È pressoché una banale constatazione osservare sotto quanti e molteplici profili la Cina sia divenuta oggi più che mai vicina, negli scenari della globalizzazione: il suo poderoso sviluppo economico, la sua sempre maggiore integrazione nel mercato mondiale, la sua inclusione nel global network delle telecomunicazioni, le dinamiche stesse della sua emigrazione, sono tutti fenomeni che contribuiscono a determinare una crescente prossimità del Paese di Mezzo rispetto all’Occidente -una prossimità che nel grandioso evento mediatico delle Olimpiadi a Pechino conosce in questo momento una magniloquente celebrazione. È una prossimità che trova, fra l’altro, nel cinema alcune fra le sue più significative e intense espressioni: si pensi, ad esempio, a La stella che non c’è di Gianni Amelio, alle pregnanti riflessioni che quel film ci consegna, e di cui il regista ci parla, nell’intervista che appare su questo numero di Cosmopolis (e a misurare, in questo senso, la contrazione degli spazi e l’accelerazione del tempo che si sono prodotte negli ultimi trent’anni, torna alla memoria il celebre documentario del ’72 di Michelangelo Antonioni: quella sì, una Cina remota davvero…).
E tuttavia, vi sono aspetti che indubbiamente continuano a marcare una perdurante distanza della Cina dalla coscienza collettiva e dal dibattito pubblico dell’Europa in genere e del nostro Paese in particolare, un Paese che fra l’altro, nonostante che a giusto titolo si glori di essere la patria di Marco Polo e di Matteo Ricci, appare comunque oggi sostanzialmente poco propenso, nelle manifestazioni prevalenti della sua cultura diffusa, a concedere alla multiforme realtà cinese un’attenzione adeguata e rigorosa. Fra i persistenti fattori di distanza, un ruolo probabilmente non secondario è giocato da una serie di elementi linguistici, storici e culturali di non sottovalutabile complessità che costituiscono delle oggettive difficoltà nel tentativo di accostarsi al mondo cinese; ma uno speciale rilievo in tal senso rivestono anche, e forse soprattutto, gli antichi e perduranti stereotipi intorno alla Cina che appaiono tenacemente radicati nell’immaginario collettivo, come osserva Anne Cheng nel passo sopra evocato, tratto dall’introduzione al recente volume da lei curato e dedicato al pensiero cinese contemporaneo. La sinologa francese, ben nota al pubblico italiano segnatamente per la sua Storia del pensiero cinese (Torino 2000), sottolinea, in particolare, come un ostacolo a suo avviso assai ingombrante sulla via della comprensione della Cina, di oggi e di ieri, sia costituito dal mito pervicace di una sua presunta «alterità». È questa una tematica sulla quale -è opportuno incidentalmente ricordarlo- si è fra l’altro recentemente riacceso un dibattito alquanto vivace, che ha avuto tra i suoi protagonisti François Jullien (e su tale disputa in genere, e sulla posizione di Jullien in particolare rinviamo i nostri lettori a Cosmopolis 2, 2006, in cui si è già avuto modo di darne conto).
In altri termini, si tratterebbe di una «China syndrome» -come l’ha spiritosamente battezzata in un suo polemico saggio Robert Wardy (Aristotele in China, Cambridge 2000)- che incessantemente produrrebbe e riprodurrebbe un modello ermeneutico fondato sulla contrapposizione dicotomica di un “Oriente” e un “Occidente” descritti come entità monolitiche e compatte, configurati come suggestive ipostasi di una assoluta Differenza reciproca. Molteplici contributi di autorevoli studiosi provenienti da svariati ambiti disciplinari quali, ad esempio, Heiner Roetz e Geoffrey E.R. Lloyd sono intervenuti, nel corso degli anni, ad offrire in prospettive diverse una critica radicale di tale mitologema speculare; ma ciò non pare abbia inciso in misura significativa sulle comuni percezioni della Cina, che continuano, a quanto sembra, a prediligere le invalse modalità di rappresentazione convenzionali. Eppure, come sottolinea in varie sue pagine Giacomo Marramao, è la stessa realtà effettuale oggi sotto gli occhi di tutti che dovrebbe indurre a revocare in dubbio le consensus views sin qui in proposito accettate e a riesaminare problematicamente certi schemi interpretativi sin qui consueti. Per dirne una, la constatazione che l’etica confuciana mostra di conciliarsi assai bene con lo spirito del capitalismo dovrebbe costituire uno stimolo cospicuo per rivisitare le note tesi weberiane intorno al primato dell’Occidente nelle dinamiche dello sviluppo, e più in generale per ripensare globalmente, secondo le sollecitazioni formulate, ad esempio, da Amartya Sen, i modelli teorici in base ai quali procediamo a leggere i processi della mondializzazione in atto. Come hanno evidenziato, fra l’altro, Franco Mazzei e Vittorio Volpi, l’attuale protagonismo della Cina sulla scena globale, nel più vasto contesto di una nuova centralità dell’Asia, dovrebbe costituire un poderoso incentivo per la nostra cultura ad elaborare rinnovati quadri concettuali, capaci di misurarsi seriamente con tali gigantesche trasformazioni in una prospettiva di lunga durata.
