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La Costituzione “aggredita”

Intervista a Leopoldo Elia
a cura di Vincenzo Sorrentino
Se consideriamo la riforma costituzionale messa in cantiere dal governo Berlusconi, un primo elemento che appare significativo è rappresentato dalla modalità con cui si è arrivati alla sua approvazione; lei ha definito questa riforma «unilaterale […] il contrario della Costituzione concepita come una casa comune fondata su un patto di civile convivenza»[1].

Certamente il raffronto con il voto finale della Costituente è significativo. Anche durante i lavori della Costituente ci sono state delle votazioni di stretta misura, sia sulla prima parte della Costituzione (per esempio a proposito dell’indissolubilità del matrimonio), sia riguardo alla seconda. Tuttavia il voto finale ha visto una maggioranza di più dei due terzi, ed è a quello che facciamo riferimento. Non ci meraviglia il fatto che ci siano voti a maggioranza nel corso delle deliberazioni per la revisione, ma è importante il voto finale. Bisogna dire che l’ampiezza di consensi che sarebbe desiderabile venne a mancare anche in occasione dell’ultima revisione, relativa al Titolo V. Però quella situazione non costituisce un vero precedente, dal momento che si trattava di un caso particolare: non solo riguardava esclusivamente il Titolo V, ma si inquadrava in un contesto molto specifico. Un precedente largo consenso si era formato su testi che provenivano dalla Bicamerale e che erano stati approvati da maggioranza e opposizione alla Camera dei Deputati. Nella stessa sede, prima che si bloccasse il procedimento di revisione basato sul progetto della commissione D’Alema, si erano svolte votazioni sul federalismo, relatore D’Onofrio, che nell’aprile '98 avevano registrato un ampio accordo. C’era in più il consenso delle Regioni i cui Presidenti di Giunta appartenevano in parte alle opposizioni. Infine c’era un aspetto di contenuto molto significativo: una maggioranza così ristretta a livello numerico, di poche unità in più, non era dovuta al fatto che l’opposizione rappresentata da Forza Italia e dai suoi alleati – quella che poi è diventata la Casa delle Libertà – considerava che la riforma conferisse troppi poteri alle Regioni. Se fosse stato così la riforma della maggioranza sarebbe stata una forzatura. Ma in realtà gli esponenti della minoranza volevano di più, e avrebbero votato a favore del progetto di revisione se la maggioranza di allora – alla fine della XIII Legislatura – avesse accolto i loro emendamenti, che prevedevano già la devolution. Si trattava di emendamenti che attribuivano alla competenza esclusiva delle Regioni le materie dell’organizzazione scolastica e sanitaria. Se, per così dire, il più contiene il meno, sembrava ragionevole pensare che in realtà il consenso della Casa delle Libertà sui testi adottati, per quanto negato, in realtà ci fosse. In questo senso la situazione era molto singolare, senza paragone.
