1. La politica come tecnica**
Machiavelli traccia, alle soglie della modernità, i due percorsi che condurranno alla frattura con la precedente tradizione aristotelica e tomista. Sono profondamente diversi, ma convivono - non senza contraddizione - nel suo pensiero.
Il primo va verso la tecnicizzazione della politica e si basa sulla programmatica censura di ogni intento morale. Così riduce la riflessione sulle cose politiche ai suggerimenti funzionali per conquistare e, soprattutto, per mantenere il potere. E la conquista-mantenimento del potere non è, in tale prospettiva, un obiettivo classificabile moralmente. È piuttosto un fatto del mondo politico nella sua incontestabile realtà, al quale, per il Segretario fiorentino, solo un ingenuo moralismo può opporre altre finalità, del tutto immaginarie e illusorie. La dichiarazione più esplicita è probabilmente quella contenuta nel §1 del cap. 15 de Il Principe:
sendo l’intento mio, scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa [...]; perché elli è tanto discosto da come si vive a come di doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare impara più presto la ruina che la preservazione sua (Il Principe, vol. I, tomo 1, pp. 215-216 [c. XV]).
In tal modo - è stato osservato con qualche buona ragione - è prefigurato, pur da lontano, il modello della political science come tipo di ricerca che, prescindendo da riferimenti morali, si volge con scaltrito disincanto al campo dell’agire politico per insegnare la previsione delle conseguenze che ogni atto e ogni evento hanno sulla difficile, talvolta tragica, gestione del potere, sia esso quello della repubblica o del principato. Machiavelli definisce «virtù» la capacità di operare in questo insidioso campo, virtù che in lui diventa, attraverso una radicale frattura nei confronti della tradizione, mera competenza tecnica e non più pratica di vita, com’era stato in Aristotele e nella tradizione che da lui si diparte.
I termini del problema politico sono nettamente tracciati e illustrati da Machiavelli con note e calzanti metafore. Alla virtù concepita quale accortezza strategica fa da contrappunto la «fortuna» [simbolizzata nel fiume in piena e nella volubilità femminile (cfr. ivi, pp. 302-303, 309-310 - c. XXV)], che altro non è se non l’incombere imperscrutabile del caso. La permanenza nel tempo dei moventi umani, cioè l’immutabilità della natura dell’uomo [cfr. per esempio Discorsi, vol. I/2, tomo 1, pp. 177-178 (libro I, c. 17), 194-195 (libro I, c. 39), 300-301 (libro II, Proemio)], conferisce allo studio della storia la grande importanza data dal fatto che, conoscendo come gli uomini si sono comportati in passato, sarà più facile il calcolo degli effetti che potranno scaturire dalle decisioni e dalle azioni dei governanti. Si rammenti il proemio del I libro dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio:
nello ordinare le repubbliche, nel mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia e amministrare la guerra, nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio, non si truova principe né repubblica né capitano che agli esempli delli antiqui ricorra. Il che credo che nasca [...] da non avere vera cognizione delle storie, per non trarne, leggendole, quel senso, né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che infiniti che le leggono pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, sanza pensare altrimenti di imitarle, giudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile: come se il cielo, il sole, li elementi, l’uomini fussino variati di moti, d’ordine e di potenza da quelli che gli erono antiquamente [ivi, pp. 8-9 (libro I, Proemio)].
Nella parte finale del capitolo 11 del libro I dei Discorsi, a proposito di Girolamo Savonarola, Machiavelli, sempre sulla stessa linea, osserva:
Al popolo di Firenze non pare essere né ignorante, né rozo; nondimeno, da frate Girolamo Savonerola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare s’egli era vero o no [...]: ma io dico bene che infiniti lo credevano, sanza avere visto cosa nessuna strasordinaria da farlo loro credere [...]. Non sia pertanto nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire quel che è stato conseguito da altrui: perché gli uomini, come nella prefazione nostra si disse, nacquero, vissero e morirono sempre con uno medesimo ordine [ivi, pp. 82-83 (libro I, c. 12); cfr. anche p. 194 (libro I, c. 39)].
Ci troviamo di fronte non tanto al rigetto dei princìpi politici consolidati in una secolare tradizione, quanto alla sospensione del giudizio su di essi, motivata con il rinvio all’esperienza, la quale insegna, a chi vuole veramente tenerne conto, che il dato cruciale della politica è la ricerca del potere. Possono essere (e storicamente sono stati) molto diversi gli strumenti per ottenerlo, gli accorgimenti per mantenerlo, le giustificazioni con cui di volta in volta si è ricoperta e si ricopre la nuda crudezza del dominio. Ma sempre uguale rimane, comunque, la realtà che ciascuno di questi mezzi fa scoprire dietro l’apparenza, cioè dietro la simulazione e la dissimulazione, giacché «sono tanto semplici gli òmini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare» [Il Principe, pp. 237-238 (c. XVIII); cfr. anche pp. 241-242].
La ragione calcola e non prescrive; lo fa seguendo la logica, unica possibile, del se...allora: se si riconosce, come la storia passata e presente puntualmente conferma, che la ricerca del potere è l’aspetto dominante della vita politica, allora l’essenziale diventa individuare le strategie più idonee per raggiungere quest’obiettivo. Così, ammonisce Machiavelli nel capitolo XV, è la «verità effettuale». E la necessità spinge a usare tutti i mezzi utili allo scopo, relegando l’idealismo politico, in ogni sua forma, nel dominio dell’immaginazione.
Un importante corollario di tutto ciò è che la tecnica politica, per la sua stessa natura, può essere messa a disposizione di chiunque aspiri a governare; è costituita da un insieme di accorgimenti neutri, atti a servire ogni regime e ogni soggetto politico [cfr. Discorsi, p. 199 (libro I, c. 40) e pp. 212-213 (libro I, c. 42)]. Ricade perfettamente entro tale impostazione metodologica la parte del Principe in cui Machiavelli, dopo aver distinto le «repubbliche» dai «principati» [Il Principe, p. 63 (c. I)], classifica le tipologie del principato in funzione dei due criteri costituiti dalla facilità/difficoltà del conquistare e mantenere. E vi rientra anche la parte nella quale, a partire dal capitolo XV, analizza i «modi» del governo del principe.
