Premessa
Nel corso degli ultimi anni, gli effetti della crisi hanno determinato l’estensione dei fenomeni di impoverimento a settori più ampi di popolazione, modificando il panorama del disagio.
Il tradizionale disinteresse per la povertà degli italiani da parte di larghi settori del mondo della comunicazione è mutato in una attenzione certamente maggiore, ma per lo più confusiva e selettiva. Il tema dell’impoverimento della classe media ha ormai codificato il cliché della famiglia alle prese con il proprio bilancio quasi sempre in passivo, mentre minore attenzione è dedicata – ad esempio – alle storie di povertà degli stranieri. La cronaca appare spesso alla ricerca di conferme di povertà spettacolari (famiglie italiane con figli piccoli in fila alla mensa Caritas, anziani che rovistano nei cassonetti, padri separati che dormono nelle automobili), piuttosto che impegnata nella ricerca delle situazioni più numericamente diffuse. Il sensazionale, piuttosto che l’analisi delle cause e la ricerca delle soluzioni, è il triste lascito di almeno due decenni di eclissi comunicativa sul tema.
Nelle pagine successive si cercherà di dare alcuni elementi di scenario sul tema delle trasformazioni delle povertà nel nostro paese, a partire dal Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile e dai dati che forniscono le Caritas diocesane, grazie ai propri Centri di Ascolto territoriali, per chiudere con alcune considerazioni su come stia cambiando non solo l’universo della povertà, ma la sua percezione sociale.
La statistica ufficiale: il Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile e la condizione delle famiglie italiane
Lo scorso 11 marzo il Cnel e l’Istat hanno presentato congiuntamente il 1° Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile. Il Rapporto evidenzia come le famiglie italiane siano tradizionalmente caratterizzate da un’elevata propensione al risparmio, una diffusa proprietà dell’abitazione, un contenuto ricorso all’indebitamento e una significativa diseguaglianza della ricchezza. Con un sistema di welfare sbilanciato verso la componente previdenziale, la famiglia ha assolto una funzione di ammortizzatore sociale a difesa dei membri più deboli (minori, giovani e anziani), supplendo alle carenze di tutela e nascondendo le difficoltà di accesso all’indipendenza economica dei giovani.
Ma il Rapporto segnala che
la crisi economica degli ultimi cinque anni sta mostrando i limiti di questo modello, accentuando le disuguaglianze tra classi sociali, le profonde differenze territoriali e riducendo ulteriormente la già scarsa mobilità sociale. Alcuni segmenti di popolazione e zone del Paese sono stati particolarmente colpiti dalla riduzione dei posti di lavoro [...]. Il potere d’acquisto [...] è diminuito del 5% tra il 2007 e il 2011, ma fino al 2009 ciò non si è tradotto in un significativo aumento degli indicatori di povertà e di deprivazione grave [...], grazie al potenziamento degli interventi di sostegno al reddito dei lavoratori (indennità di disoccupazione e assegni di integrazione salariale) e al funzionamento delle reti di solidarietà familiare.
Sempre secondo il Rapporto
le famiglie hanno tamponato la progressiva erosione del potere d’acquisto intaccando il patrimonio, risparmiando meno e, in alcuni casi, indebitandosi [...]. Con il perdurare della crisi, nel 2011 si segnala un deciso deterioramento della situazione, testimoniato dall’impennata degli indicatori di deprivazione materiale: la grave deprivazione aumenta di 4,2 punti percentuali, passando dal 6,9% all’11,1%, mentre il rischio di povertà calcolato sul reddito 2010 cresce dal 13,6% al 15,1% nel Centro e dal 31% al 34,5% nel Mezzogiorno. Inoltre, aumenta anche la disuguaglianza del reddito: infatti, il rapporto tra il reddito posseduto dal 20% più ricco della popolazione e il 20% più povero sale da 5,1 del 2008 a 5,6 del 2011.
Il Bes segnala quindi non solo il peggioramento delle condizioni delle famiglie, ma un crescente fenomeno di erosione delle risorse a loro disposizione – in termini di reddito, risparmio e patrimonio – che predice un rischio di allargamento delle condizioni di povertà, in assenza di un ciclo economico positivo o in seguito a un suo peggioramento.
Alcune tendenze generali nei dati delle Caritas diocesane: il Rapporto Caritas Italiana
Ma quali sono, in base all’esperienza di ascolto delle Caritas diocesane, le tendenze di trasformazione dei fenomeni di povertà ed esclusione sociale sul piano qualitativo, nel nostro paese?
