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La Costituzione e le basi della nostra democrazia

Oscar Luigi Scàlfaro
Intervista a cura di Brenda Biagiotti

In questi anni Lei è intervenuto più volte, nel dibattito pubblico, in difesa della Costituzione. Credo che una riflessione sul valore e sull'attualità della Carta costituzionale, e un commento sui progetti di riforma proposti, possa costituire un fecondo punto di partenza per interrogarsi sulla crisi della politica in Italia.

La nostra Carta costituzionale è sempre stata riconosciuta, da chi se ne intende e se ne intendeva, come una delle Costituzioni più belle e complete. Di natura differente sono i commenti di chi, sotto questo profilo, può essere considerato “naturalmente analfabeta”; si tratta però di valutazioni e giudizi molto liberi, come accade sempre nei casi in cui si vuol parlare di un tema che, in realtà, non si conosce.

Inizierei questa riflessione partendo dai lavori dell'Assemblea costituente, un'esperienza centrale nella sua formazione di uomo politico così come nella sua biografia intellettuale. Cosa ha rappresentato quella stagione per la politica italiana?

L'Assemblea costituente, l'ho ricordato più volte, è stata attraversata anche da momenti di tensione. L'Assemblea era stata privata del potere di legiferare proprio per consentirle di concentrarsi esclusivamente sulla Carta costituzionale: si voleva infatti che i suoi 556 membri, eletti il 2 giugno del 1946, lavorassero solo per la Carta. Si trattava di un fatto eccezionale ma che indubbiamente ha dato i suoi frutti. Basti pensare che, dopo il voto del 2 giugno, il 25 dello stesso mese si svolse la prima seduta a Montecitorio ed il 1 gennaio del 1948 la Costituzione è entrata in vigore. Un anno e mezzo per promulgare una Costituzione è certamente un intervallo di tempo molto breve soprattutto per un paese come l'Italia che, fino ad allora, aveva avuto lo Statuto Albertino, non discusso dai cittadini ma “elargito” come un dono quando le monarchie da assolute diventarono costituzionali.

L'Assemblea costituente ha testimoniato la possibilità di una convergenza verso principi condivisi da parte di forze politiche profondamente eterogenee sotto il profilo degli ideali di cui ciascuna era portatrice. È da questa intesa che ha avuto origine quel patto fondativo, la Costituzione appunto, in cui vengono posti i principi fondanti di una società democratica e le regole di esercizio del potere sovrano. Come è stata possibile quell'intesa fra forze politiche così distanti fra loro?