In entrambi i casi Machiavelli non adotta un metodo prescrittivo, ma (con i limiti che dirò poi) descrittivo. Punta cioè a chiarire la situazione entro la quale il principe si trova ad agire. E tale situazione è diversa, per esempio, nel caso in cui si tratti di «stati ereditari» [ivi, pp. 66-68 (c. II)] o «nuovi», sia che questi ultimi «si aggiungono a uno stato antiquo di quello che acquista» [ivi, p. 74 (c. III)], sia che consistano invece in «principati al tutto nuovi» [ivi, p. 111 (c. VI)]. Inoltre, ha come obiettivo di indicare quali possano essere le maniere di governare dopo aver conquistato. Appunto in quest’ambito campeggia il richiamo all’effettualità. Essa spinge il principe savio ad adoperare, di volta in volta, le «qualità» [ivi, p. 217 (c. XV)] più adatte alle circostanze, sempre rimanendo naturalmente fermo il presupposto che a guidare la sottile strategia della prudenza politica insegnata nel Principe è il mantenimento del potere (la parte più difficile, molto più ardua di quanto lo sia il conquistare):
uno omo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità [ivi, p. 216 (c. XV)].
La prudenza, anch’essa neutralizzata dal punto di vista morale, diviene abilità nel prevedere gli effetti che possono nascere da uno o dall’altro comportamento, mentre virtù e vizio finiscono per dipendere dall’«occasione», cioè da un insieme d’imponderabili (ma almeno fino a un certo punto governabili) contingenze rispetto alle quali vizio e virtù sono mezzi o, meglio ancora, condizioni di possibilità della riuscita o del fallimento nella lotta per il successo. Per questo
sarebbe laudabilissima cosa in uno principe trovarsi, di tutte le [...] qualità, quelle che sono tenute buone; ma perché non si possono avere né interamente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono, li è necessario essere tanto prudente che sappia fuggire l’infamia di quelle [qualità] che li torrebbano lo stato [...]; ma, non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare». Infatti, «se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù e, seguendola, sarebbe la ruina sua, e qualcuna altra che parrà vizio e, seguendola, ne riesce la securtà e il bene essere suo [ivi, pp. 217-218 (c. XV); cfr. anche pp. 240-241 (c. XVIII)].
Collocare nello spazio dell’apparenza la virtù e il vizio non vuol dire decretarne il carattere fittizio e illusorio, quanto indicare che l’attenzione va centrata sugli effetti che le scelte conformi all’una o all’altro possono avere in ordine alla conquista e al mantenimento del potere. Questi, e soltanto questi, contano per una scienza empirica della politica che intende situarsi sul piano dell’analisi dei fatti e non farsi incantare dalle illusioni. A chi tratta di politica non interessa il valore intrinseco del bene e del male, ma la loro utilità. Nessuna trasvalutazione dei valori tradizionali ha luogo in Machiavelli; semplicemente vengono ridotti a funzioni variabili nel perenne conflitto per il potere e nella ricerca della sua stabilità nel tempo.
2. I dilemmi della repubblica
Detto questo, si può però cercare di riflettere anche sul secondo percorso che in Machiavelli si delinea. L’attenzione programmatica alla «verità effettuale» della politica e della natura umana non è certamente -checché ne abbiano pensato il Segretario fiorentino e alcuni suoi interpreti- il risultato di un gesto asettico e la registrazione passiva di un dato. Machiavelli assume che il carattere acquisitivo della natura umana [cfr. ivi, p. 94 (c. III)] sia un fatto, al quale corrisponderebbe la (presunta) realtà della politica come luogo privilegiato in cui questo fatto si manifesta in almeno due modi salienti. Da un lato, scatena la ricerca del potere da parte di chi ha volontà e doti per governare; dall’altro, attiva la ricerca della protezione da parte di chi vuol «potere godere liberamente le cose sue» [Discorsi, p. 102 (libro I, c. 16)].
Ma tale resoconto è tutto meno che neutrale: dipende da un’interpretazione - parziale come ogni interpretazione sempre è stata e sempre sarà - delle cose umane e da una consapevole frattura operata nei confronti della secolare tradizione di matrice aristotelica. E questa frattura si basa anch’essa su una valutazione critica di tale pluricentenario lascito teorico. Mi riferisco alla tradizione aristotelica non solo perché ha esercitato una quasi incontrata egemonia sino al periodo di cui stiamo trattando (cfr. Bien 2000), ma anche perché ciò consente di evidenziare un aspetto degno di nota nell’ottica di questo capitolo.
Ha correttamente osservato Alasdayr MacIntyre che la morale e la politica di Aristotele erano basate sulla fondamentale distinzione tra la natura umana com’è e la natura umana come dovrebbe essere. In tale ambito, i princìpi morali venivano considerati come quelle direttive che consentono la realizzazione del fine interno alla physis dell’uomo attraverso idonee pratiche virtuose che l’abitudine contribuisce a sedimentare (cfr. MacIntyre 1988, pp. 70 ss). Ora, in Machiavelli accade che, abbandonata ogni impostazione teleologica, rimane in campo solamente, per quanto riguarda la concezione dell’uomo, il primo termine, cioè la natura com’è. L’apparente neutralità dello sguardo senza presupposti svela l’inevitabile opzione valutativa che la sottende e che consiste nell’inchiodare l’immagine dell’essere umano ai suoi aspetti più crudi, che vengono presentati come quelli decisivi, anzi unici, di cui la politica deve tener conto.