In generale, una riforma impegnativa come quella di cui stiamo parlando, che prevede la modifica di più di cinquanta articoli, richiederebbe un voto finale di largo consenso. Il sistema elettorale era maggioritario quando è stata votata la riforma del Titolo V e questa svolta normativa richiedeva provvedimenti come quello che io e Bassanini – io ero il secondo firmatario della proposta – presentammo nel 1995. Il nostro progetto di legge, che è ancora di grande attualità, chiedeva la messa in sicurezza della Costituzione, cioè che questa potesse essere modificata solo in seguito a una maggioranza di voti corrispondente ai due terzi dei componenti delle Camere, e che venisse elevato il quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica. Ci sembrava che con il maggioritario la rigidità della Costituzione si affievolisse notevolmente, perché in seguito all’introduzione di questo sistema è molto più facile arrivare alla maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea. La garanzia di questo quorum diventa molto debole come limite all’attività dei riformatori della Costituzione. Figuriamoci poi quali potevano essere i risultati con una maggioranza straripante come quella di cui disponeva nella XIV Legislatura la Casa delle Libertà! È evidente che auspicavamo un sistema di revisione simile alla disciplina della Legge Fondamentale tedesca e soprattutto della Costituzione americana. Quest’ultima prescrive una procedura ancor più gravosa, perché richiede prima una maggioranza di due terzi dei membri delle due Camere del Congresso, e poi l’approvazione di quattro quinti degli Stati dell’Unione. Si tratta di un procedimento molto più complesso di quello che sarebbe necessario in Italia se arrivassimo alla aliquota dei due terzi per la modifica della Costituzione. Ma nel ‘96 ci fu lo scioglimento delle Camere e quindi la nostra proposta non fu nemmeno discussa in Commissione. In occasione del voto sul Titolo V il problema è riemerso, per poi riaprirsi ultimamente. La modifica della Costituzione è diventata veramente troppo simile alla modifica di una legge ordinaria e ha aperto la strada ad una pericolosissima deriva, cioè ad una concezione della Costituzione come normativa facilmente modificabile. In questo modo l’idea di una Costituzione di maggioranza, anziché di una Costituzione basata su un largo consenso, è venuta consolidandosi durante la XIV Legislatura (quella che si è appena chiusa) e ha reso manifesti tutti i pericoli della perdita di rigidità della Costituzione stessa. Quanto detto è ancor più rilevante alla luce del contenuto della riforma attualmente in questione, tanto più importante e decisiva ai fini della identità stessa della Costituzione e della qualità della democrazia italiana.

Una parte consistente della nostra classe politica sembra, dunque, non considerare la condivisione delle regole comuni un tratto fondamentale della nostra democrazia: questa idea della Costituzione a maggioranza, di cui lei ha parlato, non le sembra espressione di una cultura politica pericolosa?

Sì, ha ragione. È pericolosa nel senso che i parlamentari procedendo alla riforma con questo criterio, in base al quale ogni maggioranza si fa una costituzione a sua immagine e somiglianza, rendono difficile la distinzione tra potere costituito e potere costituente. Il potere di revisione è classicamente da considerare un potere costituito, nel senso che l’esistenza di principi supremi – i quali si identificano in gran parte con i principi fondamentali dei primi articoli della Costituzione – costituiscono un limite al suo esercizio. Il potere di formulare questi principi, ed anche di immetterli in forma implicita nella Costituzione, si è esaurito con l’Assemblea Costituente nel 1947. Se vogliamo rimanere “dentro” la Costituzione e non vogliamo fare una rivoluzione (che giuridicamente è tale anche se avviene senza ricorso alle armi) dobbiamo concepire il potere previsto nell’art. 138 come un potere costituito, che incontra dei limiti nella possibilità di modificare la Costituzione; li incontra nei principi supremi e fondamentali, quelli che sono stati fermamente fatti valere in una sentenza redatta dal prof. Baldassarre - la sentenza n. 1146 del 1988 -  in cui si afferma l’esistenza di principi che non possono essere cambiati nemmeno in sede di revisione costituzionale. Se è troppo facile modificare la Costituzione  non si sa dove finisce il potere costituito e dove comincia in realtà un nuovo potere costituente. Questo pericolo grave si avvertiva già in sede di commissione bicamerale D’Alema, perché nelle discussioni e nelle relazioni, emergeva una specie di autoassunzione di un potere in grado di rimettere in gioco anche i  principi. Ciò derivava anche dalla legge istitutiva della Bicamerale D’Alema del ‘97, come già da quella della bicamerale De Mita-Jotti del 1992. Questa idea di conferire a una commissione e poi alle assemblee i poteri per realizzare un “progetto organico” di riforma di tutta la seconda parte della Costituzione, costituiva già uno scivolo, per così dire, lungo il quale diventava possibile esercitare un potere costituente laddove invece avrebbe dovuto agire un potere costituito.
