Verso la nuova democrazia
La prima ragione per cui ci interessiamo al rapporto tra religione e democrazia è che la democrazia si sta trasformando in qualcosa di diverso da ciò che l’Occidente ha elaborato e sperimentato nelle rivoluzioni di Sette-Ottocento, nelle codificazioni, negli stati laici, nei diritti umani del secondo dopo guerra. La globalizzazione economica e mediatica, l’internazionalizzazione e la regionalizzazione del diritto, i nuovi rapporti tra pubblico e privato hanno eroso il sistema democratico tradizionale centrato sulla sovranità statuale. Non per questo deve parlarsi di fine della democrazia: l’integrazione europea è in sé un grande esperimento di democrazia transfrontaliera, così come di nuova democrazia si tratta nella gestione della società multiculturale (il diritto di voto degli immigrati), aperta (la rappresentanza politica femminile), localizzata (la sussidiarietà), complessa (la governance).
La sperimentazione del nuovo spinge a recuperare e capire meglio il vecchio. Cosa hanno significato, nella democrazia greca, il politeismo, l’oligarchia, Socrate e Platone? Cosa e quanto hanno dato i canonisti mentre, come Bernardo di Pavia nel suo Summa de electione, definivano concetti chiavi della decisione collegiale e del principio di maggioranza o, come De Vitoria, vincolavano il sovrano al diritto naturale?
Idee, conflitti, interpretazioni ed esperienze raccontano una straordinaria molteplicità e contraddittorietà di elementi dietro l’unica parola democrazia. Non sempre tale ricchezza è rispettata. Non sempre è facile conservare equilibrio quando l’impatto politico e la posta ideologica in palio sono così alti. La logica dei media e della politica – ma anche degli schieramenti ideologico-religiosi – spinge alla semplificazione. Prevalgono gli estremi per cui il cristianesimo, e solo il cristianesimo, ha fatto la democrazia (dimenticando l’apartheid e le dittature sudamericane) o, al contrario, la democrazia è il frutto del trionfo della ragione illuminata sulla religione oscurantista (dimenticando i totalitarismi marxisti-leninisti). Per quanto fisiologico in tempi di transizione, il rischio di piegare la ricca complessità dello sviluppo democratico a comode tesi manichee va visto, detto e gestito. Soprattutto quando la democrazia è termine di confronto del religioso.
Verso la nuova religione
Il quale religioso è a sua volta non meno instabile e mobile, soggetto e oggetto di profonde trasformazioni nel tempo, nello spazio e nelle diverse tradizioni religiose e confessionali. Anche se in qualche modo il cambiamento del religioso è meno visibile e meno percepito – più negato – di quanto non sia il cambiamento della democrazia.
Perché oggi – anche quando si parla di democrazia – è anzitutto il ritorno del religioso a colpire. È il fatto che la religione non sembra più, come qualche decennio fa, un fenomeno recessivo e marginale, ma al contrario un fattore coinvolgente e montante, nella sua dimensione individuale e collettiva non meno che nella dinamica politica. Si parla di democrazia e religione perché la religione bussa alla porta dei Parlamenti, mette i piedi nella pubblica piazza, interpella scienza e tecnica, parla nelle parole dei giudici.
Aperta la strada da Kepel negli anni Ottanta con il suo fortunato «la revanche de Dieu», il ritorno del religioso diviene una formula che funziona a tutto campo ed in particolare nella cultura – dove crescono articoli, volumi e riviste – e nella politica – dove crescono strette di mano, discorsi, concordati.
Che il religioso ritorni non significa che ritorni eguale a prima. Invece curiosamente questa è spesso l’impressione. Si parla di fondamentalismo – di fondamentalismi – perché a fronte di una democrazia in transizione la religione si accredita nei suoi fondamentali e nella sua propria stabilità. Una risposta da lontano – i secoli di storia che le tradizioni religiose possono mettere sul piatto – e ovviamente una risposta dall’alto – l’alto da cui parla la parola di Dio inverata nella natura e nella ragione.
“Religione e democrazia” dovrebbe dunque essere lo scambio tra sicurezza e incertezza, stabilità e mutamento, profondo e effimero. Tale è spesso la strategia di uomini di politica e uomini di religione la cui legittimità sta nello squilibrio tra una democrazia fragile che invoca aiuto e una religione solida che soccorre.
Senonché anche la religione vive – non meno della democrazia – difficili tempi di cambiamento. Vi sono religioni nuove e altamente competitive. Vi sono nuove religiosità molto selettive a proposito delle quali si è parlato di religione à la carte. Vi sono una nuova interazione e nuovi meticciati tra religioni e confessioni favoriti dalla globalizzazione e dalla società multiculturale. Vi sono infine nuove e molteplici appartenenze all’interno delle medesime chiese e comunità. Il paesaggio inquieta non poco le autorità religiose responsabili di preservare il deposito di tradizioni e l’unità istituzionale. Non è soltanto un problema di competizione con testimoni di Geova e buddisti, più bravi dei cattolici a fare il porta a porta o a profumare le sale di preghiera. È in questione il rapporto tra unità e diversità su cui si sono costruite le tradizioni religiose, e soprattutto l’identità e l’appartenenza, il contenuto di un’esperienza di fede. In fondo, cosa si intende per religione e in cosa crede chi crede. Proprio nel tempo dell’apparente riproporsi trionfante delle vecchie e rassicuranti identità, la religione si muove verso una nuova religione. Anche per questo il rapporto con la democrazia è cruciale.