Dietro l’analisi che si pretende avalutativa sta un concetto di uomo - cioè un’interpretazione, non una descrizione - che, pur in modo non sistematico né con un’elaborazione rigorosa, anticipa i tratti dell’homo homini lupus hobbesiano e fornisce così lo sfondo per la comprensione del pensiero politico del segretario fiorentino. Questo concetto sottende sia il Principe sia i Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio, quindi la teoria del «principato» non meno che quella della «repubblica». È nei Discorsi che troviamo scritto così: «come ne è piena di esempli ogni istoria, è necessario, a chi dispone una repubblica e ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro» [Discorsi, p. 30 (libro I, c. 3)]. La ragione è che «la natura ha creato gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa». Da qui «nasce il variare della fortuna loro, perché, disiderando gli uomini parte di avere più, parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie e alla guerra» (ivi, p. 178 (libro I, c. 37)]. Ecco il motivo per cui diventa del tutto plausibile il suggerimento che «li òmini si debbono o vezzeggiare o spegnere» [Il Principe, p. 79 (c. III)].
Si ricordi anche il libro XVII, cap. 2, del Principe:
perché delli òmini si può dire questo generalmente, che sieno ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno, e, mentre fai loro bene, sono tutti tua, òfferonti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli [...], quando el bisogno è discosto, ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano. E quel principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina [...]. E li òmini hanno meno respetto ad offendere uno che si facci amare che uno che si facci temere, perché l’amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per essere li òmini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai [ivi, pp. 228-231 (c. XVII)].
Però, a questo punto, non si può non segnalare che la nostalgia palesata ripetutamente da Machiavelli per un governo «libero» - per quella forma di reggimento politico di cui, a parere del Segretario fiorentino, resta esempio paradigmatico la repubblica romana - è difficilmente conciliabile con questi presupposti antropologici. Infatti, il governo libero può essere costituito e mantenuto solo sulla base dell’esercizio di quella virtù che appare improbabile far seguire a uomini che siano veramente come Machiavelli li descrive. La variazione semantica che avviene tra i Discorsi e il Principe è palese: la virtù di cui si tratta parlando della repubblica torna a rivestirsi di quei caratteri che ci riportano verso l’accezione sedimentata in una tradizione - variegata quanto si vuole ma concorde nel suo significato profondo - in cui essa consiste non in una tecnica ma in una precisa pratica di vita morale. Il Segretario fiorentino, quando parla degli antichi Romani, la identifica, seguendo un cammino battuto per secoli e al quale non aggiunge nulla di sostanziale, con il coraggio militare, con l’amore per la libertà, con l’attaccamento al bene comune, con la morigeratezza dei costumi, con la capacità di curare allo stesso tempo i «privati e publici commodi» [Discorsi, p. 322 (libro II, c. 2)], con l’adesione collettiva a una religione che non pone in conflitto l’amore per gli dei e il successo mondano. Mancanza di corruzione, ostilità verso l’ozio ed «equalità» sono altri fondamentali ingredienti dell’«antica bontà» [ivi, p. 263 (libro I, c. 55)]. E «la virtù che allora regnava» è contrapposta, con un tipico tratto moralistico, al «vizio che ora regna» [ivi, p. 301 (libro II, Proemio)]. Le severe usanze dei Romani - ci viene ricordato - erano fondamento della conquista del loro impero, che deve meno alla «fortuna» di quanto debba, appunto, alla «virtù» [ivi, pp. 303-310 (libro II, c. 1)]. Machiavelli definisce «meravigliosa cosa» sia la grandezza che si originò per Atene a seguito della cacciata di Pisistrato, sia quella di Roma dopo che si fu liberata «da’suoi re»: «La ragione è facile a intendere, perché non il bene particulare, ma il bene comune è quello che fa grande le città. E senza dubio questo bene comune non è osservato se non nelle repubbliche» [ivi, p. 313 (libro II, c. 2)].
La virtù consente anche che si possano «le ricchezze multiplicare in maggiore numero, e quelle che vengono dalla cultura e quelle che vengono dalle arti», cioè dall’agricoltura e dalle attività artigianali [ivi, p. 321 (libro II, c. 2)].
In tale variazione semantica del concetto di virtù è da notare un aspetto che ha una portata non certo di secondario rilievo. Infatti, da un lato, permane l’adesione a un catalogo di abiti virtuosi che evidenzia un fondamentale debito verso la tradizione classico-repubblicana. Dall’altro però, non viene messo in questione né tanto meno abbandonato un resoconto della natura umana, già qui richiamato, che, data la sua impostazione tutta sbilanciata sulle componenti egoistiche, ferine, conflittuali dell’uomo, è difficile accordare con quanto sarebbe richiesto da questi abiti virtuosi. Lo scarto che così si crea tra antropologia ed etica è colmabile solo al prezzo di una brusca torsione che viene fatta subire al rapporto tra natura umana e artificio politico. Scrive Machiavelli nei Discorsi:
gli uomini non operono mai nulla bene se non per necessità; ma dove la elezione abonda, e che vi si può usare licenza, si riempie subito ogni cosa di confusione e di disordine. Però si dice che la fame e la povertà fa gli uomini industriosi, e le leggi gli fanno buoni [ivi, p. 31 (libro I, c. 3)].
Quindi, il ruolo delle leggi, dei costumi, degli ordinamenti non è più - a differenza di quanto accadeva nella tradizione aristotelica e anche, in buona parte, ciceroniana - di rendere possibile che sia portato a compimento il fine interno dell’uomo, cioè la vita secondo ragione e virtù. Diventa, piuttosto, quello di «correggere», attraverso accorte strategie miranti a utilizzare gli ineliminabili e dominanti moventi egoistici degli individui, gli effetti degli «appetiti umani insaziabili» [ivi, p. 300 (libro II, Proemio)]. La forbice che si apre tra l’accettazione dell’immagine dell’uomo come essere acquisitivo, egoistico, portato al conflitto, e l’accoglimento dei princìpi su cui si basava l’ideale della libertà repubblicana, incarnato nell’insuperabile modello romano, può essere chiusa solo correggendo una natura i cui caratteri sono ben lontani dal rispondere a quanto sarebbe richiesto affinché quei princìpi si potessero tradurre in realtà.