Ecco alcune indicazioni, emerse nel Rapporto Povertà ed esclusione sociale Caritas Italiana 2012:
- cresce il numero di italiani che si rivolgono ai Centri di Ascolto e contestualmente cresce la multi-problematicità delle persone prese in carico;
- la fragilità occupazionale è molto evidente: cassa integrazione, occupazioni saltuarie, lavoro nero rendono estremamente difficile per molte famiglie coprire le necessità, anche più elementari, del quotidiano;
- aumentano, tra i richiedenti, gli anziani e le persone in età matura;
- diminuiscono percentualmente i «senza reddito» e i «senza-tetto»: ormai dal 2010 sono calati in modo vistoso coloro che si dichiarano «a reddito zero» e vivono sulla strada;
- la normalizzazione sociale nel profilo dell’utenza Caritas si accompagna ad un peggioramento di chi stava già male: aumentano in percentuale le situazioni di povertà estrema, che coesistono tuttavia con una vita apparentemente normale, magari vissuta all’interno di un’abitazione di proprietà.
Alcuni profili di disagio
Emergono, inoltre, alcune nuove situazioni, che riguardano particolari circostanze e condizioni sociali:
Famiglie senza figli
Sono sempre più numerose nel mondo Caritas le persone senza figli che chiedono aiuto. A livello nazionale, il 26,9% degli utenti del 2011 non aveva figli (erano pari al 13,8% nel 2009). A livello locale, tale incidenza appare spesso di maggiore intensità, con punte del 40-43% delle persone che non hanno figli, o perché non vivono una relazione di coppia stabile, o perché celibi/nubili o perché separati/divorziati o perché vedovi.
L’assenza di verifiche non consente di stabilire la presenza di una connessione diretta tra insorgenza di nuova povertà e riduzione della propensione alla maternità. È tuttavia innegabile che la presenza in Italia di una vasta fascia giovanile che non è ancora pervenuta a condizioni di stabilità socio-lavorativa non può che influenzare alcuni tipi di percorsi esistenziali, tra cui anche le scelte familiari, procreative, eccetera.
Immigrati: poveri ma ricongiunti
Si assiste negli ultimi anni ad un progressivo peggioramento della condizione di vita delle famiglie immigrate. In generale, tra le varie fasce deboli della nostra società, ad essere più coinvolti dalla crisi sono stati proprio gli immigrati: il sopraggiungere della crisi ha colpito coloro che avevano acquisito da poco un relativo benessere, innescando dinamiche rapide ed incrementali di impoverimento (perdita del lavoro, perdita dell’abitazione, caduta a volte repentina in stato di irregolarità amministrativa, ecc.).
Come osservano alcuni operatori, paradossalmente, il licenziamento di molti immigrati è arrivato in prossimità del ricongiungimento familiare, un momento da lungo tempo atteso ma permeato di estrema fragilità sociale, relazionale ed economica.
I working poor
Si assiste, rispetto al recente passato, al graduale declino dei cosiddetti «working poor», una categoria sociologica che comprendeva tutti coloro che, pur in presenza di una posizione lavorativa e di un’entrata economica stabile, evidenziavano segnali di disagio economico e progressiva marginalità sociale. La stragrande maggioranza degli utenti Caritas vive in realtà una condizione di occupazione fragile: anche se non sono totalmente privi di reddito, si trovano comunque in condizioni di lavoro instabile, irregolare, quantitativamente insoddisfacente, eccetera.
I «ripartenti»
Nonostante le tendenze di peggioramento, si registrano segni di speranza. Innanzitutto una vitalità delle comunità locali, che hanno avviato esperienze di ogni tipo per contrastare le tendenze della marginalità sociale. Allo stesso tempo, ascoltando le storie di chi vive condizioni di difficoltà, emerge spesso un desiderio di ripartire espresso da molti utenti: affiora la volontà di rimettersi in gioco, l’aspirazione a migliorare la propria situazione. Non si chiedono (solamente) sussidi economici, beni materiali o protezione per la notte, ma anche orientamento a servizi, riqualificazione professionale, formazione e recupero della scolarità perduta.
Purtroppo, questo tipo di persone, che possiamo definire i «ripartenti», non trovano sempre adeguato sostegno alla loro disponibilità a rimettersi in gioco. Da un lato, l’età non gioca sicuramente a loro favore: la maggior parte dei disoccupati che si rivolgono alla Caritas, oltre il 37% del totale, è nella fascia dell’età adulta. Inoltre, l’appiattimento verso il basso della qualità del mercato del lavoro provoca il fenomeno delle false partenze: accettare un’offerta di lavoro non determina sempre la risoluzione dai problemi, in quanto dietro un gran numero di offerte si celano situazioni di evidente sfruttamento, sotto-retribuzione, condizioni di lavoro al limite del degrado. D’altro canto il sistema dei servizi – laddove presente – è più orientato alle marginalità gravi che alle condizioni di impoverimento.