Verso una democrazia religiosa
Elementi macroscopici sembrano ostare ad una vera e profonda conciliazione tra democratico e religioso. Alcuni elementi sono storici, come la rottura dell’illuminismo e della Rivoluzione francese e la separazione – quel tipo di separazione – tra politica e religione. Altri elementi sono persistenti ed intrinseci in quanto direttamente attinenti al rapporto tra religione rivelata – implicante una dinamica dall’alto al basso – e sovranità popolare democratica – implicante una dinamica dal basso in alto. Per quanto le religioni abbiano integrato metodi e logiche democratiche (elezioni, collegi) e per quanto le religioni – tutte le religioni in un modo o nell’altro – siano state esse stesse laboratori di democrazia quando hanno pensato il principio maggioritario o la superiorità del popolo sul tiranno, la democrazia occidentale liberale si afferma in coincidenza con la fine di ogni “ingerenza di Dio” nell’allocazione della sovranità e nella relativa libertà di esercizio.
Tuttavia l’età della nuova democrazia e della nuova religione apre una ulteriore stagione nei rapporti tra queste due asimmetriche realtà e spinge a ripensare gli ostacoli che fin qui si sono opposti ad una maggiore integrazione reciproca.
Il primo passo è la rottura del tabù per cui la democrazia non può essere religiosa, nel senso che la sfera pubblica (le istituzioni, la politica, il diritto) deve essere neutralizzata e vuota rispetto al religioso. Su questo tabù occorre intendersi. Non è vero infatti che, come sostiene chi denuncia l’imprigionamento della religione nella sfera privata, la secolarizzazione e l’avvento dello stato laico abbiano comportato l’espulsione del religioso dalla sfera pubblica. Non è accaduto nei totalitarismi nazifascisti che hanno anzi usato la religione col beneplacito di tante autorità religiose e neppure in quelli marxisti-leninisti che hanno a loro volta conservato o creato forme religiose al loro interno. Tanto meno è accaduto nei sistemi e nelle fasi cui si rimprovera un laicismo antireligioso: per intenderci, non è accaduto neppure nella Francia che ha generosamente finanziato le scuole cattoliche e protetto le religioni tradizionali contro la scomoda concorrenza delle “sette” (ritenendo tra l’altro che una croce di modeste dimensioni possa entrare nella scuola pubblica al contrario dei veli islamici). E non accade nella Spagna di Zapatero in cui le garanzie – i privilegi – per la Chiesa cattolica sono intatti (anche perché coperti da una fonte concordataria inattaccabile dal solo Parlamento nazionale). Il tabù della neutralizzazione antireligiosa della sfera pubblica esiste soltanto in sparute e marginali aree della politica e nel vittimismo di autorità religiose in cerca di nuovi riconoscimenti. Oppure in talune reazioni delle opinioni pubbliche occidentali al disegno di colonizzazione (non religiosa ma) confessionale di aree sensibili come il diritto di famiglia. È semmai vero che si avverte la tentazione di usare tale tabù selettivamente – mentre si strizza l’occhio alle autorità religiose maggioritarie – per discriminare religioni scomode come l’Islam.
Ciò che invece esiste è la difficile quotidiana scrittura di nuovi equilibri tra democrazie e religioni. Dove le religioni oscillano tra la difesa della propria libertà – la tradizionale libertas ecclesiae – e l’attacco contro la società occidentale atea e materialista. Al netto dei pochi antireligiosi di professione (ampiamente compensati dai falsi religiosi di comodo) e di autorità religiose in preda al delirio da minaccia laicista, la grande maggioranza di cittadini e attori sociali e politico-religiosi non pensa che la democrazia debba essere antireligiosa e neppure a-religiosa. Pensa che sia possibile – come già abbondantemente praticato – sviluppare ulteriormente una democrazia religiosa. Una democrazia non soltanto capace di riconoscere ampie libertà alla religione, ma anche di includerne valori e principi.