Questa superiorità della Costituzione, concepita negli Stati Uniti come Paramount Law, “Diritto Sovrastante”, prevalente – superiorità che il giudice Marshall affermò nella famosa sentenza da cui nacque il potere della Corte Suprema di dare giudizi di costituzionalità sulle leggi –, viene a essere intaccata se non c’è una differenziazione forte tra potere di revisione e potere costituente. Questa distinzione è stata completamente travolta durante l’esperienza della quattordicesima legislatura. D’altra parte nelle proposte dell’opposizione, raccolte nel famoso Libro Giallo di Prodi (Per il bene dell’Italia), si dichiara la necessità di elevare, senza precisare se ai due terzi o ai tre quinti dei membri delle Camere, il quorum per la modifica della Costituzione. Il sistema statunitense, inoltre, dovrebbe essere adottato anche in relazione a un’altra esigenza: esso prevede revisioni puntuali, non di intere parti del testo come accade con l’attuale riforma. L’insegnamento della prassi statunitense è che si possono attuare modifiche specifiche, riguardanti in ogni caso un singolo istituto; il che ha un doppio vantaggio: innanzitutto una revisione più puntuale è in grado di raccogliere consensi più facilmente, e quindi di essere approvata da una maggioranza larga. Ma soprattutto ha il vantaggio di dare all’elettore maggiore libertà, quando sia previsto (come in Italia) un referendum per la revisione costituzionale. Questi è oggi impropriamente vincolato, come rilevavano Barile, Dossetti ed altri: se è favorevole, ad esempio, alla modifica della forma di governo, deve approvare anche un federalismo o una modifica della forma di Stato che non gradisce. Se accetta il federalismo, ma non la forma di governo, deve di nuovo votare a favore relativamente a entrambe le questioni. Dispone di un voto unico che riguarda argomenti molto disparati, i quali dovrebbero essere invece oggetto di quesiti singoli. I sostenitori delle leggi istitutive delle due Bicamerali negano la possibilità di fare questa distinzione, dicendo che la riforma è organica e quindi il voto deve essere unico. Invece, in base alla Costituzione e al trattamento degli emendamenti di tipo statunitense, io sostengo che occorre un voto differenziato, in base a criteri di omogeneità come quelli che la Corte costituzionale ha stabilito per il referendum abrogativo. Non si può mettere insieme giustizia costituzionale e forma di governo oppure forma di governo e federalismo. Queste considerazioni sono suggerite dalle scelte adottate dalla maggioranza nella XIV Legislatura.
Il rimprovero della maggioranza all’opposizione di non aver collaborato, poi, non tiene conto della situazione molto difficile che si era creata. Essendo in gioco questioni di principio e di valori, risultava pressoché impossibile, ove non si fosse messa in discussione l’impostazione stessa della riforma (specialmente quanto alla forma di governo), chiedere all’opposizione una collaborazione sui dettagli, sul miglioramento tecnico. Senza una rimessa in forse di quei presupposti, dire «voi non avete collaborato», «non avete voluto modificare errori che la legislatura precedente aveva commesso riformando il Titolo V», non ha senso; l’accordo su questi particolari veniva in qualche modo assorbito all’interno del contrasto sulle cose più importanti. C’è stata una sordità della maggioranza, che ha negoziato soltanto al suo interno, assommando richieste delle sue singole componenti; così facendo si è costruito un mosaico privo in se stesso di una ragione comune, proprio perchè risultante da una serie di concessioni a singoli partiti. Una volta raggiunto questo risultato, un dialogo vero con l’opposizione era praticamente escluso, perché mettere in gioco alcuni dei punti più rilevanti della riforma significava mettere in pericolo il consenso faticosamente raggiunto tra gli alleati della Casa della Libertà.

In merito ai contenuti di questa riforma, a cui anche lei accennava, due punti fondamentali riguardano i poteri conferiti al Premier e la cosiddetta devolution, in particolare il problematico rapporto tra centro e periferia. Qual è la sua valutazione?

