Il mal-sviluppo delle società europee
Il progetto europeo è nato come un progetto politico, per una risposta alle crisi precedenti che il mercato nazionale e la competizione tra Stati non erano stati in grado di risolvere. Un progetto che non voleva sostituirsi agli Stati nazionali ed ai loro sistemi di welfare, ma costruire la cornice di convivenza necessaria alla loro difesa e al loro rafforzarsi. Il progetto si blocca nei suoi obiettivi e si deforma con il ritorno del «privato», della «competitività», del «liberalismo» che rimettono in circolazione l’idea che è la ricchezza la fonte del benessere dei popoli e che dare di più ai ricchi aiuta i poveri grazie all’effetto dei vasi comunicanti ‒ come ci ricorda di frequente Scalfari dalle pagine di “Repubblica”. Una tesi, questa, che, da Ricardo a Monti, sostiene che lo stringere la cinta fa aumentare la produttività dei poveri e aumenta quindi la ricchezza totale. I risultati, negli USA come in Europa, sono così riassunti da Joseph E. Stiglitz: «La semplice storia è che i ricchi stanno diventando più ricchi, i più ricchi tra loro ancor più ricchi, i poveri ancora più poveri e sempre più numerosi, e la classe media è tagliata fuori. Il reddito della classe media ristagna o diminuisce e la differenza tra loro e i veri ricchi è in aumento» (Stiglitz 2012, p. 9).
L’economia, rimessasi in sella dopo aver disarcionato la politica, cerca di confondere le ragioni della crisi, non per incompetenza ma per avidità. Sono i ricchi e gli avidi a parlare di austerità a chi la pratica da una vita ed a spiegare le loro ricette basate sull`idea sbagliata che la crisi sia dovuta al troppo debito di lunga durata e al deficit pubblico causati dal finanziamento dello Stato del Benessere. Non una parola sulla rapina del XXI secolo che ha travolto le economie europee e di mezzo mondo, ma molti fatti concreti per colpire ulteriormente i cittadini con i tagli alla spesa pubblica che, insieme al pasticcio dell’euro, sono le vere cause del disastro attuale.
Tutto questo è stato possibile criminalizzando le idee e le istituzioni del Novecento che della lotta all’insicurezza e all’ineguaglianza avevano fatto la loro bandiera ‒ che né il fascismo né il nazismo erano riusciti ad estirpare ‒ e rimettendo al loro posto quelle dell’Ottocento divenute dagli anni Ottanta le idee guida della costruzione europea. Abbiamo così ricostruito mercati ed economie basate sulla devastazione ambientale, la rapina, sul mercato degli schiavi, sul traffico delle armi e della droga, sul commercio dei corpi e di parti di questi acquistabili al supermercato delle Borse. Al posto della politica, sapientemente smantellata, abbiamo messo i banchieri e i generali assistiti da nugoli di faccendieri senza scrupoli. Mai le élite del potere avevano raggiunto nel passato il grado di concentrazione di cui dispongono oggi.
La protesta sociale in Europa e negli USA
Da qui la protesta sociale ormai incontenibile che, partita dagli USA, si è estesa in Europa e in altri continenti. Una protesta sociale che ha assunto vari nomi e forme ‒ da [i]Occupy Wall Street[/i] agli [i]Indignados[/i] spagnoli e ai [i]Cinque Stelle[/i] in Italia ‒ ma che condivide la sfiducia verso queste istituzioni espropriate dai banchieri, questa politica al loro servizio e verso un sistema democratico che non mantiene i propri impegni. La richiesta è quindi di una nuova politica, di nuove istituzioni e di una nuova democrazia.
Tutto questo trova espressione nei contenuti, nell’indirizzo dato alla protesta, e nelle forme che intende assumere. Sui contenuti questi movimenti, superando la frammentazione e il rivendicazionismo corporativo che la protesta sociale aveva assunto nel decennio precedente, pongono al centro i due temi cruciali per la riscrittura del paradigma della politica: il tema dell’[i]ineguaglianza[/i] e quello del [i]bene comune[/i]. Due temi dai quali gli altri possono e devono discendere, e che hanno la forza di ricreare quella coesione sociale sostanziale senza la quale i movimenti e i partiti finiscono poi sempre per frammentarsi, quando si viene alla spartizione del dividendo sapientemente amministrato dal potere.