Verso una religione democratica
Una democrazia religiosa è possibile soltanto a due condizioni. La prima è insita nel nucleo essenziale della democrazia stessa e dei diritti fondamentali. Come ha chiarito la Corte dei diritti umani di Strasburgo sul caso turco del disciolto partito della prosperità, l’appartenenza religiosa non può alterare la fondamentale eguaglianza tra cittadini. O meglio, può darsi diverso riconoscimento statale dei diversi statuti confessionali, ma senza superare il limite dell’eguaglianza nei diritti e le libertà fondamentali. Al contempo, come insegna la Corte costituzionale italiana, quale che sia la tradizione religiosa del paese o la composizione religiosa dello stesso, lo stato deve mantenere una propria neutralità minima a garanzia della pluralità sociale. Questo è, in fondo, il sistema affermatosi in Europa al di là delle specifiche differenze nazionali. Ed è il sistema oggi sfidato in parte dalla crisi delle identità nazionali e in parte dalla domanda di discriminare tra buona e cattiva religione: una religione cattiva da combattere (perché aggressiva, disgregatrice, incompatibile coi valori europei) e una religione buona da sostenere (perché radicata nell’identità europea, perché mobilitabile in difesa degli interessi minacciati, perché di soccorso alla fragilità dello stato e della nazione).
Ma la condizione più scomoda e problematica riguarda le dinamiche interne ai gruppi religiosi. Mentre le istituzioni politiche sembrano aprirsi – talvolta quasi arrendersi – al religioso, in realtà esse stanno spingendo il religioso a trasformarsi in senso democratico. E pongono tale trasformazione come cauzione della nuova inclusione del religioso nella democrazia. È il dibattito sulla compatibilità tra Islam e democrazia, ma anche e soprattutto la tensione interna alle chiese cristiane sull’integrazione nei rispettivi ordinamenti confessionali dei meccanismi e dei principi democratici. Per alcune chiese protestanti è un vecchio tema in qualche modo risolto già negli anni Sessanta e oggi soltanto problematico rispetto all’unità tra comunità occidentali e non (basti pensare alle tensioni nella comunione anglicana con le chiese africane). Per le chiese ortodosse è una questione di legame con gli stati di riferimento e di lento reciproco spingersi verso e allontanarsi dalla democratizzazione. Nella chiesa cattolica sembra tenere il doppio passo imposto da Giovanni Paolo II: Santa Sede in prima fila nella comunità internazionale per la democratizzazione e i diritti umani, diritto canonico prudente nell’implementazione interna dei diritti in ossequio al principio di specificità (costituzione gerarchica, sovranità divina, ecc.).
Gli stati non chiedono alle religioni di democratizzarsi. Non si tratta di una clausola esplicitata. Il fatto stesso di una tradizionale democrazia statual-nazionale in transizione verso la democrazia della globalizzazione implica un abbattimento del muro che fin qui ha protetto certe comunità religiose. Tra conflitti e controtendenze appare comunque inevitabile la sfida di una interazione più profonda della religione con principi e meccanismi della decisione di popolo, dell’equilibrio maggioranza-minoranza, dei diritti fondamentali. È un processo simile a quello innescatosi nel Settecento e che ha portato attraverso la crisi ottocentesca le profonde trasformazioni che conosciamo nella stessa chiesa cattolica.
Democrazia religiosa e religione democratica vanno insieme. Certo non necessariamente il futuro dell’umanità sarà democratico. Ma se lo sarà, difficilmente potrà esserlo senza una nuova inclusione della religione nella democrazia e della democrazia nella religione.
Nota bibliografica
Per maggiori dettagli su fonti e metodo delle riflessioni qui presentate, mi permetto di rinviare ad alcuni miei scritti sul tema:
— Urge una “politica religiosa”, in “Confronti”, 11, 2006, p. 5.
— Religioni forti. Democrazie deboli, in “Corriere della Sera”, 16 gennaio 2006, p. 27.
— Religion and law in dialogue: covenantal and non-covenantal cooperation of state and religions in Italy, in Religion and law in dialogue: covenantal and non-covenantal cooperation between state and religion in Europe, ed. by R. Puza – N. Doe, Peeters, Leuven 2006, pp. 115-129.
— La liberté de conscience dans la régulation publique de la religion. La compétition européenne, in Un nœud de libertés, édité par J.B Marie – P. Meyer-Bisch, Bruylant – Schulthess, Bruxelles 2005, pp. 133-157.
— Religione ed Europa. Coordinate per un transizione intelligente, in “Credere oggi”, 141, 2004, pp. 53-66.
— Religione, schiavitù e liberazione nel mondo globale, in “Revista de direitos difusos”, 23, 2004, pp. 3271-3279.
— Dimensione religiosa e dimensione giuridica nella globalizzazione, in Identità multiculturale e multireligiosa, a cura di R. De Vita – F. Berti – L. Nasi, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 250-259.
— La laicità dell’Unione europea. Diritti, mercato, religione, Giappichelli, Torino 2001.
— Maior et sanior pars. Attualità della riflessione di Edoardo Ruffini circa il principio maggioritario nel diritto canonico, in Lo studio del diritto ecclesiastico. Attualità e prospettive, Edisud, 1, Salerno 1996, pp. 259-277.
— Pena e penitenza nel diritto canonico postconciliare, ESI, Napoli 1996.
Si vedano inoltre i numeri da 1/2001 a 5/2005 di “Daimon. Annuario di Diritto Comparato delle Religioni” (il Mulino, Bologna) ed in particolare il dossier tematico su democrazia e diritti religiosi nel numero 5/2005.