Secondo me la filosofia dell’anti-ribaltone, o, per dirla altrimenti, questa riforma inspirata alla inamovibilità dell’esecutivo e all’estensione dei poteri del suo vertice, presenta un vizio innanzitutto di proporzionalità. Non c’è proporzione tra le esigenze attuali di rafforzamento del potere governativo e del suo vertice ed i risultati della riforma, che attribuisce poteri eccessivi al Primo ministro. Certamente il pericolo di ribaltone rispetto alle scelte dell’elettorato deve essere considerato una minaccia, che esige un certo rafforzamento del potere esecutivo. Però bisogna tener conto del fatto che questo rafforzamento, in larga misura, è già avvenuto in Italia. Non c’è più un pericolo così grave di instabilità, tra l’altro già prospettato in sede di Costituente, dato che l’ordine del giorno Perassi, con cui veniva scelta la forma di governo parlamentare, stabiliva la necessità di escludere normative che indebolissero la stabilità del governo e che favorissero le degenerazione del parlamentarismo o assemblearismo. Tale ordine del giorno non aveva trovato una sufficiente attuazione, perché soprattutto De Gasperi e Togliatti, non sapendo quale sarebbe stato l’esito dello scontro elettorale che avvenne il 18 aprile del ‘48, non volevano rafforzare il futuro potere governativo. Dico che De Gasperi e Togliatti impedirono qualsiasi rafforzamento o razionalizzazione poi adottate in altre costituzioni europee degli anni seguenti non tanto perché temessero il ritorno di una dittatura – timore che comunque può aver giocato un ruolo come sfondo psicologico – ma perché temevano di rafforzare l’avversario qualora questo avesse conseguito la vittoria alle elezioni. Tale atteggiamento ha impedito il successo dei tentativi di rafforzamento dell’esecutivo sostenuti dai professori di diritto pubblico Mortati e Tosato. In quel caso il velo d’ignoranza non contribuì a decisioni più libere, ma risultò piuttosto paralizzante, nel senso che non portò a quel rafforzamento dell’esecutivo che in Germania (e poi in Spagna) era stato possibile grazie all’introduzione della cosiddetta sfiducia costruttiva. In base a questo dispositivo si evita infatti che si uniscano due forze eterogenee, di destra e di sinistra, tali da produrre una sfiducia distruttiva. Fino ad ora questo sistema ha avuto efficacia deterrente notevole: la Legge Fondamentale tedesca è entrata in vigore nel 1949 e soltanto nell’ottobre 1982 Kohl si è giovato della sfiducia costruttiva, a causa del dissenso tra i Liberali e i Socialdemocratici che formavano lo schieramento vittorioso nelle elezioni precedenti. Quando i Liberali ebbero l’impressione che la politica del Cancelliere Schmidt e del suo Ministro dell’Economia potesse minacciare la stabilità del marco, dettero luogo a una nuova alleanza con la Cdu (la Democrazia Cristiana tedesca); e Kohl fu eletto Cancelliere per l’appunto nell’ottobre dell’‘82. In Germania si è scelto un sistema che da noi Tosato aveva già inventato, anche se in una forma un po’ diversa: in base alla sua proposta, il Presidente del Consiglio poteva essere rimosso soltanto da una mozione di sfiducia che, una volta approvata, portasse il suo primo firmatario alla carica di Premier. De Gasperi cercò di rimediare alla situazione del nostro Paese, dopo la vittoria del 18 aprile 1948, per mezzo della legge proporzionale con premio di maggioranza del 1953; ma, come è noto, tale legge non passò per un pugno di voti. La solidità del Governo rimase affidata alla volontà dei partiti e delle correnti interne ai partiti, tanto che la situazione italiana era simile a quella francese, nella quale, prima di De Gaulle, si riscontrava una forte instabilità governativa. Nel frattempo tuttavia molte cose sono mutate: la legge elettorale maggioritaria ha determinato un fatto maggioritario – come si dice nel linguaggio dei costituzionalisti e politologi francesi – che ha rafforzato la posizione del vertice dell’esecutivo. Oltre a ciò, la legge n. 400 del 1988 e i decreti Bassanini sulla riorganizzazione della Presidenza del Consiglio e dei ministeri hanno contribuito a rafforzare la posizione del Presidente del Consiglio, che è ormai un primus super pares. Il fatto che nel corso dell’ultima legislatura siano andate in direzione opposta le scelte personali di Berlusconi, che ha affidato tutta la politica economica al Ministro dell’Economia, atrofizzando le nuove strutture di cui la legge ha dotato la Presidenza del Consiglio (ad esempio il Dipartimento di Politica Economica) non significa che il rafforzamento non ci sia stato. Il gap di potere rispetto agli altri paesi a forma di governo parlamentare, in realtà, è diventato uno slogan, un pretesto: le esigenze poste in sede di Costituente sono state in larga misura conseguite.