Vi sono stati certamente dei grandi appoggi naturali. Un primo, fondamentale elemento è stato rappresentato, a mio avviso, dal fatto che la maggioranza assoluta di coloro che facevano parte della Costituente – vorrei dire la totalità di essi – appartenevano a gruppi politici che avevano contrastato la dittatura. Questa opposizione ha determinato la possibilità di una convergenza in difesa di quei diritti che la dittatura aveva violato. Si tratta di una spinta certamente molto forte: se la dittatura ha tolto al cittadino il diritto di voto, il diritto di scegliersi un partito e di aderire ad esso, il diritto di far parte di un sindacato, evidentemente vi sarà una volontà comune di ripristinare e difendere ciò che è stato calpestato.
Una seconda spinta fu costituita dal sentimento profondo, presente in ciascuno dei 556 membri della Costituente indipendentemente dall'appartenenza politica, della necessità di dare una legge fondamentale all'Italia; si trattava, in altri termini, di lavorare per il popolo italiano nella consapevolezza di esserne, allo stesso tempo, parte viva e sentendo l'onore di farne parte.
Vi è infine un terzo aspetto. Ho sempre sostenuto – e credo che la realtà nella quale ho vissuto mi abbia dato più volte ragione – che la sofferenza sia stata un denominatore comune per chi ha partecipato a quella straordinaria esperienza politica, e che ciò abbia costituito una spinta all'intesa. La sofferenza di coloro che erano stati costretti a fuggire dall'Italia, che, senza parenti o familiari all'estero, hanno vissuto fra molteplici patimenti svolgendo anche i mestieri più faticosi ed umilianti per vivere e mantenere la famiglia; o di chi è stato torturato, incarcerato, di chi ha perso i propri cari in combattimento. Questo mio convincimento circa il ruolo svolto dalla comune sofferenza ebbe una forte conferma il giorno in cui mi capitò di essere alla Camera quando De Gasperi, allora Presidente del Consiglio, chiamò a colloquio Nenni, in qualità di rappresentante di uno dei vertici dell'opposizione. Nelle grandi democrazie, infatti, quando si discute di politica estera, si chiama a colloquio l'opposizione perché si cerca di avere una base di consensi più ampia rispetto a quella che è espressione soltanto del governo, anche al fine di avere una base di consensi di fronte al mondo. De Gasperi chiamò Nenni, e non Togliatti, perché con quest'ultimo c'era una divario tale in merito alla concezione della libertà o dello Stato da rendere estremamente problematica la base per un dialogo. Nel corso di quel colloquio, mi capitò di vedere con sorpresa con quale amicizia De Gasperi aveva incontrato Nenni il quale, da parte sua, aveva assunto, a volte, posizioni piuttosto critiche con quella sua oratoria vivace e forte che suscitava così tanto entusiasmo in noi giovani.
Sorpreso e ammirato, alla fine del colloquio, mi precipitai da De Gasperi, che si fermava volentieri con i giovani, esprimendogli tutta la mia ammirazione ma, al tempo stesso, la mia meraviglia. Ed egli mi rispose: «Scàlfaro, abbiamo sofferto insieme. Né lui né io potremo dimenticarlo mai». E lì ebbi la conferma che questa fonte di sofferenza era stata una spinta fortissima, per credenti e non credenti, a trovare un punto di intesa in modo da evitare che quelle sofferenze avessero a ripetersi.
Queste varie ragioni di intesa portarono a quella formulazione dell'articolo 1 che è formidabile: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Ci fu una polemica sull'ultima parte di questa formula; le sinistre avrebbero preferito l'espressione “fondata sui lavoratori”, ma alla fine vi rinunziarono, perché difficilmente, a quel tempo, un professore universitario, un avvocato, un libero professionista, o gli stessi alti dirigenti delle attività manuali avrebbero potuto sentirsi compresi nel termine “lavoratori”. La proposta delle sinistre cadde e rimase “sul lavoro”. L'importanza di tale espressione è cruciale; essa infatti si costituisce quale fermo riconoscimento della persona umana. Il lavoro è l'espressione della persona umana. La fatica appartiene anche all'animale, il lavoro no; anche colui che svolge il mestiere apparentemente più semplice, più povero, più primitivo vi introduce sempre un apporto di intelligenza e di volontà, un apporto di pensiero e di amore. In questo modo quindi, la persona umana, che era stata ridotta ad oggetto dalla dittatura, nella costruzione della Carta costituzionale divenne il centro.
Come ho già accennato, non si è trattato di un percorso semplice; vi furono momenti molto faticosi ma alla fine, nei principi fondamentali, si raggiunse un'intesa. Basti pensare al fatto che nella votazione conclusiva su 556 membri dell'Assemblea vi furono soltanto 62 voti contrari. Questo significa che ciascun cittadino poté dire: «questa Costituzione è anche mia».

C’è ancora spazio, oggi, per recuperare quel metodo e, se sì, come?

Sono anni che, ad esempio, vi è un sostanziale accordo sulla necessità di ridurre il numero di deputati e senatori. Ci sarebbe da interrogarsi sui motivi che stanno alla base dell'incapacità di procedere in questa direzione. Personalmente ritengo che manchi una volontà di intesa, una buona volontà di intesa. Come ho ricordato in precedenza, la Costituzione fu approvata con soltanto 62 voti contrari: vi erano forze politiche con impostazioni molto eterogenee fra loro al punto da poter indurre a ritenere che fosse impossibile trovare un denominatore comune. Eppure esso venne trovato nelle forme e nei modi che mi sono permesso di elencare. Occorre però prima un'intelligenza pulita, libera. Occorre partire dalla necessità di un dialogo. In questi anni abbiamo assistito ad inviti ad esprimere un parere su progetti di riforma predisposti da una singola parte politica. L'Assemblea costituente ha invece rappresentato l'esperienza di un modo differente di concepire la politica: attorno ad un tavolo, si cercava di dare risposta a domande quali: «Cosa intendiamo che sia la democrazia? Cosa intendiamo che sia la libertà? Quali limiti può avere la libertà perché coesista la libertà di tutti? Quali sono i poteri dello Stato di fronte ad una popolazione che ha diritto di essere libera e titolare di diritti fondamentali?»

Il potere di revisione costituzionale incontra dei limiti che riguardano non soltanto le procedure e le modalità di riforma (sancite dall'art. 138) ma anche quei principi fondamentali e “intangibili” che ne costituiscono il presupposto. Come valuta, alla luce di quanto già fin qui accennato, i progetti di riforma avanzati?