E nondimeno, nonostante tutte le sollecitazioni che da più parti provengono in direzione di un autentico confronto con la concreta, densa e irriducibile complessità della realtà cinese, sembra di assistere spesso a una sorta di curiosa resistenza a tale proposito, nell’ambito della conversazione corrente, della comunicazione e della cultura diffusa. Come se il ricorso all’inerzia di vecchi clichés rappresentasse una specie di grande rassicurazione, sovente la semplificazione viene giocata contro l’ardua complicazione del mondo, in una sorta di atteggiamento difensivo che appare proteso a negare o a evitare l’ineludibilità del faticoso attrito implicato da qualsiasi autentico sforzo di conoscenza articolata, mentre -come ben sapevano i grandi pensatori cinesi dell’età pre-imperiale che le indagini di Maurizio Scarpari ci hanno fatto conoscere- “pensare significa -inevitabilmente- operare distinzioni”.
Così, capita non di rado che solenni lezioni su “cos’è l’essenza del confucianesimo” ci vengano impartite da personaggi che non hanno mai letto una sola riga di un testo confuciano in vita loro, e altisonanti sentenze su “cos’è e dove va la Cina” vengano enunciate da alteri opinion makers che le traggono integralmente dalla lettura di una paginetta di quotidiano. In un caso e nell’altro, si tratta sempre (l’esito è immancabilmente quello) vuoi di demonizzare vuoi di mitizzare la Cina; ma, come ha ben mostrato a suo tempo la celebre critica degli stereotipi “orientalisti” formulata da Edward Said, la sostanza non cambia, se a uno stereotipo si antepone un segno positivo anziché uno negativo: perché si tratta, in fondo, di modalità diverse in cui si esprime una sostanziale estraneità rispetto a ciò che viene confinato nella sua esotica alterità.
Sono, in particolare, determinate modalità di comunicazione corriva che sembrano favorire siffatti tipi di approcci schematizzanti. Ce le descrive con icastica nettezza e con critico rigore, in una nitida pagina del suo bellissimo libro Il Dio dell’Asia (Milano 2006) una grande giornalista, profonda conoscitrice di molte realtà cinesi e asiatiche, Ilaria Maria Sala:
«più guardo da vicino i paesi in cui mi muovo e lavoro, più provo un senso di irritazione profonda per gli esotismi forzati, i culturalismi riduttivi, che vogliono spiegare le differenze facendo finta che siano più profonde e più superficiali di quanto non siano. Più profonde, perché spesso il punto di osservazione iniziale è fondato su un presupposto di “diversità umana” che copre alla meno peggio un razzismo ancora tristemente diffuso: pregiudizi così resistenti da restare impermeabili anche a viaggi e letture. Ma anche più superficiali, perché, una volta accettate le presunte differenze intrinseche fra le persone che abitano in paesi diversi, è come se si decidesse che la storia, la realtà politica ed economica, culturale, sociale di un luogo siano solo pedanterie da accademici frustrati, trascurabili nel nome di un giornalismo turistico che appiattisce tutto a poche frasi a effetto: appena qualche scorcio impressionistico, dove gli altri appaiono in tutto il loro splendore o la loro meschinità e sempre nella loro formidabile stranezza». |
Amina Crisma
IN QUESTO NUMERO
In occasione dell'imminente svolgimento dei Giochi olimpici di Pechino 2008, il quinto numero di Cosmopolis dedica la sezione di apertura ad una riflessione di ampio respiro sulla Cina ospitando contributi che intendono offrire al lettore un accurato e articolato resoconto, pur se inevitabilmente non esaustivo, della realtà attuale di questo paese, dello sviluppo economico che sta vivendo -ma anche delle difficoltà ad esso connesse- e del suo rapporto con l'Occidente. L'organizzazione delle Olimpiadi costituisce infatti un evento di estrema rilevanza che implica conseguenze non solo sul piano economico, ma anche su quello politico. In questo quadro, la riflessione di Giovanna Puppin muove da un'analisi del discorso pubblicitario evidenziando l'imponente “costruzione del sogno” legata