Per rafforzare ancora di più il Governo potremmo adottare la sfiducia costruttiva tedesca, oppure far partecipare in misura maggiore il Presidente del Consiglio alla decisione di scioglimento delle Camere, accettando chiaramente, ad esempio, il principio della doppia chiave, cioè quello secondo il quale occorre sia il consenso del Presidente della Repubblica che quello del Primo ministro per attuare questa manovra. Il pericolo reale di ribaltone e la filosofia di stabilità assoluta del Governo, fatta propria dalla maggioranza della XIV Legislatura, non giustificano l’aumento spropositato dei poteri del Presidente del Consiglio che la riforma prevede. Questa è l’impostazione: contro il pericolo di ribaltone si afferma un principio già adottato per i grandi Comuni e per le Regioni, per cui se entra in crisi l’esecutivo si torna di fronte all’elettore. Ora questo può essere giustificato (anche se comporta seri inconvenienti relativamente al ruolo dei Consigli Regionali e Comunali) al fine di garantire una amministrazione stabile degli enti locali e delle Regioni; ma diventa intollerabile se applicato a grandi deliberazioni che devono essere prese dalla Camera dei Deputati in materia di diritti civili e sociali, libertà, ordinamento giudiziario, sistema radiotelevisivo, ratifica dei trattati, riforme economiche, leggi elettorali. Non si può imporre un’alternativa così drastica, dire «o approvate questi testi o tornate davanti agli elettori». Che garanzie fornisce un’assemblea rappresentativa se il Primo ministro può porre la questione della fiducia e ove a questa non corrisponda l’atteggiamento conforme della Camera dei Deputati lo scioglimento sia inevitabile? È vero, il Senato avvertì che questa soluzione era troppo meccanica e dava luogo ad un automatismo che non trovava riscontro in nessuno Stato retto a governo parlamentare: si inventò, allora, la cosiddetta “sfiducia costruttiva interna”. Cosa si intende con questo termine rispetto alla sfiducia costruttiva, di tipo tedesco o spagnolo, che si basa sulla parità e sulla partecipazione al voto di tutti i componenti della Camera? La sfiducia costruttiva interna dei nostri riformatori implica che lo scioglimento può essere evitato se il Primo ministro è sostituito sulla base dell’approvazione di una mozione di sfiducia, con la quale i deputati che sostengono il governo designano un nuovo Primo ministro all’interno della maggioranza. Per questo si chiama interna ed implica la garanzia di continuare ad attuare il programma presentato agli elettori. Si può, quindi, sostituire il Primo ministro; ma a quali condizioni? È questo il problema. Si tratta, infatti, di condizioni pressoché impossibili che, per prima cosa, hanno come conseguenza la divisione dei deputati in quelli di serie A, appartenenti alla maggioranza, e in quelli di serie B, appartenenti alle opposizioni. Per cui alla votazione, che segue la presentazione di una mozione di sfiducia costruttiva interna, partecipano con voto efficace solo i parlamentari della maggioranza. Tale distinzione in serie A e in serie B non è ammessa in alcun Parlamento esistente ed è in netto contrasto con l’art. 67 Cost. (i parlamentari rappresentano la Nazione ed esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato). Inoltre, c’è una condizione di quasi impossibile realizzazione: la mozione deve essere approvata da una maggioranza composta dai voti dello schieramento maggioritario, che però, essendo messa alla prova nell’aula della Camera dei Deputati, deve raggiungere la metà più uno dei membri dell’intera Camera. In questo modo si ha bisogno di una maggioranza larghissima; e diventa, dunque, estremamente difficile sfiduciare un Presidente del Consiglio, cosa che è ammessa, invece, in tutte le forme di governo parlamentare in cui c’è la possibilità, nei casi più gravi, di sostituire anche in corso di legislatura il Presidente del Consiglio. Ci sarà sempre a tutela del nuovo Primo ministro italiano un piccolo gruppo di fedelissimi che impedirà il raggiungimento dell’altissimo quorum. In questo modo il Premier diventa praticamente insostituibile per l’intera legislatura. Inoltre, prima di chiedere (e di ottenere) lo scioglimento della Camera, egli potrà porre la questione di fiducia anche senza consultare il Consiglio dei Ministri: e, se non c’è il consenso della Camera, si torna di fronte agli elettori.
Un esempio di “insostituibilità” è quello del Presidente americano, il cui mandato dura quattro anni; però questi non può né sciogliere le Camere né porre la questione di fiducia, mentre nella riforma italiana avremmo un Primo ministro effettivamente insostituibile, a differenza di tutti gli altri paesi retti a governo parlamentare. Anche in Germania, dove esiste l’istituto della sfiducia costruttiva, si sono verificate situazioni che hanno determinato un cambio di cancelliere pur nel corso della legislatura. Invece, per difendersi dai ribaltoni, si conferiscono al Primo ministro italiano un’invulnerabilità presidenziale di tipo statunitense e poteri che eccedono quelli generalmente connessi al rapporto fiduciario: in tutti i paesi che adottano la forma di governo parlamentare, infatti, la sfiducia può provocare le dimissioni del Primo ministro ma non il ritorno automatico dei deputati al giudizio degli elettori. Così, tra scioglimento e questioni di fiducia, i poteri del Primo ministro italiano diverrebbero davvero abnormi mentre quelli del Capo dello Stato avrebbero una consistenza minima. Tuttavia alcuni poteri presidenziali possono risultare molto pericolosi. Far eleggere il Capo dello Stato a maggioranza assoluta alla sesta votazione, significa dare al partito del Primo ministro la possibilità di eleggere un Presidente della Repubblica che, a sua volta, può nominare almeno quattro giudici costituzionali e così politicizzare la composizione della Corte. I poteri del Primo ministro italiano diverrebbero eccedenti e senza riscontro in alcuna democrazia sia che si scelga il sistema americano o quello svizzero. Per quanto riguarda il sistema svizzero, il Consiglio Federale, una volta eletto, rimane in carica quattro anni, ma l’assemblea federale può imporsi al Consiglio Federale (cioè al governo); senza dire del ruolo del referendum. Il governo direttoriale e il governo presidenziale hanno, quindi, al loro interno, un equilibrio di poteri e di limiti che invece risultano perduti in questa inedita forma di governo italiana.
Lo strapotere del Primo ministro viene negato da una debole minoranza di costituzionalisti, i quali sostengono che si tratta comunque di un leader ricattabile e debole. In realtà questa tesi non sembra dimostrata, perché il Primo ministro è comunque protetto in modo inequivocabile dai meccanismi previsti per la fiducia e per lo scioglimento delle Camere. Questa presunta debolezza deriverebbe, secondo alcuni, anche dall’inesistenza di un rapporto di fiducia con il Senato, che potrebbe bloccare senza timori le iniziative del Primo ministro. In realtà, in caso di contrasto serio che mettesse veramente in gioco un punto del programma di governo, l’ultima parola, anche in materia di principi fondamentali nella legislazione concorrente Stato-Regioni, passerebbe comunque alla Camera. Del resto si conosce assai poco di questo Senato che ha il nome di federale ma di federale non ha quasi nulla. C’è la necessità allora di trovare altri equilibri, cosa che invece non è avvenuta: abbiamo al contrario una situazione squilibrata in cui vengono meno le garanzie.