Abbiamo avuto un tentativo di riforma generale tre anni fa, nel giugno del 2006. Sono Presidente dell'Associazione nazionale “Difendiamo la Costituzione”, che discende proprio dalla battaglia condotta nel 2006 contro quel progetto. Quella riforma infatti, con una sola affermazione, riusciva a distruggere più cose contemporaneamente. In quel progetto si affermava che il Primo ministro – così era chiamato il Capo dell'esecutivo – scioglie il Parlamento, il che significa, detto “artigianalmente”, che con un provvedimento può “mandare a casa” deputati e senatori. Anche coloro che non hanno mai avvicinato temi costituzionali comprenderanno l'importanza di questo passaggio. Nella concezione di quella che, in base all'articolo 1, è una Repubblica democratica prevale la volontà del popolo, ma tale volontà non si estrinseca nelle piazze, quanto piuttosto con l'espressione di chi rappresenta lecitamente il popolo, ovvero del Parlamento. Il progetto di riforma del 2006 aggiungeva un inciso, altrettanto rilevante: nel dichiarare che il Capo dell'esecutivo ha facoltà di sciogliere il Parlamento affermava anche che egli ne è l'esclusivo responsabile. Si tratta di un modo formidabile per massacrare una Costituzione, soprattutto quando si aggiunge, in contrasto con tutta la logica, che il decreto di scioglimento – di cui il Capo del governo è l'esclusivo responsabile – è firmato dal Capo dello Stato, che quindi, per la dizione stessa, non ne è responsabile. Con queste critiche in difesa della Costituzione non intendo ovviamente misconoscere che essa abbia bisogno di un aggiornamento.

Il durissimo scontro politico al quale stiamo assistendo ha investito, oltre al Presidente della Repubblica, accusato di non essere in grado di mantenere quella posizione super partes consona al suo ruolo, la stessa Corte costituzionale: soprattutto dopo la sentenza che ha sancito l'illegittimità costituzionale del cosiddetto “Lodo Alfano” il premier ha parlato di una sentenza politica emanata da una Corte composta da “giudici di sinistra”. Come valuta quella sentenza e le reazioni che ha suscitato non solo nel dibattito tra le forze politiche, ma anche tra la gente, non di rado incline ad accettare questa visione demonizzata del potere giudiziario?

Sostenere, ogni volta che c'è una sentenza non favorevole – come è stato fatto –, che i magistrati sono tutti con la “toga rossa”, ovvero sono tutti comunisti, è una posizione inaccettabile. Non solo, non è neppure una posizione intelligente, poiché manca anche del buon senso comune. Sono stato magistrato e come mentalità lo sono ancora; riconosco che il magistrato non è infallibile, ma affermare che se il magistrato non fa ciò che io desidero, ossia ciò che io voglio, non è autonomo e indipendente, significa essere una persona che non accetta le leggi dello Stato.

Il rapporto fra maggioranza ed opposizione e le modalità attraverso le quali si articola il dialogo fra le due parti possono costituire un indicatore significativo dello “stato di salute” della vita democratica di un paese. Da più parti ormai si invita ad invertire la tendenza ad inasprire i toni e ad irrigidire i termini dello scontro politico per recuperare una concezione della politica intesa quale luogo della mediazione e della ricerca di soluzioni condivise ai problemi del paese nel rispetto delle posizioni differenti. In che modo Le pare possibile?

Ho avuto questa sensazione concreta quando, terminato il mio settennato, sono diventato automaticamente, per norma costituzionale, senatore a vita. Questo è ciò che prevede la Costituzione: giusto o sbagliato che sia, non è necessario alcun provvedimento. Arrivato al Senato, ho assistito alla contestazione del diritto di voto per gli ex Capi di Stato, senatori a vita di diritto, e per quelli che erano di nomina del Capo dello Stato. Dove è scritto questo? Nel caso di ex Capi di Stato si tratta di un riconoscimento per la carica che è stata ricoperta; vi sono poi persone che hanno avuto meriti di fronte allo Stato. Attualmente, ad esempio, vi è una persona, la Senatrice Rita Levi Montalcini che, nel campo della medicina, ha ottenuto il premio Nobel. Mi chiedo che significato possa avere nominarli senatori a vita senza che abbiano il diritto di voto. Certo, si potrebbe ipotizzare di istituire un Consesso elevato al fine di dare pareri al Presidente della Repubblica: non sono in grado di dire se questo possa essere di una qualche utilità e, in genere, ritengo che fare cose inutili serva sempre poco. In ogni caso, è chiaro che, de iure condendo, tutto può essere fatto oggetto di discussione. Ricordo però quando, nel corso di questa contestazione, sono state rivolte anche delle ingiurie e questo mi pare un fatto molto grave. Assistiamo spesso purtroppo ad un superamento dei limiti anche in aula. Ora, in qualità di persona che per nove anni è stata Vicepresidente della Camera dei deputati, sento di poter affermare che, se qualcuno ingiuria un altro in aula, chi presiede ha facoltà e dovere di procedere ad una espulsione e di convocare, in seguito, il Consiglio di presidenza per decidere eventuali sospensioni. Quando tutto questo non si fa...
Vorrei ricordare cosa è accaduto il 25 aprile di quest'anno in piazza a Milano, dove ho avuto l'onore di esser invitato, da tutte le forze politiche presenti, ad intervenire. Durante l'intervento del Presidente della Regione Lombardia si sollevarono dal pubblico grida e urla tali da rendere estremamente difficoltoso al Presidente portare a termine il suo discorso. Ritenni necessario alzarmi dal mio posto ed andargli al fianco per esprimergli la mia personale solidarietà, una solidarietà che non intendeva rivolgersi ai contenuti del suo discorso, ma rappresentava la difesa di un diritto. Quando venne il mio turno di intervenire – dato che non riesco ad esimermi dal dire le cose che si devono dire – sottolineai il mio dissenso nei confronti della condotta del pubblico presente per aver cercato di impedire al Presidente della Regione Lombardia di proferire il proprio discorso. Il pubblico tacque, ma di certo non ci furono grandi assensi alle mie parole. Aggiunsi allora che, proprio perché si era in piazza per rivendicare i diritti di libertà che furono affermati il 25 aprile, occorreva comprendere come il primo passo per la democrazia è costituito dalla buona educazione. Con meraviglia, tutto il pubblico scoppiò in un applauso generale, sebbene questo finisse per contrastare con il comportamento precedente. La premessa della democrazia non può che essere la buona educazione.