all'organizzazione dei Giochi sia all'interno degli slogan olimpici sia nelle campagne pubblicitarie dei principali partner o sponsor delle Olimpiadi. Laura De Giorgi delinea alcuni dei mutamenti intervenuti nell'ambito del sistema d'informazione sottolineando come i media siano stati coinvolti in un processo di modernizzazione complesso e ambivalente, caratterizzato da un lato da esigenze di rinnovamento e, dall'altro, dal permanere di controlli autoritari da parte del governo centrale volti ad esercitare un’influenza sull’informazione che consenta una gestione dei processi di formazione dell’opinione pubblica. Il contributo di Marina Miranda si sofferma sulla possibilità di individuare la presenza o meno di un ceto medio e sui suoi caratteri; in esso si denuncia anche la distorsione operata dai media occidentali per i quali la società cinese sarebbe caratterizzata da un ceto medio esteso e dotato di grandi disponibilità economiche, secondo una rappresentazione valida più sul piano delle potenzialità che non su quello della realtà attuale. Al tema della partecipazione delle imprese occidentali allo sviluppo economico cinese è dedicato l'intervento di Alessandro Pagano nel quale si sottolinea come il radicamento sul territorio richieda la consapevolezza dell'esistenza di “molte Cine” differenti sia sotto il profilo geografico sia in relazione alle disparità nello sviluppo. Il contributo di Valeria Zanier riflette sulla realtà e la situazione attuale dell'imprenditoria cinese in un paese nel quale per lungo tempo il settore privato è stato tradizionalmente marginalizzato rispetto alla dimensione del pubblico. Guido Samarani offre un'interessante ricostruzione dei principali mutamenti intervenuti negli ultimi anni nell'approccio cinese al quadro politico internazionale: in particolare, nell'intervento si sottolinea la sostituzione del paradigma dell'“ascesa pacifica”, che intendeva combinare una ricerca della pace sul piano internazionale con i progetti di crescita nazionale, con il modello dello “sviluppo pacifico” il quale vuole contribuire alla costruzione e al rafforzamento di un'immagine di Pechino meno aggressiva. Elena De Rossi Filibeck sviluppa un'analisi della questione tibetana di cui ricostruisce la genesi storica e i principali punti di attrito fra le istanze fondamentali delle parti coinvolte. Alla rivendicazione di indipendenza e autonomia del Tibet si contrappone la risposta della Cina che considera il territorio una parte integrante dei propri confini delineando così in un contrasto la cui soluzione pare ancora piuttosto lontana. Il contributo sottolinea come, all'interno di tale complessa vicenda, un aspetto decisivo sia costituito dalla richiesta di garanzie circa il rispetto dei diritti umani contro le violazioni commesse da parte del governo di Pechino. Del rapporto della Cina nei confronti del proprio passato si occupa il contributo di Maurizio Scarpari: continuità nei confronti della tradizione e culto degli antenati costituiscono infatti elementi costitutivi della cultura cinese. Dopo la brusca frattura introdotta dal regime comunista rispetto a questa millenaria tradizione, la Cina di oggi vede piano piano rinsaldarsi i propri legami con le antiche radici anche grazie a preziosi ritrovamenti archeologici e al potenziamento di una cultura della conservazione del proprio patrimonio i cui effetti sono anche visibili nella parziale revisione della propria storia sollecitata dall'arricchimento di nuove fonti documentarie che correggono in parte quanto tramandato dalla tradizione. L'intervento di Amina Crisma infine rende conto del fermento culturale che attualmente percorre il paese; questo aspetto merita particolare attenzione proprio perché sancisce una profonda frattura rispetto ad un passato relativamente recente quale quello della Rivoluzione culturale in cui erano stati recisi i legami con la ricchissima tradizione di pensiero pregressa e si era assunto un atteggiamento di completa chiusura ad ogni rapporto culturale con il mondo occidentale.