Per quanto riguarda la devolution, bisogna notare che, malgrado quello che si dice, il pericolo della doppia esclusività delle competenze dello Stato e delle Regioni non è stato superato, perché in alcune materie, come l’organizzazione sanitaria e l’organizzazione scolastica, tutto è rimesso ai rapporti di forza politici. Nel caso di una maggioranza condizionata dalla Lega, infatti, le leggi regionali che si avvalessero dell’esclusività a favore delle Regioni potrebbero anche passare, perché il Governo centrale non impugnerebbe mai queste leggi di fronte alla Corte costituzionale. Ciò comporterebbe gravi pericoli di dissociazione, nel godimento dei diritti civili e sociali, tra le diverse regioni italiane, con un grande rischio per l’unità stessa del paese, basata sul pari trattamento di tutti i cittadini almeno in via di diritto. Sappiamo che in via di fatto le cose possono anche andare in maniera diversa ma è auspicabile che, almeno sul piano giuridico, ci sia parità nel godimento dei diritti fondamentali civili e sociali. Da tutto questo, deriva, a mio avviso, un interesse particolare dei cattolici al mantenimento dei principi costituzionali enunciati nella prima parte della Costituzione e degli equilibri fondamentali di un sistema in cui il pluralismo delle istituzioni svolge un ruolo di garanzia contro la concentrazione del potere attribuito ad un’assemblea o ad un uomo solo al comando (come nel caso del vertice dell’esecutivo). D’altra parte, la garanzia contro l’illimitatezza del potere è fondamentale, e non solo nella concezione che è prevalsa alla Costituente soprattutto per impulso dei cattolici, basata com’è sulla dignità della persona umana e sul rispetto dei suoi diritti che non possono essere manomessi. Può invece prospettarsi una minaccia per questi valori se si afferma una forma di governo in cui il Premier, tramite la questione di fiducia, imponga involuzioni anche gravi che lascino, come sola via di resistenza possibile, il suicidio della Camera la quale, non approvando, è senz’altro soggetta a scioglimento. Questo rischio dovrebbe essere evidenziato e non per un attaccamento sentimentale alla Carta del 1947, anche se indubbiamente la partecipazione dei cattolici alla formazione di quella Costituzione fu determinante; non si tratta di una sorta di tendenza conservatrice per mantenere il proprio copyright su una disciplina costituzionale. La vitalità della Costituzione pluralista coincide certamente con gli interessi del cattolicesimo a realizzare una condizione di “apertura”, in cui si possa far valere una autentica limitazione del potere; secondo i principi di un costituzionalismo patrimonio comune di laici e cattolici.
Queste considerazioni dovrebbero  spingere a una meditata riflessione nell’interesse di tutti e - insisto - in particolare dei cattolici, che tengono molto al fatto che il potere statale sia esercitato in conformità agli interessi pubblici e non per il mantenimento e l’autoconservazione di un dominio senza limiti. Si dovrebbe trattare di un interesse comune, non attenuato dal fatto che alcune norme tra le più impegnative entrerebbero comunque in vigore nel 2011 o nel 2016, in base alle disposizioni transitorie. Si potrebbe trattare, infatti, di una bomba a scoppio ritardato che, se non disinnescata in tempo tramite un referendum, è destinata comunque a scoppiare. L’unico modo per far fronte a questa eventualità è rinvigorire la Costituzione del ‘47 come successivamente modificata, senza temere l’accusa di conservatorismo. Qualsiasi persona di buon senso è disposta, infatti, ad alcune modifiche, ad alcuni emendamenti, soprattutto del Titolo V, ma considerando che c’è comunque una gerarchia di valori da rispettare. Primo valore: ridare alla Costituzione la rigidità e la superiorità che spetta ad una autentica costituzione democratica. Secondo: trovare dei miglioramenti largamente condivisi, che non costituiscano fattori di rottura del consenso nazionale. La Costituzione non deve essere manipolata a “manciate di voti”. Diventa, dunque, fondamentale far conoscere meglio, in particolare ai giovani, il valore umanistico di questa Costituzione nella prima e nella seconda parte, perché diritti fondamentali ed equilibri fondamentali non siano più esposti al pericolo (ora imminente) di irrimediabili alterazioni.

[1] La Costituzione aggredita. Forme di governo e devolution al tempo della destra, Il Mulino, Bologna 2005, p. 22.
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