In innumerevoli passi dei Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio è indicato come la correzione sia fattibile [cfr. ivi, p. 31 (libro I, c. 3); p. 110 (libro I, c. 17); pp. 112-113 (libro I, c. 18); pp. 132-135 (libro I, c. 24); pp. 234-236 (libro I, c. 49)]. Machiavelli si sofferma, per esempio, sulla funzione delle pene e dei premi, rispettivamente per le cattive e per le buone azioni pubbliche [cfr. ivi, pp. 132-135 (libro I, c. 24)]. Sottolinea il ruolo delle leggi per tenere a freno «gli appetiti» [ivi, pp. 212-213 (libro I, c. 42)]. Loda il ruolo dei censori [cfr. ivi, pp. 234-240 (libro I, c. 49)]. Sostiene che, a condizione di essere «regolato dalle leggi» e «bene ordinato» da esse, un popolo può essere più savio e più costante di un principe [ivi, pp. 276-286 (libro I, c. 58)]. Insiste, infine, sul ruolo dell’educazione, che nell’antica Roma era di far amare una religione in cui non si beatificavano «se non uomini pieni di mondana gloria» [ivi, p. 318 (libro II, c. 2)]. A partire dall’«elezione del sito», cioè dalla scelta del luogo ove edificare la Città, per arrivare all’«ordinazione delle leggi» [ivi, p. 12 (libro I, c. 1)] nel loro necessario rapporto con i «costumi», la politica diviene così il difficile, ma non impossibile, artificio finalizzato a produrre libertà e virtù partendo da uomini pronti in ogni momento «a usare la malignità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione» [ivi, p. 30 (libro I, c. 3)].
Se vogliamo riprendere quanto si è precedentemente evidenziato sulla scorta delle categorie interpretative di MacIntyre, si deve osservare che il passaggio tra l’uomo qual è e l’uomo quale dovrebbe essere risulta ipotizzabile, una volta negata la teleologia interna della natura umana, unicamente attraverso un intervento esterno - del legislatore, dei magistrati, dei capi militari - che arrivi a operare sui moventi delle azioni. Si tratta di agire su questi moventi, egoistici e acquisitivi, al fine di utilizzarli in modo da produrre comportamenti che siano, almeno esteriormente, conformi alla virtù. È ovvio, peraltro, che si tratterà di comportamenti che non potranno mai essere intrinsecamente virtuosi così come lo erano nel modello aristotelico. Non solo, infatti, risultano da una correzione, quindi da un artificio finalizzato, per così dire, a deviare artificialmente la natura dal suo corso, ma nascono anche da un’educazione che assomiglia molto a una manipolazione. Infatti, il fine è spingere verso condotte apparentemente virtuose un soggetto, come l’uomo, che nel suo intimo rimane, invece, sempre fondamentalmente «reo». Se la natura, di fatto, è così, e se non possiamo ammettere che evolva verso il meglio per la sua interna dinamica, non resta che cercare di correggerla. Ma la correzione di una natura è inevitabilmente una forzatura e rimane qualcosa di estrinseco, di esterno, di artefatto. Machiavelli trasforma la virtù degli antichi Romani in un capillare spazio dell’apparenza e in un’enorme rappresentazione, perdendone per sempre l’autenticità e il valore intrinseco. Che poi egli personalmente abbia sentito con tutto se stesso il fascino di quei remoti modelli morali non intacca la sostanza del debito teorico contratto con i suoi modelli di riferimento.
Se stiamo al resoconto machiavelliano, dobbiamo riconoscere che l’imitazione dell’antica Roma nei tempi moderni, se mai sarà possibile, risulterà, per così dire, duplicata. Visto e considerato il carattere esteriore ed eteronomo delle pratiche prodotte con i modi che ho ricordato, lo stesso Machiavelli ci porta a dover concludere necessariamente che già la prassi della repubblica romana implicava la riduzione della virtù a imitazione. L’auspicata imitazione delle virtù repubblicane da parte di chi vive in tempi così lontani da allora cos’altro costituirebbe, quindi, se non un’imitazione dell’imitazione? Ciò che, nei fatti, si otterrebbe operando per resuscitare quelle virtù non sarebbe molto diverso - al di là di quelle che possono essere state le intenzioni di Machiavelli - da una sorta di palcoscenico nel quale, recuperando strategie già usate, si recita a soggetto un insieme di comportamenti senza che mai gli attori possano veramente interiorizzarli. Il tutto sarebbe reso più difficile dalla circostanza che di quelle strategie abbiamo perso la memoria e anche, per così dire, la mano; e anche dal fatto che gli uomini non sono più «marmo rozo» come al tempo della nascita di Roma, ma sono diventati sempre meno idonei a essere plasmati come una «bella statua» (I, 11).
L’esperienza della repubblica è allora perduta per sempre? Forse sì. Ciò che al massimo si può fare è consegnarne la memoria ai giovani, conservando un ridotto residuo di speranza di riattivarla in qualche modo. Si tratta di una speranza che persiste malgrado la «malignità de’ tempi», come Machiavelli scrive nel Proemio del libro II.
D’altra parte, più che mimare la virtù - allora e oggi - non si può fare, se del modello aristotelico si recide ciò che in esso appare a Machiavelli inattendibile, cioè l’idealismo circa la natura umana, e se s’intende nello stesso tempo rendere operante, per quanto è ancora concepibile, l’ideale repubblicano.
Certo, tutto ciò rende quanto mai fragile e vulnerabile questo ideale nella versione machiavelliana, giacché si viene a creare un evidente contrasto tra l’accoglimento dei modelli morali e civili correnti nella tradizione classica, da un lato, e, dall’altro, la cancellazione dello sfondo antropologico che in quella tradizione li sosteneva e li rendeva giustificabili filosoficamente. Tale fragilità investe, peraltro, non solo il tema della repubblica; è piuttosto la cifra di tutto il pensiero machiavelliano e si coglie nel raffronto tra le due grandi alternative della politica che in esso emergono. La prima comporta il mantenere gli uomini «frenati» attraverso la «podestà» dello «stato regio» (Il Principe). La seconda richiede di predisporre «ordinamenti» che siano in grado, come accade nello «stato popolare», di preservare i cittadini, una volta «corretti» [Discorsi, p. 117 (libro I, c. 18)], da quelle tendenze che li portano a essere «più proni al male che al bene» [ivi, p. 64 (libro I, c. 8); cfr. Strauss 1970, specie c. IV].