L’ineguaglianza e l’ingiustizia
[i]Ineguaglianza[/i] che è penetrata nei gangli della politica, del sindacato, e dell’economia condizionandoli al proprio servizio. Ineguaglianza che ha lastricato i percorsi e i successi delle lotte sindacali e delle legislazioni del benessere, anche laddove doveva invece svolgere l’opposta funzione. La fine del «pubblico» (del concetto stesso di interesse pubblico) ‒ della quale ci si lamenta solo per rimbrottare i singoli cittadini per l’assenza di spirito civico e di solidarietà verso lo Stato (le tasse soprattutto, che hanno sostituito nella percezione comune il vecchio dovere civico del servizio di leva) ‒ ha spalancato le porte all’individualismo e al privato.
Il primo gradino della lotta all’ineguaglianza deve essere l’abolizione della povertà nelle nostre comunità, Stati e nel mondo. Non con interventi sui casi singoli, ma rimuovendo le strutture mentali e materiali che ne costituiscono la radice, come indicato nei dodici principi di [i]Dichiariamo illegale la povertà[/i] ([url"Petrella-Amoroso 2012"]http://www.calameo.com/read/001655478a2ef184f32ba[/url]):
[i]1. Nessuno nasce povero né sceglie di essere povero
2. Poveri si diventa. La povertà è una costruzione sociale
3. Non è solo né principalmente la società povera che produce povertà
4. L’esclusione produce l’impoverimento
5. In quanto strutturale, l’impoverimento è collettivo
6. L’impoverimento è figlio di una società che non crede nei diritti di vita e di cittadinanza per tutti né nella responsabilità politica collettiva per garantire tali diritti a tutti gli abitanti della Terra
7. I processi d’impoverimento avvengono in società ingiuste
8. La lotta contro la povertà (l’impoverimento) è anzitutto la lotta contro la ricchezza inuguale, ingiusta e predatrice (l’arricchimento)
9. Il pianeta degli impoveriti è diventato sempre più popoloso a seguito dell’erosione e della mercificazione dei beni comuni perpetrata a partire dagli anni ’70
10. Le politiche di riduzione e di eliminazione della povertà perseguite negli ultimi quaranta anni sono fallite perché si sono attaccate ai sintomi (misure curative) e non alle cause (misure risolutive).
11. La povertà è oggi una delle forme più avanzate di schiavitù perché basata su un furto di umanità e di futuro
12. Per liberare la società dall’impoverimento bisogna mettere fuori legge le leggi, le istituzioni e le pratiche sociali collettive che generano ed alimentano i processi d’impoverimento.[/i]
Dal bene pubblico al bene comune
Il [i]bene comune[/i] proposto dai movimenti è la risposta alla devastazione del [i]bene pubblico[/i], una richiesta che va oltre l’esperienza ormai irripetibile del bene pubblico amministrato da uno Stato e da istituzioni sempre più aliene al sentire comune dei cittadini. Un bene comune che deve costituire la base da cui partire per coniugare dentro le singole comunità e municipalità i vari interessi e punti di vista verso un obiettivo giusto e sostenibile. Questo è il primo livello di una elaborazione e di un impegno che deve includere le altre strutture e territori del paese. Un bene comune la cui amministrazione è affidata al rapporto sinergico tra istituzioni e organizzazioni della società civile, ma sempre sotto il controllo stretto e diretto dei cittadini.
Un bene comune da articolare mediante l’individuazione condivisa dei beni comuni da sottrarre al funzionamento del mercato ed ai vincoli della pubblica amministrazione. Il manifesto dei beni comuni va riscritto rispetto a quello dei beni pubblici che caratterizzarono il periodo del welfare, quando cioè riflettevano i bisogni prioritari del tempo (benessere materiale e infrastrutture anzitutto, e accesso illimitato alle risorse). Oggi i bisogni e le priorità sono diversi, estesi ai bisogni materiali e immateriali, al valore della convivenza sociale – dal livello famigliare in su – al ritorno del concetto di limite e di simbiosi della persona e delle comunità con la natura e l’ambiente che li circonda.