Poveri per gioco
Esaminando le serie storiche di dati relativi alle persone transitate nei Centri di Ascolto delle Caritas diocesane nel periodo 2007-2011 non emerge una particolare rilevanza dei problemi di «dipendenza da gioco», anche se spicca una lieve tendenza di aumento dei casi (nel 2007, le persone con esplicita dipendenza da gioco erano pari allo 0,04% del totale degli utenti).
Emerge, in sintesi, la natura sommersa del fenomeno, ritenuto dagli stessi soggetti coinvolti un non-problema. Solo un colloquio approfondito rivela come il ricorso al gioco d’azzardo, legale o illegale, venga considerato come una risorsa preziosa a cui affidarsi. Tra l’altro, nel caso del gioco legale, l’assenza di una componente di clandestinità e criminalità rende ancora più normale e rassicurante la pratica del gioco, spingendo a trascurare i possibili rischi di dipendenza e impoverimento legati a tale pratica.
Dall’ascolto di testimoni ed esperienze in ambito Caritas, emergono alcuni aspetti qualitativi e tendenze in atto:
- l’intreccio crescente tra sovraindebitamento, usura e gioco d’azzardo: come narrato dalle Fondazioni Antiusura, il gioco è sovente concausa di indebitamento, mentre raramente ne rappresenta un fattore eziologico esclusivo;
- il coinvolgimento crescente di fasce sociali e reddituali basse, e soprattutto degli stranieri. Soprattutto nei bar e negli esercizi commerciali, si assiste a fenomeni di auto-organizzazione di gruppi di gioco e di turnazione alla slot-machine, spesso in coincidenza del giorno di paga o di riscossione di sussidi sociali. Il fenomeno aumenta in caso di perdita del lavoro;
- l’impatto economico e lavorativo è crescente: fette sempre più ampie di reddito giocate, anche ai livelli di sussistenza, un gran numero di ore di lavoro perse, eccetera.
- la difficoltà a liberarsi dalla dipendenza risulta evidente, anche a causa della forte capacità attrattiva della comunicazione pubblicitaria;
- l’organizzazione di «turismo da gioco»: fenomeno presente da diversi anni, in località limitrofe a nazioni dove è consentito giocare (es.: Slovenia, Canton Ticino, ecc.). Tale pratica contribuisce a trasmettere un’immagine seduttiva del gioco (anche perché questa pratica si lega, in determinati territori, all’offerta di prostituzione e turismo sessuale);
- la proliferazione nel territorio di luoghi ad offerta mista: sale-slot dove è possibile giocare legalmente e d’azzardo, trascorrere del tempo in compagnia, allacciare relazioni tra soggetti di pari situazione e anche accedere al mercato clandestino dell’usura o degli stupefacenti (soprattutto droghe leggere). In tali contesti, il gioco diventa il pretesto per soddisfare bisogni di socializzazione, favorendo nuove conoscenze tra persone che condividono la stessa problematica/dipendenza;
- la tendenza opposta è quella della chiusura solitaria e anomica del gioco on-line, che coinvolge anche i minori e non prevede momenti di socializzazione tra persone.
Genitori separati
Le cronache riportano con frequenza crescente le storie di molti genitori separati, quasi sempre uomini, costretti a vivere in automobile, lontani dai propri figli e costretti, dalla riduzione del reddito dovuta alla loro condizione, ad una vita di stenti.
Il fenomeno è certamente presente nel nostro paese (e alcune realtà diocesane si sono già attivate in tal senso), anche se non sembra ancora affacciarsi ai Centri di Ascolto con significativa intensità. Prendendo in esame i dati relativi alle presenze nel corso del 2011, i padri separati o divorziati (italiani), sono pari al 3,1% del totale degli utenti italiani. Le madri italiane nella stessa condizione sono invece il doppio (6,7%). Nel 2009 gli uomini nella medesima condizione erano risultati pari al 2,3%, mentre le madri erano sempre in numero superiore (4,5%). Si registra quindi un leggero aumento di genitori separati che si rivolgono alla Caritas, più evidente nel caso delle madri (+48,9%) che in quello dei padri (+34,8%).
A partire dai dati forniti dalle Caritas diocesane, la fragilità sociale dei genitori separati appare quindi un fenomeno maggioritariamente al femminile.