Invero, principato e repubblica, al di là delle loro ovvie differenze e prescindendo anche dalle circostanze storiche che, per Machiavelli, possono rendere preferibile il primo rispetto alla seconda (o viceversa), hanno in comune la forte tensione che viene a crearsi tra natura e politica. Mentre la natura dispone gli uomini al conflitto e all’insocievolezza, la politica deve creare le condizioni per un ordine che, dopo l’abbandono dell’idea dell’uomo come zoon politikon (o, nella versione tomista, animal sociale et politicum), non può che essere un ordine artificiale, cioè creato e non dato. Riguardo a quest’ultimo aspetto Machiavelli, pur nella mancanza di sistematicità del suo pensiero politico, anticipa chiaramente Hobbes.
Ma l’aspetto cruciale è che in Machiavelli - diversamente da quanto accadrà in Hobbes - la stessa natura umana finisce per essere intesa come insieme di proprietà su cui, almeno fino a un certo punto e in una certa misura, si può operare, lavorare, incidere, esattamente come fa lo scalpello dell’artista. Il confine tra natura e arte - anche per quanto riguarda l’uomo - diviene sottile, tende a essere sempre più incerto, indefinibile, sfumato.
Si apre qui o, almeno, qui trova un’espressione di grande rilevanza teorica l’idea che la natura umana non è più, in senso stretto, un vincolo e anche un limite per la politica: l’uomo politico può modellare l’uomo secondo i suoi disegni e farne la “statua” che ha in mente. Il lascito aristotelico e il suo prolungamento, mediato innanzitutto da Tommaso D’Aquino, viene ribaltato, nella misura in cui non è più la natura, con il suo telos, a contenere e indicare i princìpi cui conformare la prassi, ma è nella prassi stessa che la natura è forgiata secondo un bozzetto prestabilito.
3. I “presenti tempi” e il principato
Ciò che mi sembra importante per approfondire il raffronto tra i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio e il Principe è il fatto che in questo secondo scritto - destinato a incidere così profondamente sul pensiero politico successivo - la prospettiva cambia palesemente. La stesura del Principe interrompe quella dei Discorsi e apre, per così dire, una parentesi nella delineazione dell’ideale politico di Machiavelli, che rimane sempre la repubblica romana. Il punto è, allora, interrogarci sul significato di questa parentesi. E non può essere individuato, a mio parere, se si considera il De Principatibus solo come un testo d’occasione legato al repentino mutamento della situazione politica nella Firenze del tempo e al tentativo, da parte dell’ex-Segretario della repubblica, di rientrare nel gioco politico. Questa motivazione c’entra, ovviamente, ma credo sia necessario oltrepassarla per capire come e quanto il Principe introduca una fondamentale frattura rispetto ai Discorsi e come, soprattutto, ci indichi il modo in cui Machiavelli considera la modernità politica, nonché l’atteggiamento che assume nei suoi confronti.
L’aggancio può essere fornito da un passaggio cui ho già in precedenza accennato. Lo troviamo nei Discorsi, precisamente là dove si tratta della religione civile e dell’opera di Numa. Qui Machiavelli osserva che Numa si trovò agevolato nel suo compito a seguito della circostanza che gli uomini con cui aveva a che fare erano ancora «grossi», cioè semplici e ingenui. Questo gli consentì «facilità grande a conseguire i disegni suoi, potendo imprimere in loro facilmente qualunque nuova forma» (corsivo mio). Poche righe più sotto ci viene detto che quanti tentassero di stabilire «né presenti tempi» un ordinamento repubblicano sarebbero grandemente favoriti se avessero a che fare con «uomini montanari, dove non c’è alcuna civilità», mentre incontrerebbero enormi difficoltà con gli «uomini usi a vivere nelle cittadi, dove la civilità è corrotta» [Discorsi, p. 81 (I, 11)].
I «presenti tempi» sono proprio quelli che, in Italia innanzitutto (ma non solo in Italia), hanno sì visto l’avanzamento della «civilità», ma hanno anche mostrato come e quanto tale avanzamento abbia distrutto alcune delle condizioni essenziali per creare un «popolo» nel senso repubblicano del termine. Di conseguenza, il «principato civile», argomento del capitolo IX, finisce per configurarsi come l’alternativa alla repubblica in un’epoca nella quale l’instaurazione della libertà incontra dovunque le difficoltà insite nel fatto che gli uomini non sono più tali da poter essere facilmente resi idonei ad abitare una Città libera. Il «principato civile», infatti, non persegue per nulla il tentativo di plasmare gli uomini nel senso indicato nei Discorsi, ma ha come obiettivo di «frenarli», cioè di tenere sotto controllo le inclinazioni che li caratterizzano e che, però, non si prestano a quel disciplinamento consentito dalle particolari e, forse, irripetibili condizioni che esistevano nella repubblica romana. Lo «scultore» - si ricorderà - non può più trarre la sua «statua» da un «marmo rozo», quindi modellabile con facilità, docile alla mano dall’artista. Deve invece operare con un marmo «male abbozzato» (ibidem). Il progresso della «civilità» riduce la possibilità di istituire la repubblica. Basta guardare alcuni elementi che sono sotto gli occhi di chiunque li voglia vedere e capire. È sufficiente, per esempio, esaminare i grandi Stati che prendono forma (la Francia, la Germania) e che, con le loro stesse dimensioni, rendono improponibile il modello antico di repubblica. Oppure, basta osservare i «costumi» che si corrompono e l’«educazione» ormai fatalmente ostacolata dall’influenza della religione cristiana, che fa gli uomini «umili e contemplativi», non più «attivi», e li abitua a vedere il «sommo bene» non nella «mondana gloria» ma nel «dispregio delle cose umane». Così Machiavelli: «Fanno dunque queste educazioni e sì false interpretazioni, che nel mondo non si vede tante repubbliche quante si vedeva anticamente; né per conseguente si vede ne’popoli tanto amore alla libertà quanto allora» [ivi, p. 319 (II, 2)].