La partecipazione dei cittadini alla vita pubblica è un fattore determinante per il corretto funzionamento di una democrazia, mentre il disinteresse diviene spesso un fattore di indebolimento. In Italia si assiste, ormai da tempo, ad un crescente e diffuso sentimento di sfiducia nei confronti della classe politica. Questo sentimento, che attraversa una larga parte della società civile, è stato anche alimentato da movimenti che hanno fatto dell'antipolitica uno dei loro punti di forza. È corretto affermare che la rivitalizzazione della qualità della classe politica necessita di istituzioni e luoghi della formazione (scuola, università) in cui la coscienza civile del paese possa plasmarsi? Quali conseguenze possono scaturire, a Suo avviso, da questo deficit di formazione?

Come italiani abbiamo un peccato originale: il popolo italiano, nella sua storia, è stato a guardare. Si tratta di un tema che amo affrontare soprattutto parlando ai giovani. Il fascismo ha potuto affermarsi anche perché la grande maggioranza è stata a guardare fino a quando, nel 1940, è avvenuto quello che è fatale per le dittature, cioè una guerra, una guerra disastrosa. Quanti sono morti? Ancora oggi credo che nessuno possa dirlo con esattezza.
Proprio per questo, occorre ricominciare dalla formazione dei giovani, ripartire da zero. Devo dire che, in merito a questo, ho delle visioni personali piuttosto ottimistiche che, molte volte, sconcertano anche i miei amici. Mi appello alla convinzione che esistano dei valori fondamentali che non muoiono, valori che, per quanto possano essere calpestati, non periscono e, prima o poi, riemergono. L'importante è che vi siano persone disposte a non arrendersi moralmente, spiritualmente, culturalmente, intellettualmente; la resa, in questo caso, è personale. I grandi diritti e doveri sono scritti.

Alcuni avvenimenti recenti invitano a meditare, molto più di quanto sia stato fatto, sul rapporto tra morale privata e morale pubblica. È possibile, a Suo avviso, porre la questione in simili termini, dando per scontato che una tale divisione debba esistere? Non potrebbe trattarsi di un modo di per sé distorto di considerare il problema?

Non credo sia possibile. Certamente l'etica è faticosa poiché dentro ciascun uomo, dentro ciascuno di noi, è presente una parte negativa, pesante, che ci spinge vero il basso: ma non è necessario abbracciare una visione trascendente per accorgersi che non si può sostenere una posizione pubblica e poi servirsi di mezzucci ignobili nelle cose private. È sufficiente avere una visione della dignità della persona umana. Lo sconcerto che viene sulla tragedia – perché, umanamente parlando, si tratta di tragedia – del Presidente della Regione Lazio è una specie di meraviglia; starei per dire che si rompe qualcosa dentro chi osserva. Le persone si aspettano che vi sia una logica, un'armonia fra condotta pubblica e comportamenti privati. L'armonia è fondamentale.
Sotto un altro profilo però, quando si dice “dividiamo i due ambiti”, si dice comunque il giusto, perché l'esigenza di armonia non toglie che vi sono dei limiti alla possibilità di frugare nella vita privata di una persona, sebbene si tratti di limiti diversi, per l'uomo pubblico, da quelli del privato cittadino.

Intervista realizzata il 24 novembre 2009

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