La seconda sezione affronta il tema dei diritti umani prendendo in esame differenti contesti geografici e diverse tradizioni culturali. L'intervento di apertura di Gianmaria Zamagni prende avvio da una riflessione sull'origine di tali diritti nel tentativo di mostrare il ruolo che possono svolgere all'interno del dialogo fra differenti culture. Henry Atlan delinea la possibilità di un “nuovo universalismo di fatto” mediante un accordo su conclusioni pratiche, lontano da ogni ricorso ad una ragione astratta, in cui possano convergere diverse prospettive valoriali. Accanto all'analisi di Emmanuel Babissagana sullo stato dei diritti umani nell'Africa del Sud e di Hamadi Redissi circa il contesto della cultura islamica dopo l'entrata in vigore, nel marzo 2008, della Carta araba dei diritti dell'uomo, Paul W. Kahn svolge una riflessione sulla situazione statunitense; gli aspetti problematici che in essa emergono risultano in particolare connessi al fatto che mentre la legislazione sui diritti umani presuppone l'espunzione della violenza, la guerra appare una dimensione costitutiva della politica degli Stati Uniti. L'impossibilità di comprendere lo stato dei diritti fondamentali in Cina prescindendo da una riflessione più generale sullo statuto dei diritti soggettivi è il punto di partenza dell'analisi svolta da Renzo Cavalieri. Ricordare come la tutela giuridica dei diritti sia un fatto estremamente recente per tale paese può costituire un'ottica equilibrata a partire dalla quale riflettere sullo stato attuale del sistema giuridico cinese e soprattutto sui sensibili cambiamenti in atto. Arvind Sharma articola il proprio intervento intorno alla discussione circa i concetti di diritti umani e di dignità umana mostrando come questi due aspetti che spesso, all'interno del dibattito pubblico sui diritti umani, sono avvertiti come sinonimi possano in realtà presentare alcune tensioni, come emergerebbe da una riflessione sul tema della violenza all'interno della tradizione indù. La riflessione di Vera Malaguti Batista infine delinea un quadro critico del sistema penale nel continente sudamericano con particolare riferimento alla situazione del Brasile; ponendo l'accento sull'emersione del cosiddetto “populismo punitivo” in America Latina e ricostruendone le radici storiche, l'autrice rileva come il problema della criminalità costituisca, attualmente, uno dei punti nodali in relazione alla tutela dei diritti umani.
Nella terza sezione si torna a gettare uno sguardo sulla Cina attraverso l'intervista a Gianni Amelio; traendo spunto dall'ultima produzione cinematografica del regista infatti, si riflette sui profondi cambiamenti che stanno attraversando il paese nonché sulle aporie e le contraddizioni che lo connotano. Il dialogo di Guido Alici con Fulvio Delli Pizzi offre un'interessante e complessa lettura dell'apporto che gli strumenti psicanalitici possono offrire nell'approccio al testo musicale nella misura in cui, andando oltre il livello -per così dire- oggettivo della partitura, consentono di riflettere sulle strategie impiegate dall'autore nell'atto della composizione e sugli elementi che determinano la formazione del giudizio estetico. L'ampia intervista ad Ahmad Nadalian realizzata da Elahe Zomorodi analizza la centralità del tema della natura nell'esperienza artistica dell'arte ambientale in cui elementi naturali vengono utilizzati per dare vita ad opere d'arte, mentre il contributo di Jean-Pierre Thiercelin riflette sul tema della memoria. La poesia nonsensica e in generale il rapporto creativo con la scrittura e il valore «architettonico-pittorico» della parola -che, in quanto pura forma, oltrepassa la capacità di rinviare ad una dimensione di significato- sono al centro dell'intervista a Toti Scialoja curata da Alessandro Tinterri.
Nella sezione “Fra le righe”, il dialogo con Joan Tronto curato da Maria Maltoni intende far emergere la specificità della posizione della studiosa circa il tema dell'etica della cura; rifiutando una prospettiva che volesse confinare il tema della cura alla sola etica femminile, la Tronto sottolinea come il lavoro di cura sia al contrario un aspetto correlato all'essere umano in quanto tale. L'intervento di Arrigo Colombo infine, distinguendo fra sviluppo e progresso, evidenzia il ruolo che può essere svolto dall'utopia -intesa non più come disegno di autori o di filosofi, quanto piuttosto come progetto per l'umanità- per la costruzione di una società di giustizia.