Per il Segretario fiorentino due fattori hanno operato in modo decisivo nel determinare il drammatico restringimento delle opportunità per l’«imitazione» della repubblica nei tempi moderni. Il primo è stato l’impero romano, che «con le arme e sua grandezza spense tutte le repubbliche e tutti e’ vivere civili» (ibidem); il secondo è la «sètta cristiana», la quale «ha cancellati tutti gli ordini, tutte le cerimonie di quella [pagana], e spenta ogni memoria di quella antica teologia» [ivi, p. 340 (II, 5)] da cui le virtù romane erano alimentate e sostenute.
Machiavelli retrodata, se così si può dire, il moderno, facendolo iniziare con l’impero romano, che annulla la libertà, e con la religione cristiana, che - una volta diventata religione universale dei popoli «civili» - opera un letale cambiamento dei valori, rendendo gli uomini «remissivi» e non più adatti al coraggio tipico degli antichi Romani. La modernità non coincide, se adottiamo l’ottica di Machiavelli, con il processo della secolarizzazione, ma è fondamentalmente cristiana. Qui c’è, per il Segretario fiorentino, il suo cruciale punto debole, la ragione del suo essere un’età di crisi e di decadenza rispetto alla classicità.
Date tali premesse, la politica è chiamata a rimodellare i cardini stessi su cui aveva ruotato al tempo delle sue più alte realizzazioni, cioè a Roma. Il Principe costituisce lo spazio teorico entro il quale questo ripensamento si svolge. In tale prospettiva, a mio avviso, emergono pienamente il suo significato e il suo valore. In gioco c’è la possibilità di prospettare l’alternativa - forse l’unica alternativa possibile - alla repubblica. Machiavelli si misura con il dato epocale rappresentato dalla modernità, nel senso che ne scava a fondo le implicazioni per cogliere il significato del cambiamento che è avvenuto. Qual è l’aspetto essenziale di tale cambiamento? Il fatto che si sono progressivamente quasi del tutto dissolte le possibilità di «correggere» gli uomini con quegli ordinamenti, leggi, istituzioni che erano praticabili ai tempi della libertà e della grandezza romane. E abbiamo visto il perché di tale dissoluzione. In seguito a ciò muta la morfologia stessa della politica, il cui compito si trova limitato in un ambito molto più ristretto e, comunque, fondamentalmente nuovo rispetto alla classicità rappresentata da Roma. Ora, infatti, si tratta di frenare ciò che correggere non si può più: il baricentro si abbassa, i compiti risultano ben più modesti, le ambizioni si rattrappiscono. Il motivo è che la «malignità dei tempi» non concede di meglio. La modernità non costituisce l’epoca finalmente matura per l’esordio della scienza politica, ma il lungo periodo che della politica vive la crisi e, forse, l’eclissi.
La politica, molto prima di Hobbes, comincia già qui a configurarsi come lo spazio in cui il timore della spada assume il ruolo di elemento centrale, soprattutto una volta che vengano adoperate tutte quelle tecniche suggerite dal capitolo XV al capitolo XXV del Principe: simulazione, dissimulazione, menzogna, uso accorto e spregiudicato della violenza, ecc. Ma ciò vuol dire che la politica, nella sua accezione più propria e più alta, non esiste più. Infatti, di modellare l’uomo buono, l’uomo adatto al reggimento repubblicano, l’uomo legato alla religione della terra e della patria, non è il caso, ormai da secoli, neppure di accennare. Quella malignità del tempo - che qui è la storia del moderno con tutto il suo inamovibile peso - mette alla prova, nel Principe, la coerenza di Machiavelli nel suo progetto di stare ai fatti e di non sovrapporre a essi immaginazioni che saltino a piè pari i vincoli della realtà. I margini dell’azione risultano adesso angusti. Certo, non mancano del tutto: sono racchiusi nella proposta del «principato civile», cioè della forma che un ordinamento deve assumere se si vuole che, pur con tutti i limiti detti, rimanga comunque politico e non precipiti in tirannia. E «civile» significa soprattutto - come ci viene detto nel capitolo IX - che è fondato sul consenso del popolo, che il principe deve farsi «amico», anche se inizialmente ha acquistato il potere con il favore dei soli «grandi».
Una funzione, quindi, al popolo rimane, ma non è certo più quella che aveva avuto e che dovrebbe avere nella repubblica. Nel principato si tratta di mantenerne o acquisirne l’appoggio facendo sì che possa occuparsi in sicurezza della sua roba, dei suoi interessi e affari, senza dover temere l’arbitrio del principe o dei magistrati: «Qualunque volta alle universalità degli uomini non si toglie né roba né onore, vivono contenti» (cap. XIX). Il «principato civile» è già (anche in questo caso con una netta anticipazione di Hobbes) il regime in cui s’instaura e funziona, tra sudditi e governanti, il rapporto protezione-obbedienza, rapporto che diverrà via via la relazione fondante della statualità moderna, come ben sappiamo.
Ma, detto ciò, va necessariamente aggiunto che, allora, in Machiavelli tutto il quadro, rispetto ai Discorsi, è trasformato. Si modifica il concetto di «popolo», che non può più essere «attivo» nel senso richiesto dalla repubblica. Scompare, in gran parte, quell’insieme di ordinamenti, istituzioni, leggi finalizzate a formare l’uomo adatto alla vita «libera». Svanisce la religione civile.
Il punto saliente che consente di inquadrare e comprendere il motivo di tale mutamento si può cogliere osservando come e quanto l’intero pensiero di Machiavelli si regga sullo svolgimento teorico del rapporto tra natura, storia e politica. La natura umana, quanto ai suoi moventi, non cambia, è l’elemento stabile del quadro. Ma su questi moventi si può agire, facendo sì che dal perseguimento dell’interesse personale, dalla brama di essere glorificati, dallo stesso egoismo, nascano comportamenti orientati al bene comune piuttosto che a quello personale. Abbiamo visto sopra alcuni esempi di come ciò sia ottenibile.
Machiavelli non arriva ancora a ridurre totalmente la natura al «costume» e all’«abitudine»; questo accadrà solo dopo di lui, in autori che, comunque, a lui debbono moltissimo. Lo possiamo costatare seguendo, per esempio, la linea che congiunge Montaigne a Pascal, ma anche percorrendo un tragitto in parte diverso, cioè quello costituito dai philosophes più radicali dell’Illuminismo. Si pensi, per esempio, a Claude Adrien Helvétius, che scrive così:
sono le passioni [...] che formano gli uomini. Gli studiosi di morale dovrebbero percepirlo e sapere che, simile allo scultore il quale da un tronco d’albero foggia un dio o una semplice panca, il legislatore forma a suo piacimento degli eroi, dei geni, e della gente virtuosa». Per questo motivo «tutto l’impegno degli studiosi di morale consiste nel determinare l’uso che bisognerebbe fare delle ricompense e delle punizioni, e i vantaggi che se ne potrebbero trarre per legare l’interesse personale all’interesse generale [...]. Se i cittadini non potessero perseguire la loro felicità particolare senza realizzare allo stesso tempo il bene pubblico, i soli malvagi resterebbero gli insensati [Helvétius 1969, De L'esprit, vol. III, pp. 96-97 (Disc. II, c. 22)].
In sostanza, «è [...] sempre all’irrazionalità più o meno grande delle leggi che bisogna, nelle varie società, attribuire la più o meno grande stoltezza o malvagità dei cittadini» [De l'homme, ivi, vol. IX, p. 15 (Sez. IV, c. 14)]. Helvétius, e altri con lui, non avrebbero mai potuto accedere a una simile posizione senza il Segretario fiorentino, a giudizio del quale la politica è prassi che opera sulla natura per lavorarla, per piegarla ai princìpi della virtù pubblica, per ottenere lo stesso scopo esaltato nel venerando ideale repubblicano così come lo troviamo da Aristotele a Cicerone, ma tenendo conto che l’uomo è fondamentalmente diverso da quello che entrambi avevano, con scarso realismo, immaginato.
A parere di Machiavelli, nella tradizione filosofica classica manca ancora la corretta visione dell’uomo e prevale un ingiustificato ottimismo quanto alla sua natura. Di questa tradizione egli accoglie alcuni basilari valori morali e politici, ma rifiuta contemporaneamente quella che giudica un’ingenua concezione della natura umana. Tutto il suo problema sta, quindi, nel conciliare la frattura che egli introduce in campo antropologico con la continuità che invece conserva in campo etico-politico. Questo mi pare il nucleo centrale per la comprensione del rapporto tra i Discorsi e il Principe. E questa mi sembra anche la questione di natura prettamente filosofica che Machiavelli ci impone di affrontare, se non altro perché essa accompagnerà - qui credo che MacIntyre abbia pienamente ragione - gran parte della filosofia morale e politica moderna.
Solo il passaggio attraverso una severa e realistica revisione del modo di considerare l’essere umano consente, dal punto di vista del Segretario fiorentino, di inquadrare in modo appropriato il problema politico, giacché fa accedere alla comprensione di quello che i governanti possono e debbono fare per rendere l’uomo come deve essere se intende vivere in un ordinamento libero. Ecco perché lo studio della storia prende il posto della troppo spesso ingannevole meditazione che ci consegna la filosofia. Le «istorie» rivestono importanza esattamente nella misura in cui mostrano come effettivamente gli uomini sono e come si comportano, al di là di ogni astratto idealismo. La loro lettura e il loro studio fanno intravedere «acque e terre incognite» e indirizzano Machiavelli, come egli stesso afferma, per una «via [...] ancora da alcuno trita» [Discorsi, p.3 (Proemio)].
Ma la storia ci insegna anche che le condizioni e i contesti variano col tempo e con gli eventi, ci indica che un’epoca non è uguale all’altra, ci ammonisce che quanto era possibile nell’antica Roma non è forse più possibile oggi, nell’epoca in cui «di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno» [ivi, p. 5 (Proemio)]. Certo, Machiavelli è il primo a non cedere al pessimismo e afferma che, se i Discorsi li ha scritti, l’ha fatto proprio perché è doveroso impegnarsi nell’«imitare» gli antichi esempi. L’«utilità» della «cognizione delle istorie» sta, appunto, in questo spingere all’azione facendo perno sulla permanenza del mondo fisico e umano. L’«imitazione» è possibile perché «il cielo, il sole, gli elementi, li uomini» non sono «variati di moto, di ordine e di potenza da quello che gli erano antiquamente» [ivi, p. 7 (Proemio)]. Però, a «variare» - ci viene ricordato, non a caso, nel Principe - è stata appunto la «qualità de’ tempi». È questa «variazione» che, nel momento in cui Machiavelli scrive, rende difficile il «riscontro» tra il tempo dei moderni, da un lato, e, dall’altro, il «modo di procedere» che si dovrebbe adottare per ricostituire un ordinamento repubblicano. Il «modo di procedere» va adeguato ai «tempi». Ma non sempre tale adattamento è praticabile. A renderlo arduo e talvolta impossibile - come ci viene ricordato nel capitolo XXV dei Discorsi (specie 5, 6, 9) sono molti fattori, di fronte ai quali si può scegliere di essere «respettivo» o «impetuoso». Proprio la diversa «qualità de’ tempi» fa sì che un medesimo modo di agire, sia esso «impetuoso» o «rispettivo», in un caso fallisca e in un altro riesca oppure che due uomini arrivino felicemente al loro obiettivo essendo l’uno «rispettivo» e l’altro «impetuoso».
In questa tragica tensione tra il tempo e l’azione si colloca il dilemma della politica nella modernità. Per i motivi che ho già in precedenza ricordato, sembra proprio che questa sia l’epoca in cui l’ideale repubblicano incontri i più grandi ostacoli. Il Principe è, in tale prospettiva, il tentativo di trovare la corretta mediazione tra la qualità del tempo e le circoscritte possibilità dell’agire umano.
Ma non si afferra in pieno il senso di questa mediazione se non s’introduce un ulteriore elemento, da cui mi pare impossibile prescindere: la mediazione appena ricordata implica l’abbassamento del baricentro dal punto di vista morale. Detto in altri termini: il «principato» è il male minore in un’epoca che rende la repubblica quasi un’illusione. Ma, se ciò è vero, allora - come già in parte ho accennato - non sarà più possibile né corretto leggere il Principe come l’opera inaugurale della politica, cioè quell’opera nella quale la politica riceve, per la prima volta nella storia del pensiero occidentale, quanto le è dovuto in termini di autonomia, di funzioni, di dignità, ecc., rispetto alle sfere dell’attività umana con le quali era stata sin lì confusa. In realtà, sembra che le cose stiano in maniera esattamente opposta. A confronto con il modello normativamente superiore - e, per molti aspetti, inarrivabile - della politica quale fu realizzata nella Roma repubblicana, la politica cui appare destinata la modernità costituisce, per Machiavelli, un esangue surrogato. Infatti, perde tutte le caratteristiche che avevano consentito a Roma di far vivere e prosperare un popolo virtuoso e libero. Il moderno si configura come il tempo nel quale la politica deve restringere i suoi obiettivi per sopravvivere almeno nella forma del «principato civile», in cui però, se libertà rimane, si conserva unicamente come fruizione privata degli interessi dei singoli, della loro «roba», delle loro «donne», dei loro affari, mentre il popolo viene spogliato di ogni responsabilità pubblica.
Ai popoli moderni, nella loro stragrande maggioranza, si applica ciò che è detto ripetutamente e chiaramente in Discorsi I, 17-18; vale a dire, che appare quanto mai improbabile ricondurre un popolo «corrotto» alla libertà; e comunque, anche se arrivasse a riconquistarla, mantenervelo (I, 17-18). Ciò dipende dal fatto che «non si truovano né leggi né ordini che bastino a frenare una universale corruzione» [ivi, p.112 (I, 18)]. Certo, quando Machiavelli insiste, spesso ossessivamente, sul tema della «corruzione», lo fa soprattutto con riferimento alla condizione dell’Italia. Ma credo sia del tutto legittimo sostenere che c’è anche una corruzione del principio politico, cioè delle basi morali e civili, oltre che materiali (per esempio, come già osservato in precedenza, l’estensione degli Stati), che dovrebbero consentire l’instaurazione e la durata dell’ordinamento repubblicano. E ciò riguarda gli Stati e i popoli moderni in genere, non solo l’Italia. Non aveva, d’altra parte, già detto Machiavelli che, secondo un principio di pressoché universale applicazione e con poche eccezioni, un popolo è adatto alla repubblica finché in esso la «civilità» non si è sviluppata oltre un certo (e piuttosto ristretto) limite, mentre lo diventa sempre meno via via che si fa più civile? Sembra vi sia una sorta di dinamica interna ai processi di civilizzazione, in virtù della quale la corruzione si palesa come uno dei rischi più forti che essi portano con sé. Man mano che ci si allontana dall’origine, la tenuta dei «costumi», delle istituzioni, degli ordinamenti, diventa ogni giorno più problematica. Il tema anticipa Rousseau, che non a caso ammira Machiavelli e, esattamente come lui, intende il moderno come tempo della crisi dell’ideale repubblicano nell’accezione greca (spartana, beninteso, non ateniese) e romana.
Pur dando per scontata la difficoltà o l’impossibilità di creare ex novo o mantenere una repubblica nelle «città corrotte», c’è comunque una via che si potrebbe tentare, cioè «ridurla più verso lo stato regio che verso lo stato popolare, acciocché quegli uomini i quali dalle leggi per la loro insolenza non possono essere corretti, fussero da una podestà quasi regia in qualche modo frenati» [ivi, pp.117-118 (I, 18)]. Il principato è una forma organizzativa della politica che potrebbe servire - forse - a ristabilire la repubblica nei modi ancora oggi possibili e praticabili, anche se, per così dire, al più basso livello del suo rendimento. In un certo senso, questa è la funzione più nobile, ma chiaramente subordinata, che Machiavelli è disposto a conferirgli: l’essere e il consistere in vista del suo superamento, quanto mai arduo nei tempi maligni in cui la sorte ha fatto vivere il Segretario fiorentino.
Riferimenti bibliografici
Bien G. (2000), La filosofia politica di Aristotele, tr. it. di M. L. Violante, rev. di B. Argenton, Il Mulino, Bologna.
Helvétius C. A. (1969), De L’esprit, in Id., Oeuvres complètes, Georg Olms, Hildesheim (rist. anast. dell’ed. 1795).
MacIntyre A. (1988), Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, tr. it. di P. Capriolo, Feltrinelli, Milano.
Machiavelli N. (2006), Il Principe (1532), a cura di M. Martelli. Corredo filologico di N. Martelli, in Opere di Niccolò Machiavelli, Ed. Salerno, Roma (nel testo citato come Il Principe)
Id. (2006), Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1531), a cura di F. Bausi, in Opere, cit. (nel testo citato come Discorsi).
Strauss L. (1970), Pensieri su Machiavelli, tr. it. di G. De Stefano, Giuffrè, Milano.
* L'articolo è reperibile anche nell'Archivio Marini del "Bollettino telematico di filosofia politica" al link: http://commentbfp.sp.unipi.it/?page_id=1267.
** Riprendo, in questa prima parte, quanto ho già scritto su Machiavelli in Filosofia politica. La storia, i concetti, i problemi, La Scuola, Brescia 20112.
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