti a sostegno delle politiche dei singoli stati per l’integrazione. Politiche che restano, quindi, di prevalente competenza nazionale e per le quali non si prevede alcuna armonizzazione degli ordinamenti o delle regole. Il contrasto all’immigrazione irregolare è invece competenza non esclusiva dell’Unione, al pari della possibilità di stipulare accordi di riammissione con paesi terzi. L’articolo 80 stabilisce, infine, in materia di gestione delle migrazioni un principio di solidarietà che prevede anche impegni finanziari condivisi. In questo contesto, opera il Regolamento di Dublino che stabilisce invece i criteri e i meccanismi di «determinazione dello Stato membro competente» ai fini dell’esame di domande di protezione internazionale presentate in uno degli Stati membri da «un cittadino di un paese terzo o da un apolide».
È interessante rilevare che già l’art. 48 del Trattato di Roma, nel percorso di costruzione del mercato unico, si poneva il problema di definire quelle politiche necessarie a garantire la libertà di circolazione dei lavoratori all’interno dei confini. Proprio questo percorso di definizione di “confini esterni” distinti dalle frontiere interne ci conduce fino agli accordi di Schengen del 1984. Schengen, in effetti, è un momento decisivo della storia d’Europa recente, tanto che lo si potrebbe interpretare come il punto di rottura della “naturale” associazione tra confini, sovranità nazionali e territori, a favore di una gestione dei confini a “geometria variabile”. Come ha ben mostrato Giuseppe Campesi, dietro Schengen convivono conflittualmente due differenti modelli geo-strategici: un primo centrato sul controllo condiviso dei valichi di frontiera e delle principali vie di comunicazione interne; un secondo, basato sulla necessità di dotarsi di strumenti di sorveglianza delle zone di confine “esterno” (cfr. Campesi 2015). Rappresentativa di questa duplicità, e delle sue drammatiche ambiguità, è proprio L'Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (più conosciuta come "Frontex", nata nel 2016 dalla precedente Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea anch’essa denominata "Frontex"). Questa Agenzia ha l’obiettivo di favorire e sostenere la cooperazione tra le forze di polizia dei paesi membri per il controllo dei confini interni, e di rafforzare il controllo dei confini esterni attraverso uno strumento comune. In tal senso, essa ha effettivamente rappresentato il tentativo dare vita a una gestione “post-nazionale” delle frontiere, implicando una trasformazione dei capisaldi fondamentali della concezione classica della sovranità. Per questa caratterizzazione sovra-nazionale, eppure ibrida, i casi dell’agenzia "Frontex" e della gestione dell’area Schengen hanno messo in questione sia l’idea che lo Stato nazione possa continuare a considerarsi “assoluto” (ab-solutus) nella gestione dei suoi confini, sia che esso sia destinato a essere “borderless”. Del resto, proprio Schengen ha mostrato anche come il problema posto dal governo delle migrazioni interne abbia sottratto l’immagine dei movimenti migratori all’orizzonte umanitario, per associarlo allo spazio comunicativo, immaginario e giuridico dell’ordine pubblico. Restituendo centralità proprio a una delle dimensioni centrali del dispositivo sovrano. Peraltro, entrando in tensione con il principio della libera circolazione dei lavoratori (forza lavoro) che si proponeva di favorire innanzitutto il superamento dei confini nazionali. Per venire incontro a queste due apparentemente opposte istanze, l’attuale modello di migration management europeo si basa su una politica sempre più selettiva di inclusione differenziale delle “competenze”, tanto da spingere a individuare normative migratorie “settoriali”, ossia differenti per i diversi settori produttivi. Politiche selettive (se si vuole selettivamente porose) che si associano, non a caso, con una maggiore rigidità nella gestione dei confini esterni e col restringimento degli spazi di accoglienza umanitaria. Si vedano sia l’Agenda Europea per le Migrazioni del 2015, sia il più recente Progress report on the Implementation of the European Agenda on Migration della Commissione.
Il quadro che ho restituito è certamente parziale e solo in parte indicativo di quanto accade sul piano di un ipotetico migration management globale. Le specificità delle politiche europee delle migrazioni vanno peraltro ricostruite anche nelle loro relazioni dirette con le politiche europee sull’invecchiamento attivo (il tema della tenuta demografica europea); con i percorsi di revisione dello stato sociale assistenziale; con i limiti e i fallimenti rappresentati dall’allargamento a Est (fino a ieri la vera frontiera d’Europa); con i giganteschi processi di riorganizzazione degli spazi logistici e produttivi (cfr. Grappi 2016). Certamente, dopo Schengen, la libera circolazione dei lavoratori non è stata più vista come un’opportunità, ma come elemento di rischio e di minaccia. Tuttavia, non dissimile è il quadro globale emerso dalla crisi del cosiddetto trentennio globalista. In questo contesto storico, la ridefinizione dei rapporti tra confini, frontiere e borders ha certamente indebolito la tipica gestione militare dei confini, ma ha favorito nel contempo un approccio alla gestione delle migrazioni che si situa a cavallo tra la sfera del diritto criminale (il reato di immigrazione clandestina) e quella del diritto amministrativo (le sanzioni contro le ONG). Queste zone di pienezza amministrativa e securitaria segnano - al centro il ruolo di agenzie come "Frontex" oltre che degli Stati nazionali e dei loro organi - una sorta di continuum operativo tra una vera e propria “burocrazia multilivello”, che opera dentro e oltre lo Stato, e le autorità nazionali (ancora su questo, vedi Campesi 2015). L’Europa (ma il discorso potrebbe allargarsi ad altri contesti) non esita infatti a esternalizzare i propri borders, nonché le politiche e gli strumenti di controllo dei confini e parte delle politiche di gestione delle migrazioni (le vicende turca e libica sono esemplari). Il confine europeo è quindi de-territorializzato e si è da tempo sganciato delle tradizionali linee di confine dei singoli Stati. Esso costituisce oggi una composizione articolata di partizioni funzionali e operazionali, il cui governo politico resta diviso tra “sovranismo” ed “europeismo”, e tenta di far convivere le istanze talvolta opposte della sicurezza identitaria, del governo della forza lavoro, della tutela umanitaria dei diritti.
4. Nell’ottica di quell’insieme di esperienze diversissime che possiamo ricomprendere nell’espressione governance delle migrazioni, queste ultime appaiono essenzialmente come una “mobilità umana da governare” a partire da una logica del “radicamento”. Gli uomini sono immaginati come “ontologicamente radicati” e i loro spostamenti come risposte a bisogni determinati dal lavoro o da necessità umanitarie. Proprio nell’idea dell’essere radicati ci sono allora le ragioni del nostro immaginare la migrazione come minaccia e come “colpa”: le migrazioni costituiscono, infatti, una condizione quasi “innaturale” che minaccia: a. l’ordine (pubblico) e la sicurezza dello Stato-nazionale; b. le identità; c. il buon governo dell’ordine socio-economico nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Eppure, i flussi migratori non sono determinati unicamente da fattori e condizioni strutturali di penuria o insicurezza, ma anche da desideri soggettivi eccedenti rispetto ai contesti di provenienza (cfr. Mezzadra 2006). Pur nel contesto e nelle condizioni storico-sociali date, le migrazioni esprimono una istanza di autonomia e una ricerca di felicità che non sono riducibili al diritto umanitario o all’impiego della propria forza lavoro. Per questa ragione, nella logica politica dello Stato e in quella della cosiddetta governance delle migrazioni, la mobilità incessante e imprevedibile delle migrazioni sembra apparire come il rischio dell’ingovernabile: fatto di singolarità che accettano il sacrificio della loro vita perché non sono disposte a una vita di sacrificio.
Col loro portato “etnico-razziale” e sociale, le migrazioni sfidano i presupposti nazionali e identitari dello Stato (cfr. Mellino 2019; Balibar 2003). Come ha bene mostrato Maurizio Ricciardi, le migrazioni contribuiscono al processo di de-costituzionalizzazione dello Stato, poiché rivelano la cesura tra il soggetto costituente (il sovrano popolare) e le singolarità che vivono e abitano i territori (cfr. Ricciardi 2017). Il migrante è a un tempo il “non ancora” della comunità e il “non più” della cittadinanza. In effetti, migrazioni, eccedenze di desiderio, ibridazioni culturali prodotte da quanto chiamiamo genericamente globalizzazione, sconfinano gli spazi simbolici e identitari che segnano gli Stati e i loro territori. E se lo Stato non ha un territorio, ma è un territorio (cfr. Romano 1950), questo deve oggi fare i conti col moltiplicarsi delle relazioni che s’instaurano tra soggettività diverse, diversamente radicate, che contrastano con la rigida partizione spaziale tra dentro e fuori e con il suo presupposto ideale: l’identità nazionale. In questa prospettiva, la sfida posta da un diverso approccio alle migrazioni è sia nell’abbandonare la centralità del governo dei flussi e la logica del radicamento (un impegno essenzialmente etico), quanto di fare i conti con le condizioni economiche e politiche che danno forma e guidano i processi di bordering. Solo a queste condizioni sarà forse possibile passare da una governance delle migrazioni ad una governance per le migrazioni, che sappia accogliere ciò che è proprio dell’uomo: il viaggio, il fluire dei desideri, l’incessante ricerca di una vita buona, l’abitare.
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