In questa diversa percezione rientra anche la voglia di solidarietà che le fasi precedenti della nostra storia hanno offuscato con criteri egoistici e strumentali. Una solidarietà levatrice del bene comune, lucidamente espressa da Frantz Fanon: «se la costruzione di un ponte non deve arricchire la coscienza di coloro che vi lavorano, non sia costruito il ponte, continuino i cittadini ad attraversare il fiume a nuoto o per traghetto» (Fanon 1962, p. 142). Principi ispiratori questi, linee di condotta, che vanno oltre la soddisfazione delle incerte vittorie referendarie su temi singoli, e che devono estendersi all’insieme del funzionamento delle comunità.
L’ombra della politica e la realtà del potere
La crisi attuale è certamente parte di una serie contrassegnata dalla lotta costante tra i popoli e gli Stati da un lato e le [i]strutture del male[/i] del sistema economico dominante dall’altro. Tutti sanno che c’è la crisi perché le nostre economie di mercato non hanno funzionato secondo le aspettative create e predicate dai liberali e dai conservatori. La storia si ripete anche se cambiano gli autori e gli attori: una volta mercanti, poi imprenditori e capitalisti rapaci, oggi banchieri e generali. Ma la cosa non appariva in modo chiaro fino a qualche anno fa. Il paravento della democrazia e delle sue istituzioni copriva la vista oscurando, come ricordava Federico Caffè, la realtà del potere. Tutti concorrevano a questo gioco e quando si è deciso di sbarazzarsi dell’ombra delle istituzioni, ormai inutili e costose, è stato un gioco da bambini trasformare il dissenso politico in scontro giudiziario. Dalla polvere del crollo delle istituzioni sono emersi i nuovi poteri che sono riusciti a legittimare la loro antipolitica come il reintegro della [i]democrazia[/i] e dello [i]Stato[/i].
Questa situazione, nota da decenni, è rimasta ignota alle opposizioni ed ai movimenti, che hanno continuato a combattere contro l’ombra del potere, quando questo si era ormai trasferito altrove. È la storia degli ultimi due decenni ed a questa hanno messo fine i movimenti [i]Occupy Wall Street[/i], gli Indignati Spagnoli e italiani quando hanno diretto la loro protesta dai [i]palazzi[/i] delle istituzioni politiche a quelli della finanza e della Banche centrali in particolare. La ricomposizione del rapporto tra istituzioni e potere finanziario, con l’occupazione delle prime da parte del secondo, rende oggi il discorso più chiaro. La politica è stata espropriata, occupata da banchieri e faccendieri, e le istituzioni vanno ricostruite, altrove.
Proletari e ceto medio nella crisi
Non è la prima volta che l’Europa attraversa una profonda crisi sociale e economica. Capire cosa accadrà è possibile guardando al passato e pensando al futuro, nella speranza che un altro futuro sia possibile. Siamo oggi, come nel 1922, in una crisi economica che i provvedimenti del governo stanno aggravando trasformandola in un insopportabile disagio sociale. I ceti poveri e proletari, gli impoveriti dagli espropri dello Stato, dai tagli e dalla perdita del posto di lavoro, reagiscono di solito in due direzioni. La prevalente è quella di arrangiarsi, loro che nelle istituzioni non hanno mai creduto. Sopravvivranno mettendo a dura tensione la solidarietà familiare, di amicizie e di gruppo, e poi entrando nel sommerso del lavoro e dell’evasione (altro che lotta all’evasione della quale parla Mario Monti). L’evasione come fenomeno di massa e di immersione di milioni di cittadini: questo sarà il risultato delle politiche messe in atto. Piccole frange reagiranno politicamente, ricorrendo alla reazione violenta e anche armata. Fenomeno patologico in situazioni di crisi devastante.
Tuttavia le crisi precedenti ci insegnano che il fattore determinante del clima e delle scelte che si determineranno nei prossimi mesi sarà la reazione dei ceti medi, di quei ceti sociali prima inseriti nelle piccole nicchie del pubblico e del privato che consentivano una esistenza dignitosa, e che oggi si vedono rigettati verso la precarietà e l’impoverimento. Si tratta di ceti sociali che hanno sempre creduto nello Stato e nelle istituzioni, incapaci di coesistere con situazioni di precarietà e di illegalità per i redditi e il lavoro.
Il fatto più clamoroso a scuoterne la coscienza saranno i provvedimenti fiscali rivolti a tassare le abitazioni. In un paese sprovvisto di forme di welfare per i cittadini, le famiglie, i giovani e gli anziani ecc., la casa rappresenta il simbolo del risparmio privato che rende coesa la famiglia e che consente quelle funzioni di supporto verso i gruppi più deboli che nei sistemi europei di welfare sono svolte dallo Stato. Le misure prese delegittimano ulteriormente il ruolo della famiglia, e toccano al cuore il delicato meccanismo distributivo del reddito famigliare, senza istituire alcunché di sostitutivo.
In questa situazione il ceto medio si appella allo Stato per trovare giustizia e questo risponde, come sta facendo, indirizzando la protesta e la rabbia contro i «fannulloni», i «bamboccioni», i sussidi di disoccupazione, le spese di asilo per gli immigrati, ecc. Oppure chiamando alla mobilitazione contro gli evasori fiscali che, naturalmente, sono il tabaccaio all’angolo della propria strada, il giovane che non oblitera il biglietto e il rivenditore di frutta indiano o cinese che dà lavoro [i]in nero[/i] ai propri figli o amici. La dannosità di questi provvedimenti e del clima politico che alimentano porterà il ceto medio a chiedere un [i]uomo forte[/i] al potere ed il dramma europeo del 1922 si ripeterà come da copione.
Noi siamo il 99%
La reazione dei partiti e sindacati di sinistra a questi eventi è impotente e tarda. L’unica carta vincente è quella proposta dai movimenti citati che, afferrando il motto di [i]Occupy Wall Street[/i] ‒ «noi siamo il 99%, voi l’1%» , cerca di evitare la scissione storica ricordata e il suo tragico epilogo stabilendo un patto di solidarietà tra i cittadini, tutti meno quell’1% fatto di banchieri, generali e tirapiedi della politica. Ma niente alleanze strategiche o fronti popolari che offuschino gli obiettivi trasformando la solidarietà in un problema etico o di ideologie prive di contenuti, in una scelta individuale di stile o nazionalistica, ma un patto di solidarietà che metta la fine delle ineguaglianze e la costruzione del bene comune alla base della riconquista del potere politico e delle istituzioni. In questo nuovo patto gli esclusi sono l’1%, con il quale nessun compromesso è possibile.
«Coloro che protestano – scrive Stiglitz con riferimento ai movimenti qui ricordati – hanno capito cosa sta accadendo, forse meglio della maggior parte dei politici. A un primo livello chiedono molto poco: un cambiamento per poter utilizzare le loro capacità, per il diritto a un lavoro e con una paga decente, per una più giusta economia e società che li accolga con dignità. In Europa e negli Stati Uniti le loro richieste non sono rivoluzionarie ma evoluzioniste. A un secondo livello, tuttavia, chiedono molto: una democrazia nella quale le persone, non i soldi, siano importanti; e per una economia di mercato che sia in grado di fornire ciò per la quale è stata istituita» (Stiglitz 2012, p. XX).
Bibliografia
Amoroso B.- Jespersen J. (2012), [i]L’Europa oltre l’euro. Le ragioni del disastro economico e la ricostruzione del progetto comunitario[/i], Castelvecchi, Roma 2012.
Fanon F., [i]I dannati della terra[/i], Einaudi, Torino, 1962.
Petrella R. - Amoroso B. (2012), [i]Liberare la società dall’impoverimento. Dichiariamo illegale la povertà[/i], documento del movimento [i][url"Dichiariamo illegale la povertà - Banning Poverty"]http://www.banningpoverty.org/[/url][/i], Settembre 2012.
Stiglitz J. E. (2012), [i]The Price of Inequality: How Today’s Divided Society Endagers Our future[/i], Northon & Company, New York 2012.