Percorso a ostacoli, tra veti incrociati
Sul versante della risposta istituzionale si evidenzia l’evidente inadeguatezza dell’attuale sistema di welfare a farsi carico delle nuove forme di povertà, delle nuove emergenze sociali derivanti dalla crisi economico-finanziaria.
Diversi i limiti evidenziati, di varia natura:
- la dispersione delle misure economiche in un gran numero di provvedimenti nazionali, regionali, locali, gestiti da enti e organismi di diversa natura, al di fuori di qualsiasi tipo di regia e coordinamento complessivo;
- l’estremo ritardo con cui vengono attivate le misure di sostegno economico, soprattutto quelle legate alla perdita del lavoro e alla perdita di autonomia psico-fisica;
- la notevole varietà e le conseguenti sperequazioni nella definizione del livello di reddito della famiglia, necessario per poter usufruire di determinate prestazioni;
- il forte carattere categoriale di gran parte delle misure di sostegno economico o di agevolazione tariffaria degli enti locali: tale meccanismo, che determina un fenomeno di selezione differenziata dei beneficiari, penalizza di volta in volta le persone che appartengono a determinati status sociali, residenziali, professionali, anagrafici, di cittadinanza, ecc. Le soglie e i criteri di accesso alle varie opportunità assistenziali sono estremamente diversificate, creando dei vicoli ciechi spesso difficili da prevedere all’avvio dell’iter di richiesta della misura;
- il progressivo restringimento delle disponibilità finanziarie degli enti locali nel settore socio-assistenziale, che sta determinando la contrazione delle prestazioni ad una serie di categorie sociali che, fino a poco tempo prima, erano state beneficiarie di forme di intervento.
L’effetto complessivo di quanto sopradescritto è quello di un vero e proprio percorso ad ostacoli, in cui la presenza di barriere e veti incrociati rende ancora più difficile l’esigibilità dei diritti e la fruizione tempestiva dei servizi , anche in presenza di oggettive situazioni di bisogno.
Alcune considerazioni conclusive
Questa drammatica transizione che la crisi rappresenta ha già operato alcune modifiche sia nei fenomeni di povertà che nella loro rappresentazione e nel discorso pubblico.
Il dato più evidente è la visibilità del disagio delle famiglie, contestualmente alla cittadinanza mediatica delle tematiche della precarietà del lavoro, della disoccupazione, della povertà, che tornano ad essere elementi del dibattito sociale e politico, dopo la grande eclissi degli anni ’90. Soprattutto la crisi economica, colpendo le famiglie operaie e i ceti medi del centro-nord, ha reso la povertà economica una prospettiva reale, non solo per le fasce di povertà strutturale del paese.
D’altro canto la crisi ha fatto riemergere il tema della disuguaglianza e – conseguentemente – della giustizia sociale. Seppure in forme non strutturate e politicamente acerbe, alcune polemiche contro i banchieri, i costi della politica, le baby-pensioni, hanno posto la questione etica della responsabilità dei più ricchi. Questa presa d’atto non genera per ora visioni sociali più complessive, limitandosi ad una indignazione esacerbata, ma politicamente sterile. L’unico risultato è che sul piano mediatico la ricchezza comincia a non essere percepita come un valore in sé, mentre i comportamenti solidaristici non vengono etichettati semplicisticamente come pratiche «buoniste».
Il discorso pubblico si attarda su polarizzazioni ancora sterili rispetto ad una idea sussidiaria falsamente ingenua – che sembra ignorare che gli assi delle politiche sociali possono essere garantiti solo dalla fiscalità generale – e di un’idea di diritti che confonde la loro titolarità – ovviamente statale – dalle forme effettive di esigibilità e di tutela – che possono essere un mix pubblico-privato-privato sociale.
Il paese che verrà dovrà trovare nuove tipologie di diritti e – contestualmente – nuove modalità di garanzia degli stessi per le nuove forme di disagio. In questo senso apre una prospettiva importante quanto detto dal Presidente del Consiglio Enrico Letta nel suo discorso alla Camera dello scorso 29 aprile:
il welfare tradizionale, schiacciato sul maschio adulto e su pensioni e sanità, non funziona più. Non stimola la crescita della persona e non basta a correggere le disuguaglianze. [...] Occorre un cambiamento radicale: un welfare più universalistico e meno corporativo, che sostenga tutti i bisognosi, aiutandoli a rialzarsi e a riattivarsi. Per un welfare attivo, più giovane e al femminile, andranno migliorati gli ammortizzatori sociali, estendendoli a chi ne è privo, a partire dai precari; e si potranno studiare forme di reddito minimo, soprattutto per famiglie bisognose con figli.
E-mail: